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Punire gli atenei in rosso

Il ministro dell’Istruzione mette d’accordo la maggioranza e accelera sulla riforma dell’università
05 novembre 2008



FLAVIA AMABILE


Un decreto legge sull’Università entro questa settimana per dare subito il via a due priorità: una modifica radicale dei criteri di selezione nei concorsi e norme più restrittive per gli atenei che non riescono a far quadrare i bilanci. Il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini ieri ha incassato il sostegno della maggioranza, un sostegno che aveva chiesto con forza la scorsa settimana.

E ha ottenuto il via libera a andare avanti in tempi rapidi su questi due aspetti della riforma dell’università. E quindi dare un’impronta diversa al regolamento Mussi per le assunzioni dei ricercatori che il governo ha sempre ritenuto poco trasparente e iniziare a differenziare fra atenei virtuosi e altri che non lo sono in modo da lanciare un primo segnale deciso e netto lungo la strada della meritocrazia e della lotta ai ’baroni’.

E quindi ora al ministero si sta studiando come dare forma nel giro di pochi giorni a questo decreto-legge che probabilmente invece non conterrà l’annullamento di ogni ostacolo ai concorsi per ricercatori in modo da garantire un turn-over in favore di uno svecchiamento degli atenei. Su questo la maggioranza ha preferito affidarsi alle linee guida che dovranno vedere la luce la prossima settimana.

Una volta messo a punto il decreto legge, al ministero si procederà ad una discussione con studenti, professori e università in modo da concordare le linee guida della riforma e poi il disegno di legge complessivo che conterrà le misure per premiare gli atenei virtuosi in base a parametri oggettivi quali il numero di laureati escludendo le lauree brevi, quelli che hanno trovato effettivamente lavoro in un periodo di tempo abbastanza breve, il numero di pubblicazioni scientifiche realizzate secondo sistemi internazionalmente riconosciuti e la capacità di ciascun ateneo di usare i finanziamenti pubblici più per la didattica che per il pagamento di stipendi e costi fissi.

La riforma dell’università procederà insomma per tappe, in un clima di confronto, dialogo e ascolto ma senza rinunciare a combattere gli sprechi. E’ questo il programma di lavoro definito ieri mattina, «in perfetto accordo», dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, dal ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini e dai vertici di Pdl e Lega di Camera e Senato, durante il vertice di maggioranza che si è tenuto nella residenza romana del premier in cui la Gelmini ha incassato il sostegno del governo e, in cambio, la Lega ha avuto le rassicurazioni che voleva sulle scuole di montagna, che non saranno toccate. Soddisfatta anche An, che si è spesa per il dialogo con le parti e per non esagerare con i tagli. «Siamo certi - dice Italo Bocchino dopo il vertice - che la Gelmini saprà combattere gli sprechi e dare un taglio riformista ai provvedimenti che ci proporrà».

Università senza veleni
FRANCO GARELLI

Vorrei contribuire a svelenire il clima che si è creato sull’università italiana, a seguito del muro contro muro che si è alzato dopo i provvedimenti del governo. Per la verità qualche crepa «comunicativa» si è aperta tra le parti, con l’ammissione di esponenti della maggioranza che su riforme così importanti è bene ascoltare il Paese e l’opposizione. Il confronto può partire proprio dalle anticipazioni sul piano per l’università che il ministro Gelmini sta per varare, al fine di valutarne la capacità di rimedio dei mali del nostro più alto livello di istruzione.

Tali linee guida prevedono per l’università rigidi criteri di bilancio (richiesti a tutti dalla crisi della finanza pubblica), che vietano agli atenei di spendere per il personale più del 90% delle risorse e mirano a ridurre la disseminazione della presenza universitaria sul territorio nazionale. In Italia vi sono 94 atenei, che si articolano in 320 sedi distaccate, tre volte tanto il numero delle Province. La logica del campanile o dell’Italia dei mille Comuni sembra avere permeato anche lo sviluppo universitario, con l’evidente moltiplicazione di sedi con pochi iscritti e dispersione di risorse (327 facoltà hanno meno di 15 studenti, 37 corsi di laurea hanno un solo studente ecc.). Rivedere le situazioni anomale è d’obbligo, contrastando sia la domanda locale di sedi universitarie, sia la tendenza dei governi degli ultimi 7-8 anni (quindi anche quelli del centro-destra) che ha permesso la presenza diffusa dell’università sul territorio. È penalizzando gli atenei dalla finanza allegra e riducendo l’eccesso di sedi che si possono premiare le università che risultano più virtuose, per bilancio, efficienza, produttività scientifica, qualità dell’offerta formativa. Anch’esse devono comunque eliminare gli sprechi e i corsi inutili o fantasma.

Altro punto chiave del piano Gelmini è la revisione delle procedure concorsuali, oggetto di molte critiche pubbliche anche improprie. Le università in questi anni hanno bandito molti concorsi locali, seguendo le modalità previste dalla legge. In previsione c’è il ritorno a concorsi nazionali, con la creazione di una quota d’idonei (per ogni disciplina) da cui i singoli atenei potranno attingere per il loro fabbisogno formativo. Questo criterio più generale di reclutamento non può che essere visto con favore, anche se si scontra con l’attuale vincolo di poter fare un bando o un’assunzione di personale ogni cinque pensionamenti. Le università possono sopportare per qualche tempo questa cura dimagrante, a patto che i criteri restrittivi non si estendano ai giovani ricercatori e che il reclutamento risponda a effettive esigenze di merito e di progetti formativi innovativi, che non premino lo status quo o gli interessi consolidati. Sono auspicabili anche maggiori verifiche nelle carriere universitarie, per evitare che alcuni vivano di rendite di posizione. Tra i punti più controversi del progetto Gelmini vi è la possibilità per gli Atenei di trasformarsi in fondazioni private. In mancanza di precise regole e paletti, molti temono che con questa operazione il governo intenda depotenziare l’università pubblica e favorire quella privata. Qui si tratta di dire parole definitive, sia rassicurando circa le finalità pubbliche di questi enti, sia sottolineando la potenzialità di una formula giuridica che rende più agile il ruolo delle università, permette di patrimonializzare i beni posseduti, offre maggior libertà d’investimenti e progetti.

Molti altri punti caldi dell’università d’oggi non sono affrontati dal piano Gelmini. Tra questi, la decisione se abolire o no il titolo legale dei corsi di studi (scelta che penalizzerebbe le università meno qualificate a vantaggio delle altre); la questione del debole investimento pubblico nella ricerca (e della non separazione delle carriere di ricerca da quelle di didattica), per cui molte facoltà (soprattutto «scientifiche») utilizzano la leva del fabbisogno didattico anche per garantirsi un’adeguata copertura di ruoli di ricerca; la difficoltà di qualificare il target formativo dell’università italiana, che risulta in genere di buon livello medio, ma carente di poli di eccellenza o di formazione avanzata. Gelmini lancia l’accusa che non c’è un ateneo italiano nella classifica dei primi 150 del mondo, ma dimentica che quelli che primeggiano (soprattutto negli Usa) possono contare su budget per la ricerca e sistemi organizzativi impensabili per le nostre università, chiamate a celebrare le nozze con i fichi secchi. Ciò nonostante i nostri studenti Erasmus o i laureati che vanno all’estero si difendono e sono apprezzati. Anche il rientro dei cervelli di cui tanto si parla non attesta il buon livello di formazione di base fornita dalle nostre (bistrattate) università?

Il piano Gelmini non affronta tali questioni strutturali, perché mira a un processo di razionalizzazione più limitato. Accettiamo per realismo questa impostazione, convinti che molti problemi possono essere avviati a soluzione e che nelle università vi sono competenze e risorse (conoscitive e progettuali) utili e disponibili alla causa. Ciò che non si può ammettere è che l’università assurga al male dei mali della società (come se altri ambienti fossero immacolati), secondo stereotipi che alimentano il clima di sfiducia, depotenziano l’impegno dei più che vi lavorano seriamente e tarpano le ali alla presenza pubblica dei giovani.


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