UniCa UniCa News Notizie "L’università non &è; pronta alla multidisciplinarietà"

"L’università non &è; pronta alla multidisciplinarietà"

Intervista de La Repubblica a Mauro Ferrari, uno dei cervelli italiani emigrati negli Usa
17 luglio 2007
«Quello delle nanotecnologie è il tipico settore multidisciplinare, e proprio per questo evidenzia le carenze del sistema universitario italiano. Ed è un gran peccato perché ancora una volta i cervelli ci sono, ed è una dissipazione di risorse vederli fuggire sistematicamente all’estero». Mauro Ferrari, friulano dai modi gentili, parla con la consapevolezza dell’esperienza: studente a Padova, lasciò l’Italia nel 1983 per fare la tesi in ingegneria a Berkeley, e non è più tornato. «Però mi sento legatissimo al mio paese, ci vengo una volta al mese e adesso ci verrò ancora di più». Il motivo è che Ferrari è stato nominato la settimana scorsa consulente del consorzio pubblicoprivato per la creazione del Centro di Nanomedicina a Milano promosso dalla Regione Lombardia. Ferrari, che darà «tutto l’aiuto possibile» a questo progetto, è la personificazione della multidisciplinarietà: è professore di medicina molecolare all’Università del Texas, di ingegneria nello stesso ateneo nonché alla Rice University, e di experimental therapeutics all’M.D. Anderson Cancer Center, il centro oncologico numero uno degli Stati Uniti. E’ consulente della Casa Bianca, della Nasa e dell’Unione europea, ed ha presieduto la commissione sulla bio e nanotecnologia che presentò due anni fa a Palazzo Chigi un documento «che non si sa che fine abbia fatto».
Perché l’Italia è tagliata fuori da questa corrente di ricerca?
«L’università soffre di un male antico, cronico e inguaribile: è ancora legata ad una ripartizione rigida che ricorda le corporazioni medievali. Chi è ingegnere idraulico non può neanche fare i concorsi ad ingegneria edile. Figuriamoci se un medico può affacciarsi a fisica, o un chimico a matematica. E’ un metodo autoreferenziale che punta alla conservazione del potere e non tiene conto che l’interdisciplinarietà è un valore fondamentale in materie come la nanotecnologia. E’ quanto di più antiscientifico si possa immaginare. Intendiamoci, ci sono delle isole di qualità interdisciplinare come la Sant’Anna di Pisa, il Politecnico di Milano, la Sissa di Trieste, anche la Magna Grecia a Catanzaro che ha un campus che ce l’avessimo in America sarei orgoglioso. Ma sono pochi. In Italia, se fai un lavoro interdisciplinare devi sacrificare la carriera. Così perdiamo qualsiasi leadership, e intanto anche paesi come Spagna e Portogallo fanno passi da gigante, per non parlare di quello che succede in Asia. Ma noi non siamo da meno: io su 50 ricercatori ho 15 italiani tutti bravissimi».
Un motivo per cui non tornano è la precarietà della posizione nonché lo stipendio. Quanto guadagna un ricercatore in America?
«Diciamo che un postdoc che ha appena fatto il PhD guadagna come un professore associato in Italia, cioè più o meno tre volte tanto. Non è un gap immenso, e poi consideri questo: siamo tutti precari anche in America, siamo al servizio della comunità. Quando non funzioniamo più, andiamo a casa. La differenza è che in America hai accesso a programmi di finanziamento straordinari come quello il cui lancio ho diretto io nel 2005 per il nanotech del National Cancer Institute, il programma più ricco di nanotecnologie applicate alla medicina del mondo. Al centro medico di Houston abbiamo finanziamenti di ricerca e clinical trials per 6 miliardi di dollari (più dell’intera spesa per ricerca in Italia, ndr)».
A quali progetti in particolare sta lavorando in questo momento?
«Il settore più importante è l’oncologia. Stiamo creando delle particelle che vanno in giro per il corpo letteralmente a cercare le cellule metastatiche, particelle ‘multistadio’ come i razzi vettori e non a caso al progetto partecipa la Nasa». (e.oc.)

Fonte: http://www.repubblica.it
 

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