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Turchia, due contributi per comprendere quanto sta accadendo

Luca Foschi su L’Unione e Laura Tocco su La Nuova: i ricercatori dell’Ateneo spiegano i cambiamenti della storia
18 luglio 2016

Sergio Nuvoli 

Cagliari, 17 luglio 2016 – Sono uscite, in contemporanea non casuale, due riflessioni sui quotidiani sardi firmate da altrettanti giovani ricercatori della Facoltà di Scienze economiche, giuridiche e politiche sui recenti fatti che hanno coinvolto la Turchia.
 
Su L’Unione Sarda di ieri Luca Foschi, dottorando di ricerca, sigla una pagina dal significativo titolo “Il sultano indispensabile”, mentre Laura Tocco, Phd in Storia delle istituzioni del Vicino Oriente, nella stessa giornata ha rilasciato un’intervista a Claudio Zoccheddu de La Nuova Sardegna. Nella stessa pagina, Anna Aloi, responsabile Ismoka, spiega cosa potrebbe cambiare per gli studenti Erasmus.
 
Li pubblichiamo perché riteniamo possano essere un contributo importante per comprendere quanto sta accadendo nel mondo. Grazie ai giovani ricercatori di UniCa, che frequentano per le loro ricerche anche le zone più pericolose del pianeta.
 
 
L’UNIONE SARDA
L’UNIONE SARDA del 17 luglio 2016
Cronaca Regionale (Pagina 2 - Edizione CA)
di Luca Foschi
 
Solo un capolavoro militare avrebbe potuto abbattere la complessa struttura difensiva plasmata da Erdogan negli ultimi tredici anni di egemonia. Il potere è tanto pervasivo quanto effimero negli Stati creati dopo la Prima Guerra Mondiale da britannici e francesi, impegnati a inventare confini nelle vaste province dell’ex Impero Ottomano. Anche nell’antico cuore della Turchia, strappata all’abbraccio stanco dell’imperialismo dal generale e poi presidente Mustafa Kamal Ataturk, e da questo rifondata sui pilastri del secolarismo nazionalista e del mercato sempre più globale. La modernità, secondo la prepotenza del canone.
La storia è ostile ai cambiamenti. Erdogan si è preoccupato fin da subito, e con incisività progressiva, di inchiodare la trasformazione ai gangli dell’apparato politico che tante volte in passato avevano veicolato il rovesciamento dello status quo. L’islamizzazione di un Paese costruito sulla laicità delle istituzioni, incarnata dall’esercito, non poteva non produrre uno spasmo di rifiuto. Ma, come è stato possibile osservare nella lunga notte di venerdì, la macchina preparata dal sultano dell’AKP ha funzionato con zelo.
I quadri islamizzati dell’esercito hanno reagito con sollecitudine. I servizi segreti e la polizia fedele al Ministero degli Interni, trasformata in unità pretoriana corazzata, è stata in grado di affrontare le mimetiche nella breve guerriglia urbana. Il monopolio mediatico e la rete, una novità rispetto al “golpe postmoderno” del 1997, ha aggirato l’incertezza che solitamente in un rovesciamento è fondamentale per la paralisi delle forze armate non direttamente coinvolte. L’intervista realizzata grazie a un’applicazione dello smartphone ha disperso l’ambiguità sull’elemento più classico e determinante, la condizione di ostaggio del capo dell’esecutivo. Incorniciato dal telefono e dalle unghie smaltate del mezzobusto CNN Erdogan ha invocato il popolo dell’AKP, convinto da una lunga stagione di crescita economica, e rassicurato i governi internazionali. La centralità geopolitica conquistata nell’ultimo decennio e soprattutto con la crisi siriana ha polarizzato la diplomazia. Un lascito della “profondità strategica” teorizzata da Davutoglu, primo ministro recentemente liquidato per carenza di lealismo.
Un momento bizzarro per la scelta di un golpe. Con il placido colpo di stato elettorale dello scorso luglio Erdogan si è assicurato la maggioranza di assemblee e piazze. Nelle ultime settimane la Turchia ha riallacciato i rapporti con Russia e Israele. Gli Stati Uniti fondano le loro operazioni aeree in Siria e Iraq sulla base di Incirlik.
La storiografia ci dirà forse se l’appoggio di Obama e Kerry al governo pericolante di Erdogan, diramato nelle prime ore di sabato, sia sopraggiunto solo con l’accertato fallimento del putsch, e se questo sia stato ispirato da Fethullah Gulem, influente figura esiliata dell’opposizione e paladino della democrazia nelle dichiarazioni mattutine rilasciate dal suo appartamento in Pennsylvania. Così per i partiti di opposizione ad Ankara, cui il supporto maldestro alla giunta militare sarebbe costato l’estinzione. Difficile tuttavia eliminare il sospetto che, se i golpisti avessero avuto ragione dei governativi, Erdogan avrebbe fatto la stessa fine del democraticamente eletto presidente egiziano Morsi.
I tre milioni di rifugiati siriani accampati in Turchia sono sufficienti ad ammutolire qualsiasi istanza dell’Ue, dove il populismo di destra utilizza i migranti per seminare fobie, scalare i governi e perseguire politiche di distacco dal collegio inceppato di Bruxelles. Mogherini, Merkel, Junker e il neo ministro britannico Johnson si sono spesi nella difesa del governo eletto di Erdogan, tralasciando la repressione della stampa, le purghe nel sistema giudiziario, la legge che ha cancellato l’immunità parlamentare, l’intreccio corrotto di economia e finanza, i diritti negati e l’assedio di 25 milioni di curdi e, naturalmente, l’appoggio ai gruppi jihadisti che si battono in Siria.
Così l’Europa ha democraticamente supportato l’ennesimo dittatore e alimentato il globale brodo di cultura terroristica che nell’ultimo mese ha ispirato il terrore nell’aeroporto di Istanbul, nella suburra sciita di Baghdad, a Medina nelle ultime ore del Ramadan, nel piccolo villaggio cristiano di Qaa in Libano, a Dacca e Nizza. Qui il 31enne Mohamed Lahouaiej Bouhlel ha dimostrato che perfino uno fra i più efficienti apparati di sicurezza del mondo, flesso nello stato d’emergenza chiamato dopo il massacro del 13 novembre a Parigi, può nulla contro un oscuro chauffeur di origini tunisine che ha applicato alla regola l’indicazione del portavoce dello Stato Islamico Muhammad al-Adnani: «Spaccagli la testa con una pietra, squarcialo con un coltello, investilo».
È l’individualizzazione pervertita del jihad, la guerra portata ovunque con qualunque mezzo, il terrorismo che da cellulare diventa atomistico, perso nella moltitudine e invisibile, l’incubo dell’altro portato nelle strade d’Occidente. Reazioni militari scomposte, Stati sempre più invasivi e paranoici e odio sociale verso i musulmani, sono queste le armi di lunga gittata per un Califfato in palese e inevitabile arretramento.
In un anno la macchia scura che trapassa il confine fra Siria e Iraq si è ridotta del 30%. Così le risorse necessarie al conflitto e all’equilibrio comunitario, costretto in una bolla totalitaria. Il corridoio che portava in Turchia è stato sigillato dalle Forze Democratiche Siriane e dall’esercito del PYD curdo, artefice di uno Stato libertario e federale nella cornice del nord siriano. Supportati dalle incursioni aeree internazionali FDS e PYD hanno cominciato il lento accerchiamento di Raqqa. Ad Aleppo le truppe lealiste di Asad conducono un assedio che se portato a termine potrebbe risultare decisivo per l’andamento della guerra. Un mese fa lo Stato Islamico perdeva Falluja, prima città conquistata in Iraq. Da qui è partita la campagna per la capitale Mosul, lentamente soffocata a nord dalle forze governative affiancate dai curdi iracheni dell’ UPK e del PKD.
Mentre Stati Uniti e Russia cercano l’intesa sul nuovo “Grande gioco”, o le spartizioni della nuova Guerra Fredda, l’animale ferito colpisce a Baghdad i figli di un dio mediatico minore, e a Nizza, pur senza aver dato l’ordine, perché il malessere individuale sposa le astratte fascinazioni dell’ideologia, e diventa senso, un senso che porta orrore, odio e spettacolo. Un luogo molto distante dalla pericolosa china della storia, che è ostile ai cambiamenti, ma tende a ripetersi. Come i colpi di Stato.
 
CHI È L’AUTORE
Un reporter nelle trincee calde del mondo

Luca Foschi è nato a Cagliari nel 1981. Dopo la laurea in Lettere Moderne ha vissuto a Londra, dove ha conseguito il diploma post universitario in giornalismo presso la London School of Journalism. Rientrato in Sardegna ha cominciato la collaborazione con L’Unione Sarda. Nel 2012 ha frequentato il Corso per inviati in aree di crisi “Maria Grazia Cutuli”, che lo avrebbe portato a scrivere e fotografare da molti fronti di guerra, per diverse testate nazionali.
Attualmente si trova in Libano, seconda tappa di uno studio sui partiti politici del Medio Oriente condotto per il dottorato di ricerca che lo lega alla facoltà di Scienze politiche dell’Università di Cagliari.
 

 
LA NUOVA SARDEGNA
LA NUOVA SARDEGNA del 17 luglio 2016
Fatto del giorno – pagina 5
di Claudio Zoccheddu
 
SASSARI «È una nazione complicata, divisa in tante fazioni. Comprendere l’evoluzione di questa situazione è difficile, possiamo solo fare ipotesi». Anche il racconto di Laura Tocco, esperta di turcologia della facoltà di Scienze politiche dell’università di Cagliari, è un’analisi che si basa su pochi dati di fatto e su alcune suggestioni. Eppure Laura è una ragazza che ha studiato da vicino un Paese tanto esteso quanto diviso, una nazione piena di etnie e di contraddizioni. La Turchia è un piccolo continente sospeso, non solo geograficamente, tra il medio oriente e il blocco occidentale dove Laura ha vissuto per due anni e dove aveva in programma di ritornare nella “sua” Istanbul per completare il suo percorso di studio della nazione turca: «Ma adesso credo che aspetterò qualche tempo, farò prima calmare le acque», ha detto ieri. Tra le tante incertezze c’è proprio il futuro prossimo, quello che accadrà da oggi a qualche giorno: «Il mio timore, e quello degli amici turchi, è che il colpo di Stato appena fallito possa rafforzare il potere del presidente Erdogan e giustifichi, in qualche modo, una nuova e più violenta campagna di repressione e arresti degli oppositori. Adesso Erdogan dice che la nazione è dalla sua parte ma non è così, ha tanti oppositori che ieri non sono scesi in piazza». Tra la immagini più forti dal punto di vista mediatico c’erano proprio le piazze di Istanbul che si stringevano attorno ai militari: «Questo è un elemento nuovo che non si era verificato nei precedenti golpe guidati dall’esercito», ha detto ancora Laura Tocco, «Erdogan mentre era in fuga ha diffuso un messaggio con cui invitava la popolazione a scendere in piazza. Una novità, prima chi si opponeva veniva arrestato». E chi ne esce più ridimensionato è sicuramente l’esercito: «Anche in questo caso ci sono parecchie distinzioni da fare. L’esercito è sempre stato il difensore delle istituzioni repubblicane e della laicità dello Stato. Anche in questo caso ha provato a mettere in discussione il potere autoritario del presidente ma non ce l’ha fatta perché era diviso. I golpisti non avevano il sostegno di tutte le forze armate, anzi». L’esito è stato quello trasmesso in mondovisione, con Erdogan che in un paio d’ore ha smesso i panni del fuggiasco per indossare quelli del vendicatore, promettendo di farla pagare a chi si era schierato contro il suo governo: «L’Ak Parti è un partito radicato e se i golpisti avevano parecchi sostenitori, Erdogan ne conta altrettanti. Poi ci sono i partiti filo curdi e quelli di sinistra che di certo non vedevano di buon occhio un golpe militare. E ancora gli ultranazionalisti e tante altre fazioni tra cui quelle musulmane ma in questo caso non è una questione di religione, in ballo ci sono soprattutto interessi economici. Chi sostiene Erdogan lo fa perché gli conviene, l’Akp ha sempre avuto rapporti con i grandi gruppi finanziari». E il futuro è un’incognita che fa paura: «Erdogan aveva già arrestato giornalisti, politici e intellettuali. Temo che possa continuare sfruttando il fatto di essere sopravvissuto a un golpe militare», ha concluso Laura Tocco.
 

  UFFICIO STAMPA ATENEO - mail ufficiostampa@amm.unica.it - Sergio Nuvoli - tel. 070 6752216


 

 

               

 

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