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Laureati in nepotismo

Basta concorsi nazionali. Ma assumere solo ricercatori provenienti da altri atenei. Ecco la proposta anti-baroni
26 giugno 2007

di Guido Martinotti

Ci risiamo. Dopo qualche anno di blocco, che ha fatto forse bene ai conti dello Stato, ma certo non alle istituzioni educative e di ricerca di cui si piange quotidianamente la decrepitezza, verranno banditi (forse) centinaia di nuovi posti di ricercatore in tutta l’università italiana. Non una grande bonanza, per un sistema che ha una ottantina di atenei. Con i posti messi dalle università sul proprio bilancio e i circa 1.200 in concorso con il vecchio sistema è la borraccia mezza vuota al morente nel deserto. Ma non è solo un problema di soldi.

In tutto il mondo, o quasi, quando un ateneo vuole un nuovo docente, lo assume, sia pure con regole che tendono a limitare dannosi nepotismi: bandi pubblicizzati, commissari esterni, eccetera. In Italia no, non si può, perché secondo lo spirito autoritario di tutta la filosofia pubblica italiana, gli atenei, come le persone, sono dei minus habentes e chissà cosa succede se si lasciano liberi di decidere. Può darsi, può darsi, ma cosa suggeriscono i von Clausewitz della meritocrazia? Facciamo decidere ad altri: se io ateneo XY voglio un giovane e promettente fisico, non posso sceglierlo direttamente, ma devo rivolgermi al papà buono, cioè la commissione nazionale di concorso, che lo sceglie per me e io sarò obbligato a prendermelo. Se il babbo fosse davvero buono, si potrebbe accettare: il problema è che chi dovrebbe decidere per noi non è un padre, ma un padrino, annidato nel concorso nazionale. È lui il responsabile di quel male profondo dell’università italiana che è il nepotismo.

Mi spiego meglio: se non si capisce a fondo, direi antropologicamente, quanto il nepotismo sia connaturato all’ethos professionale del docente, si girerà sempre intorno alla questione, proponendo rimedi che aggravano il male. Intendiamoci, si tratta di male comune a tutti i nostri rapporti con il pubblico: anarchici perché l’anarchia deriva da quella tendenza affiliativa che inquina le nostre relazioni nella polis, che è prepolitica e venne da Edward C. Banfield acutamente definita "amorale": intendendosi qui la morale pubblica. Ma rimaniamo nell’università, dove questa struttura profonda della nostra cultura trova un suo specifico terreno: il rapporto maestro-allievo.

Questo rapporto è inevitabile e senza dubbio benefico (all’inizio della carriera) e fa parte della costruzione di quella tremenda passione fredda per la ricerca scientifica che attira alcuni giovani e che ha bisogno di incorporarsi in un maestro. È così ovunque, ma in Italia scatta un meccanismo che trasforma questo legame, corrompendolo in un meccanismo familistico e clientelare: la causa sta nel sistema di reclutamento dei docenti, largamente per concorso nazionale. Quel che si deve capire è che ’portare’ o ’mettere’ il proprio allievo in cattedra (ah! l’onestà del linguaggio) è per il docente un obbligo morale riconosciutogli e, anzi, impostogli dalla sua comunità di pari. Non parlo del medico che mette in cattedra il figlio, parlo della normalità delle cose. Con acuto cinismo baronale il costituzionalista Tesauro diceva che tutti sono capaci di mettere in cattedra l’allievo intelligente, ma solo i più capaci riescono a portare un cretino. E, credetemi, molti ci provano.

Questa norma fa sì che chiunque si troverà in una commissione nazionale di concorso porterà il suo protetto in barba alle patetiche contorsioni delle regole concorsuali e al merito dei candidati. Ma, dice, faremo il sorteggio. Non funziona. Il sorteggio serve solo a a scompigliare un po’ le consorterie, ma non a recidere il legame nepotistico maestro-allievo, che è il veleno di cui muore l’università italiana. Ma, dice, abbiamo il commissario straniero. A parte che i membri stranieri delle commissioni per la valutazione delle ricerche dell’anno scorso non hanno ancora ricevuto il rimborso dei loro viaggi, pensate che incoraggiamento per gli altri. Ma quelli erano poche decine, e si trattava di distribuire milioni di euro, come si può immaginare di trovare centinaia di professori stranieri di valore che sappiano l’italiano, disposti a lavorare gratis per giudicare non il grande docente, ma un giovane ricercatore? E dove si trovano? Ma è ovvio, scatta la sindrome ’Mon oncle d’Amérique’. Negli elenchi andranno a finire, per la maggior parte, gli italo-americani amici degli amici che saranno a disposizione di chi li ha indicati. E poi, il professore straniero sarà forse più onesto, ma mettetelo in una commissione italiana e sarà sottoposto a tutte le dinamiche locali, con l’aggravante che non dovrà risponderne alla sua comunità di appartenenza.

Suggerisco un’altra via. Primo. Stabilire la semplice norma che non si diventa cattedratici senza aver passato almeno dieci anni in un ateneo diverso. Quando, come e con chi, è lasciato al singolo docente. Mobilità contro affiliazione.

Secondo. Stabilire altresì che può partecipare al concorso per un posto di ricercatore, bandito da un certo ateneo, solo chi viene da un altro ateneo (come dottore di ricerca, laureato, assegnista o qualsiasi altro ruolo) e che per cinque anni (da computare ai fini del decennio di cui sopra) non si può ritornare all’ateneo di partenza. A questo punto si recidono tutte le teste dell’idra. Ci potranno essere accordi locali, io ti do il mio e tu mi dai il tuo, ma non saranno più convenienti, perché il barone ricevente vorrà comunque un giovane bravo che lo aiuti e non si accontenterà di tenersi il servo scemo del collega per cinque anni.

Terzo. Automaticamente viene a mancare il principale fattore di nepotismo. I nuovi posti possono essere distribuiti ai singoli atenei (al tasso di vero spreco di circa 10 posti per ateneo in media) che li assegnano alle materie ritenute prioritarie, e i dipartimenti cui sono stati assegnati i posti reclutano per via diretta, sia pure con un bando pubblico, ovviamente escludendo dalle commissioni docenti dell’ateneo di provenienza di uno dei concorrenti.

Semplice? Troppo semplice! Se si facesse così si andrebbe nel senso dell’autonomia (come raccomandato dalla Eua, European University Association), ma si distruggerebbe quel radicato meccanismo di tutela mafiosa che nel nostro paese viene fatto passare per meritocrazia concorsuale. La mia profonda inquietudine è di vedere che, mentre tutti i sistemi europei, con minori o maggiori difficoltà, stanno muovendosi in gruppo sopravvento, l’Italia sta di nuovo prendendo da sola il bordo sottovento, quello che porta alle secche.

* Guido Martinotti è ordinario di sociologia urbana all’Università di Milano-Bicocca

Fonte: http://espresso.repubblica.it

 

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