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La Regina e il Mercato: Viaggio nell’Università Britannica

Un confronto tra Regno Unito e Italia
18 ottobre 2009

di Lorenzo Biondi

È solo una classifica, vero, ma che debacle. All’appuntamento annuale con la classifica delle migliori università del mondo - stilata dal Times di Londra insieme all’istituto di ricerca Quacquarelli-Symonds (QS) - il primo Ateneo italiano, l’Alma Mater di Bologna, è al 174esimo posto. E pensare che, alla sua nascita, l’università di Bologna era la prima, e l’unica, università del mondo occidentale: correva l’anno 1066.
Nel 2009 Bologna è la sola università italiana tra le migliori duecento. A parte lo strapotere americano, quattro dei primi dieci posti (e 29 su duecento) vanno al Regno Unito. Che l’università britannica sia una replica in piccolo di quella americana? Tutt’altro in realtà; il sistema inglese è piuttosto simile a quelli europei. Qual è allora il segreto del successo di Cambridge, Oxford e compagne?
Cerchiamo di capirlo rispondendo ad alcune domande di base.

Chi paga?
Il principale finanziatore del sistema universitario britannico è lo Stato, come anche nel resto d’Europa. Il settore privato, però, ha un peso maggiore che non sul continente. Per intenderci: nel Regno Unito il 64% del bilancio del sistema universitario poggia su denaro pubblico. Negli Stati Uniti la cifra si dimezza al 34%, mentre nel resto d’Europa la percentuale arriva in media all’81%. I Paesi scandinavi sono i più «statalisti», seguiti da Francia e Germania. In Italia lo Stato contribuisce per il 73%.
La percentuale del prodotto interno lordo che gli inglesi investono sull’educazione universitaria è leggermente inferiore alla media europea (2,4 contro 2,9%). Il governo Usa - nonostante un sistema privatistico - spende il 3,9% del Pil. L’Italia si ferma all’1,6%, fanalino di coda dei Paesi Oecd.

Chi spende?
Lo Stato paga, l’università spende. La maggior parte dei soldi che affluiscono nelle casse degli Atenei inglesi non sono soggetti a nessun vincolo di spesa. Sta alla singola università decidere in che settori investire le proprie risorse.
Non si tratta però di semplici assegni in bianco. Un ente del governo di Londra stila una classifica della produttività di ogni istituzione, e i fondi vengono assegnati sulla base dei risultati raggiunti. Un sistema simile a quello che Mariastella Gelmini vuole introdurre in Italia. In Gran Bretagna però la valutazione dura cinque anni e viene svolta da 67 diverse sottocommissioni. La classifica della Gelmini è arrivata in soli sei mesi: non sorprende, allora, che siano stati sollevati molti dubbi sulla serietà del lavoro.

Tutto denaro pubblico?
No. Il resto del bilancio delle università dipende dalla capacità di ogni Ateneo di attrarre investitori privati, e dai pagamenti diretti da parte degli studenti.
Due esempi: lo University College London (UCL, al quarto posto nella classifica globale) è un’università di medie dimensioni con circa 20 mila studenti. La maggior parte dei fondi arriva da contributi statali o da finanziamenti alla ricerca, per metà di origine governativa e per metà privati. Le tasse pagate dagli studenti coprono solo il 17% del bilancio.
La London School of Economics and Political Science (LSE), invece, è un campus più piccolo (9000 iscritti), specializzato nelle scienze sociali (numero 4 al mondo nel settore). A LSE circa metà delbilancio è coperto da quello che versano gli studenti - che pagano molto più che altrove. Un ulteriore 23% arriva da «altre attività» remunerative svolte dall’università: la gestione delle residenze universitarie, delle mense e dei bar interni, i profitti della biblioteca e della casa editrice. Un centro d’eccellenza, ma anche una vera e propria macchina da soldi.

Quanto costa agli studenti?
Molto. Lo studente medio nel Regno Unito spende circa 3.200 euro all’anno in tasse universitarie. In Italia l’università pubblica costa in media 750 euro all’anno, quella privata circa 2.600.
Esiste però una differenza tra corsi di laurea. Per le lauree «triennali» - il cosiddetto undergraduate- il governo britannico impone alle università un tetto massimo di 3.000 steline all’anno (circa 3.300 euro). Ogni università stabilisce il livello delle proprie tasse, tenendo presenti i propri bisogni economici ma anche la necessità di essere «competitiva» sul mercato. Il postgraduate, invece, non è sottoposto a nessun limite di prezzo, e un master di un anno - in pochi casi - può arrivare a costare anche 20.000 euro.

Un’università per ricchi, quindi?
In parte, ma con uno sforzo per non impedire l’accesso agli studenti meno abbienti. La Gran Bretagna spende lo 0,3% del Pil in borse di studio per gli studenti universitari, più del doppio di quanto spende l’Italia (0,13%) e poco più della media Oecd.
Studi recenti hanno però dimostrato l’efficacia limitata di questi provvedimenti: approda all’università il 70% dei figli di famiglie di professionisti, ma solo il 15% dei figli di operai.
Il punto è che il dato sulla partecipazione dei ceti più svantaggiati all’educazione universitaria, in Italia, non è molto diverso. L’università nostrana è meno efficiente senza essere sensibilmente più equa. Se non ci sarà un cambiamento di rotta, rischiamo di perdere anche quel (misero) 174esimo posto.
 

(da: http://www.meltinpotonweb.com)

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