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Nel Paese senza ‘tecnici’ l’innovazione &è; a rischio

La quantità e la qualità dell’istruzione della forza lavoro di un paese entrano di peso nella sua funzione di produzione
09 luglio 2007

GIOVANNI AJASSA*

Philippe Aghion insegna economia ad Harvard. Erik Hanushek è "senior fellow" presso l’Università di Stanford. Sia Aghion che Hanusheck appartengono a quella nuova scuola del pensiero economico – i cosiddetti "endogenisti" che sottolinea il ruolo di fattori strutturali come l’istruzione nel promuovere la crescita economica. Non basta lavorare più ore o investire in nuovi processi e prodotti. Per crescere di più bisogna conoscere di più. Serve essere mediamente più istruiti. Ecco quindi che la quantità e la qualità dell’istruzione della forza lavoro di un paese entrano di peso nella sua funzione di produzione.
Stime econometriche compiute su un campione di sessanta paesi e su un periodo di quaranta anni indicano l’esistenza di una correlazione positiva tra l’andamento della crescita procapite del Pil, il numero medio di anni di istruzione e la qualità media dell’istruzione misurata attraverso i risultati di consolidati test internazionali, quali la nota indagine "Pisa" dell’Ocse.
Gli economisti endogenisti vanno anche oltre. Esistono nel mondo economie che crescono sulla frontiera dello sviluppo tecnologico ed altre che rincorrono chi sta più avanti. Secondo gli endogenisti, una fondamentale differenza tra innovatori e imitatori risiede nel mix di istruzione che si ha a disposizione a livello di sistemapaese. Chi innova avrà più bisogno di laureati e di ricercatori. Chi invece è più concentrato nella declinazione di tecnologie già affermate dovrà poter contare più sull’apporto di diplomati e di tecnici.
E l’Italia? Qual è la nostra situazione?
Alla pagina 58 del Documento di Programmazione EconomicoFinanziaria per gli anni 20082011 si ricorda come, nonostante i progressi degli anni recenti, la nostra condizione resti al di sotto della media europea almeno per quanto concerne la "quantità" di istruzione della forza lavoro. La quota dei giovani italiani tra 18 e 24 anni con al massimo un titolo di istruzione secondaria inferiore è pari al 20,6% contro il 15,1% nella media della UE e un obiettivo di Lisbona pari al 10%.
Riguardo alla "qualità" dell’istruzione i risultati dei test dell’Ocse dicono che nel 2003 ben il 23,9% degli studenti quindicenni italiani non andava oltre un livello minimo di competenze nella lettura contro il 19,8% della media europea. Ritardi ancora più pesanti si riscontrano nelle conoscenze matematiche in possesso dei nostri ragazzi. Esistono, poi, forti divari territoriali. A questo riguardo, alla pagina 93 della Relazione annuale della Banca d’Italia si ricorda come la quota di quindicenni con livelli molto bassi di apprendimento varia tra il 14 e il 22% nel Mezzogiorno d’Italia in relazione alle diverse materie. Si attesta invece all’8% nelle regioni del Centro e non va oltre il 5% nel Nord. Sempre utilizzando i test Pisa dell’Ocse, i ricercatori di via Nazionale hanno stimato come il livello delle conoscenze matematiche di un ragazzo del Nord con 4 in pagella sia in media superiore a quello di un coetaneo studente al Sud che in pagella ha però 7.
I confronti internazionali certificano la necessità per l’Italia di aumentare quantità e qualità dell’istruzione riducendo la dispersione degli "output" educativi sul territorio nazionale. E’ un’impresa ardua, ma necessaria.
Non meno dell’università, il miglioramento deve riguardare la scuola e, soprattutto, la scuola secondaria di secondo grado e, in particolare, l’istruzione tecnica e professionale. Alla crescita dell’economia italiana servono più diplomi oltre che più lauree. Tra il 1990 e il 2006 gli iscritti agli istituti tecnici sono scesi dal 45% al 35% del totale degli studenti delle scuole secondarie di secondo grado che ammonta a circa 2,7 milioni di giovani. Eppure, gli istituti tecnici e gli istituti professionali offrono prospettive di occupazione non inferiori ad altre scuole. Ciò vale a livello nazionale, ma soprattutto nel Nord dove, elaborando i dati del sistema istruzionelavoro dell’Istat, si rileva che a tre anni dal conseguimento del diploma, lavorano in maniera continuativa ben il 56% dei diplomati dagli istituti tecnici. La percentuale sale addirittura al 69% per i diplomati degli istituti professionali.
L’Italia dei distretti industriali ha un patrimonio di ottime scuole tecniche. Istituti come l’Aldini Valeriani di Bologna, il Buzzi di Prato o il Quintino Sella di Biella sono pezzi della storia industriale del nostro paese e delle imprese di cui hanno formato generazioni di tecnici e di quadri. Questa matrice di capitale umano così essenziale per le fortune del made in Italy va però attentamente mantenuta e innovata.
Le proposte sul tappeto sono molte e vengono anche dal mondo delle imprese che chiedono una maggiore attenzione al filone tecnico e scientifico dell’istruzione. Il "Piano d’azione per la scuola" messo a punto da Confindustria, ad esempio, auspica l’adozione di misure volte ad accrescere di almeno il 10% all’anno le iscrizioni agli istituti tecnici, ai nuovi istituti tecnici superiori e alle facoltà tecnicoscientifiche. Si propone anche di dotare tutti gli istituti tecnici e professionali italiani di laboratori scientifici e tecnologici, di aggiornare programmi e metodologie didattiche, di rafforzare il raccordo scuolalavoro e l’integrazione tra apprendimento teorico e pratico. A queste ed altre istanze sembra dar riscontro il recente Dpef che parla di una valorizzazione dell’istruzione tecnica e professionale nell’ambito di un disegno più vasto incentrato sul rafforzamento dei sistemi di misurazione e valutazione dei risultati della scuola italiana.
L’Italia è un’economia che corre e che rincorre. Il nostro problema è che lo facciamo con troppo affanno. Per dare più respiro alla crescita occorre espandere entrambi i polmoni dell’istruzione, dell’università come della scuola e, in particolare, delle scuole tecniche.

*Responsabile Servizio Studi BNL Gruppo BNP Paribas

Fonte: http://www.repubblica.it
 

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