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Documento delle Facoltà di Scienze italiane sulla riforma universitaria

Il Prof. Roberto Crnjar, Presidente della Conferenza Nazionale dei Presidi delle Facoltà di Scienze e Tecnologie, presenta il documento a Cagliari - 10 novembre, ore 16.30 Aula Magna Cittadella di Monserrato
10 novembre 2008

Lunedi 10 novembre, alle ore 16,30, presso l’Aula Magna della Cittadella universitaria di Monserrato, il Prof. Roberto Crnjar, Presidente della Conferenza Nazionale dei Presidi delle Facoltà di Scienze e Tecnologie - nonche’ preside della facolta’ di Scienze dell’Universita’ di Cagliari, presentera’ ai docenti e agli studenti il documento che le facolta’ di scienze delle Universita’ italiane indirizzano al Governo e all’opinione pubblica in merito alle problematiche della riforma universitaria.

DOCUMENTO DELLE FACOLTA’ DI SCIENZE
DELLE UNIVERSITA’ ITALIANE


La Conferenza Nazionale dei Presidi delle Facoltà di Scienze e Tecnologie conferma quanto espresso  nel luglio scorso in riferimento al DM 112 del 25 giugno scorso in tema di “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”, poi trasformato in legge 133/08. Si sottolineavano le pericolose conseguenze riguardanti l’Università  e in particolare la Scienza italiana.
E’, infatti, nell’Università (come è facilmente desumibile dagli indicatori bibliografici a livello mondiale facilmente disponibili e consultabili) che si svolge e si produce nel nostro paese la parte preponderante della attività e della produzione scientifica, fattori  indispensabili per contrastare il declino della nostra economia. Il taglio dei fondi e la limitazione del turnover, affidato a meccanismi automatici e non selettivi,  aggravano una situazione già grave per i mancati investimenti in ricerca e sviluppo per la progressiva riduzione negli ultimi anni della quota del PIL destinata a Università e ricerca. L’Italia si muove da tempo in controtendenza rispetto agli altri paesi europei, anche a dispetto dei patti internazionali sottoscritti e senza considerare poi il confronto con l’elevato livello d’investimenti dei paesi emergenti.
L’accademia e la scienza italiana soffrono di un progressivo invecchiamento, dovuto anche alla mancata offerta ai giovani scienziati italiani di condizioni competitive di lavoro e di remunerazione e all’insufficiente reclutamento, che determina un costante flusso verso l’estero dei nostri migliori talenti. Ma dove si sono formati tutti quei “cervelli in fuga”  che riscuotono all’estero così tanto successo?  Non sono essi forse un chiaro segnale della qualità di nostri laureati e dottorati e della validità dei nostri percorsi formativi?
La forte limitazione del turnover, ancorché ridimensionata nelle linee guida recentemente presentate dal Ministro Gelmini,  e l’annunciata riduzione del finanziamento,  se non corretta da strumenti e criteri selettivi, interferiranno drammaticamente nel  ricambio generazionale con ripercussioni gravi sia per ciò che concerne la qualità dell’offerta didattica che per il mantenimento degli standard di eccellenza della ricerca universitaria. A questo proposito sono da accogliere come un segnale favorevole e in controtendenza le disposizioni, nelle su menzionate linee guida, finalizzate a favorire il reclutamento di giovani ricercatori nelle Università.
Circa l’attività di ricerca, che è uno dei compiti istituzionali dei docenti universitari troppo spesso ignorato quando si parla di docenti “fannulloni” o sottoimpegnati, basti pensare ai  risultati della ricerca italiana nei settori scientifico tecnologici, di cui le Facoltà di Scienze  degli Atenei italiani sono parte determinante, quando confrontati con quelli degli altri paesi nel mondo (“The scientific impact of Nations”, Nature, 2004 Vol. 430,  311-316), per rendersi conto del patrimonio culturale  e delle potenzialità di sviluppo che vengono messe a rischio da un indiscriminato intervento di riduzione del finanziamento e del turnover del personale.
Al riguardo,  i professori e i ricercatori delle Facoltà Scientifiche si trovano, nei confronti della pubblica opinione in una ben strana situazione. Come scienziati essi godono di un’ampia stima e riconoscenza ed è a tutti chiaro l’impegno e la forte dedizione al lavoro richiesti dalla loro attività. Come docenti universitari vengono considerati – secondo gli stereotipi dominanti – disimpegnati, assenteisti e rivolti al proprio personale interesse. Veramente singolare è questa descrizione, visto che si tratta delle medesime persone e della stessa attività.
Le Facoltà di Scienze non intendono sottrarsi ad un serio processo di valutazione e ad una ridistribuzione delle risorse in base alle valutazioni stesse, purché effettuate da organi terzi competenti ed indipendenti. Esse hanno nella loro tradizione scientifica, che opera in un contesto internazionale, una consuetudine alle valutazioni di merito. La riallocazione delle risorse, per essere utile e produttiva, deve premiare le buone pratiche e i risultati di qualità e punire le mediocrità e le insufficienze.
La Conferenza è peraltro consapevole del fatto che l’università non è priva di inefficienze, diseconomie, problemi di organizzazione e di governance, episodi di malgoverno e comportamenti illeciti. I primi difetti si possono rimuovere con norme semplici che possono essere banalmente copiate dai paesi dove funzionano bene e sono messe alla prova da anni. Gli altri aspetti vanno colpiti nelle responsabilità individuali e non è accettabile che gli errori di divengano un pretesto per colpire l’istituzione universitaria.
Affrontiamo alcuni dei temi aperti dalla stampa anche a seguito degli interventi del governo:
Vi sono troppi atenei? Non è del tutto vero, se ci si confronta con altri paesi e si rapportano i numeri alla popolazione. E’ vero invece che le dimensioni dei nostri atenei sono tra loro estremamente differenti. Nulla vieta tuttavia, se si vuole diminuire il numero di atenei, favorendone le aggregazioni, di fissare un numero massimo e delle dimensioni di riferimento per gli atenei statali.
Vi sono troppi corsi di studio? Forse, ma va ricordato che il tanto declamato scandalo degli oltre 5500 corsi, deriva in larga parte dalla sostituzione del “vecchio ordinamento” a ciclo unico con i due cicli (triennale e magistrale) disposti per legge. Non trascurabile per la crescita del numero dei corsi sono anche la proliferazione delle Classi di laurea, i rigidi vincoli imposti nei corsi interclasse e gli sdoppiamenti dovuti per i corsi molto frequentati. Si può ridurre il numero delle classi e rinunciare a corsi effimeri o di profilo meno impegnativo, che non devono necessariamente essere svolti a livello di Università.
Vi sono troppi docenti? 38.000 sono i professori tra ordinari ed associati, 22.000 i ricercatori, tutti caratterizzati da un’elevata età anagrafica media. Se è vero che negli altri grandi stati europei vi è un numero inferiore di professori, è anche vero che le altre figure coinvolte nella ricerca e nell’insegnamento universitari sono presenti in numero ben maggiore dei nostri ricercatori. Le rappresentazioni a “cilindro” o “tronco di cono” usate per descrivere la distribuzione dell’organico docenti e ricercatori dei nostri atenei, denotano l’inderogabile necessità di un allargamento della base con l’ingresso di giovani. Ciò richiede finanziamenti, se non uguali, almeno confrontabili con quelli del resto d’Europa per l’istruzione superiore e la ricerca. Esiste d’altronde negli atenei italiani una fascia di addetti alla ricerca tra i trenta e quaranta anni (post-dottorato, assegni di ricerca, contratti, etc.) con una situazione retributiva insufficiente e precaria. La carriera di queste persone non dovrebbe necessariamente svolgersi nel mondo accademico, ma parte di loro, al termine di un percorso di elevata qualità nella ricerca e nell’insegnamento, dovrebbe poter accedere a posizioni di alto profilo nella pubblica amministrazione e nel mondo produttivo.
Vi sono troppi settori disciplinari? L’elevato numero dei docenti e la non omogenea qualità degli stessi è dovuta anche alla frammentazione, non uniforme nelle aree diverse,  dei settori disciplinari (360 contro i 70-100 che sarebbero ragionevoli).
Questi problemi potrebbero essere affrontati e risolti da un numero limitato di provvedimenti semplici, mentre pochi articoli di una legge di natura finanziaria qual è la 133 determinano in modo indiretto, imprevedibile e non governato, una grande trasformazione dell’assetto dell’Università. Tutto questo pone in grave difficoltà lo sviluppo e la continuazione della vita scientifica con il conseguente prevedibile grave impatto sull’assetto produttivo ed economico, sulla qualità del lavoro e delle competenze professionali e scientifiche e sulla competitività del nostro paese.
Per tali motivi la Conferenza dei Presidi di Scienze considera indispensabile e prioritario uno stralcio, o almeno la sospensione, dell’impianto dei tagli al finanziamento pubblico per l’Università così come previsti nella legge 133; un gesto che permetterà un’analisi più attenta ed un più approfondito confronto costi/benefici, tra le esigenze finanziarie contingenti del Paese e la distruzione di quanto di buono c’è nell’università pubblica. In quest’ottica, la Conferenza dei Presidi di Scienze accoglie con costruttiva attenzione, ma anche con cautela, le linee guida presentate in data 6 novembre dal Ministro Gelmini e le considera come un primo passo verso una valutazione dei problemi dell’Università che sia condivisa tra tutte le forze politiche, sociali ed accademiche e  che porti, in sede parlamentare, alla progettazione di nuove regole per l’Università del futuro.
La comunità degli scienziati italiani, rappresentata anche dai presidi delle facoltà di scienze, chiede di essere ascoltata su questi temi vitali per il sistema paese.

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