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Docenti e precari all’università di Torino

La Stampa pubblica le riflessioni d’addio di Aldo Agosti, docente dell’ateneo torinese dal 1969. Giovanna Favro racconta invece la situazione di chi vi lavora senza certezze per il futuro professionale
27 marzo 2007
R A S S E G N A   W E B
 
La Stampa pubblica le riflessioni d’addio di Aldo Agosti, ordinario di Storia contemporanea, docente dell’ateneo torinese dal 1969.
 
Giovanna Favro racconta invece la situazione di quelli che vi lavorano senza ancora certezze per il futuro professionale: "L’Università non seleziona i più bravi, ma chi può permettersi di vivere aiutato dai genitori".

Sull’argomento vedi anche "Torino, in pensione 500 professori dell’Università", di Giovanna Favro, già presente nella nostra rassegna.
 

 
Precari dimenticati,
"Università addio"
 
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LA STAMPA  del 27 marzo 2007
 
Torino, 27 marzo 2007 - Lavorano all’Università da anni. Tengono aperte le biblioteche, le segreterie studenti, persino la reception del rettore. Oppure stanno 12 ore al giorno nei laboratori, buttandosi nella ricerca scientifica anima e corpo e dipendendo mani e piedi dai professori che ne determinano i destini. Molti non sanno manco cosa siano le ferie, la mutua, il congedo per maternità. Sono le vite precarie dell’ateneo di via Po. Un esercito in rivolta. Ieri questi lavoratori si sono riuniti in assemblea: hanno proclamato lo stato di agitazione, e minacciano scioperi. Oggi distribuiranno volantini, ieri erano in rettorato: mentre il «magnifico», Ezio Pelizzetti, era a colazione con il ministro Damiano, hanno seminato di cartelli le antiche consolles del salone centrale. Poi il rettore li ha ricevuti. E s’è arrabbiato: «Non sono il padrone della fabbrica cui chiedere l’aumento! Questa è la casa di tutti voi: andate a vedere se le altre università assumono di più!»
  
foto: La StampaRino Lamonaca (Flc-Cgil) stima i precari dell’ateneo in «840 cococo e 300 tempi determinati fra tecnici e amministrativi, più 400 precari della ricerca», la giungla dei borsisti-assegnisti. «La misura è colma». Gente come Sergio Tosoni, 27 anni, prossimo «cervello in fuga»: assegnista a Chimica a 1.100 euro al mese (dopo la laurea e 3 anni di dottorato), lavora sui biomateriali innovativi, e l’anno prossimo se ne andrà a Berlino: «E’ un problema di prospettive. Con l’assegno non ti danno manco un mutuo, metter su famiglia è impensabile e l’imbuto per entrare è strettissimo: abbiamo il corpo accademico più vecchio d’Europa, ma c’è chi tira avanti da precario da 10 anni». Floriana Gargiulo, 30 anni (laurea in Fisica, dottorato, poi assegnista): «Faccio lezioni, esercitazioni e persino esami, oppure sto in laboratorio: dalle 9 alle 20 a video a fare calcoli complessi, simulando lo sviluppo delle epidemie». Il suo fidanzato s’è trasferito in Finlandia: «Anche lui è ricercatore ancora precario, ma gli danno 2 mila e 600 euro al mese». A Sergio e Floriana, vincere un concorso pare un miraggio: «Dietro ai concorsi ci sono sempre giochi di potere: i posti vanno in prevalenza alle aree scientifiche più forti e influenti, che hanno più fondi; spesso non entra chi è più bravo, ma chi appartiene all’area disciplinare giusta».
 
Paolo Ariano, 33 anni, laureatosi in fisica nel 2000, dopo il dottorato e gli assegni di ricerca ha conquistato un contratto. Di 8 mesi, rinnovato per 4, al dipartimento di Biologia: «Guadagno 1.400 euro senza contributi né diritto alla malattia. Ho due figli: viviamo in 4 in 45 metri quardi in periferia. L’università non seleziona i più bravi, ma chi può permettersi di vivere aiutato dai genitori. Più volte m’hanno offerto un posto fisso in aziende, ma voglio dedicarmi alla scienza, alla ricerca pura. Non chiedo un contratto a vita, ma di qualche anno: come posso andare avanti di 4 mesi in 4 mesi?» Se questi sono i futuri ricercatori, non stanno meglio gli amministrativi. Come Gianluca Feroldi, 35 anni, impiegato semestrale: «Da 7 anni non so cosa siano le ferie estive». O Alberto Guazzotto, 33 anni: «L’Università affida le sue biblioteche a cooperative: si dovrebbero appaltare fuori solo i progetti temporanei, ma noi siamo un servizio stabile».
 
All’assemblea si alternano al tavolo, con Lamonaca, Alberto Artioli (Flc-Cgil), Stefano Vannicelli (Rsu-Cgil), Quirino Sgambati (Cisl) e Francesco Selliti (Uil). «Il rettore - spiegano Lamonaca e Vannicelli - dice che nel 2006 l’ateneo ha bandito concorsi per 120 tecnici-amministrativi: vero, ma molte erano promozioni interne. Servono anche quelle, ma alla fine sono entrati solo 42 precari. Chiediamo un piano di stabilizzazione che abbracci più anni: al Poli esiste un accordo simile, perché qui no? Stanno lasciando l’ateneo 90 persone, professionalità gettate». All’incontro con il rettore, Pelizzetti alza la voce: «Sono solidale con loro: prenderei tutti, ma ho dei limiti di bilancio. L’Università non ha interesse a formare persone e a perderle. Vi pare poco, 120 concorsi nel 2006, e 170 quest’anno? Nessun ateneo assume tanto». I sindacalisti non si convincono: «Perché l’ateneo non vuol discutere con noi i termini dei concorsi nè stilare un piano per assorbire questi lavoratori?» Paolo Ariano scuote la testa: «Che dico ai miei figli, quando mi scade il contratto? Che il rettore è solidale con noi?»
 
Giovanna Favro
 

 
 
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LA STAMPA  del 27 marzo 2007

OPINIONI

"Università addio"
Ateneo un ricambio necessario

 
Torino, 27 marzo 2007 - È cambiata non poco l’Università nei trentacinque anni che ci ho passato finora. Il mio ingresso risale al 1969: Guido Quazza, il preside di Magistero, aveva chiamato diversi neo-laureati a collaborare a quella straordinaria esperienza che fu il pool, un insieme di seminari interdisciplinari che voleva rispondere alla domanda, scaturita dalla mobilitazione del ’68, di una didattica nuova, aperta agli interessi e alle sollecitazioni degli studenti. E’ facile oggi ironizzare sul "ventisette politico" e sulla fiscalizzazione di sei esami con la partecipazione a un solo seminario: in realtà fu un lavoro serio e approfondito, oltre che all’università ci trovavamo anche tre volte alla settimana dopo cena in casa di qualche studente, si leggevano e si commentavano decine di libri e ne venivano fuori centinaia di pagine di relazioni. Avevamo a che fare con studenti in gran parte lavoratori, poco più giovani o spesso più vecchi di molti docenti, motivati nello studio dalla volontà di compiere un salto culturale e sociale. Poi, lentamente, le cose sono cambiate: il livello di preparazione degli studenti si è andato abbassando per le carenze di una scuola secondaria sempre più inadeguata, nonostante gli sforzi spesso quasi eroici di una pattuglia di docenti tenaci.
 
I professori hanno dovuto cambiare pelle, ripartire dall’insegnamento di nozioni fondamentali.
 
Non sono un detrattore a priori della riforma del 3+2: anche se mi sembra dubbia la sua utilità in molte facoltà umanistiche, dove la laurea triennale professionalizzante è una chimera, bisognerà aspettare per valutarne gli effetti che sia andata completamente a regime.
 
In ogni caso, una lunga esperienza di scambi Erasmus mi dice che anche oggi i nostri studenti non sono affatto peggiori dei loro colleghi europei, anzi.
 
A spingere molti di noi a lasciare prima del tempo sono, credo, essenzialmente due motivazioni: una è quella di lasciare spazio a una generazione più giovane, che aspetta da troppo tempo un inserimento. Non mi illudo su un eccessivo ringiovanimento dei ranghi: in una disciplina come Storia contemporanea aspettano di diventare ricercatori - avendo in realtà spesso già i titoli per essere ordinari - persone che sono vicine o hanno superato la cinquantina; ma il rinnovamento è necessario, e personalmente sento la responsabilità di fare la mia parte per promuoverlo.
 
La seconda ragione è che molti di noi non riescono più a conciliare una didattica scrupolosa con le proprie ricerche. Non è tanto questione del carico di 90 ore di lezioni "frontali" (in sé non certo massacrante), quanto della difficoltà di tenere insieme la propria ricerca con quello che si racconta agli studenti, in corsi sempre più contratti e spezzettati.
 
In questo senso la via indicata dall’Ateneo di Torino è un’ancora di salvezza per molti di noi: ci permetterà di fare ancora qualche cosa nel campo della ricerca prima che ci si atrofizzi il cervello, lasciandoci la possibilità di mantenere aperto un contatto con gli studenti, con i dottorandi, con l’università che cambia. Non solo in peggio.

Aldo Agosti, professore ordinario di Storia contemporanea
 

 




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