Sabato 3 maggio 2014

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
03 maggio 2014
ufficio stampa e redazione web
RASSEGNA QUOTIDIANI LOCALI


 

L’UNIONE SARDA

1 – L’Unione Sarda / Cultura (Pagina 28 - Edizione CA)
INCONTRI
Remo Bodei ospite questo pomeriggio del Festival della Filosofia a Cagliari
«I vecchi hanno poco futuro ma i giovani anche meno»
Cambiano i tempi, cambia l'uomo e Remo Bodei, professore di filosofia alla University of California, Los Angeles, ospite oggi a Cagliari del Festival della Filosofia, in un breve ma eccellente trattato filosofico, indaga le “Generazioni” (Laterza, 96 pagine, 14 euro) analizzandone «Le età della vita, età delle cose».
«Negli ultimi anni le cose sono cambiate molto - commenta Bodei -. È cambiato soprattutto il fatto che la giovinezza s'è allungata e non è più caratterizzata dalla speranza nel futuro, perché i giovani hanno tante difficoltà davanti e poco passato alle spalle, mentre i vecchi, al contrario, hanno poco futuro davanti e tanto passato alle spalle. La gioventù e la vecchiaia si sono allungate ma s'è ristretta la maturità ».
Perché i giovani oggi sono senza speranza?
«I giovani non sono più caratterizzati dalla speranza perché il futuro è diventato piuttosto oscuro e i vecchi non sono più quelli blandi e umiliati di una volta: in società gerontocratiche come sono la maggior parte di quelle oggi esistenti, il potere sostanzialmente ce l'hanno loro. Perciò s'impone un nuovo patto generazionale; un patto in cui seguendo la tesi del Welfare State sia in termini affettivi che economici, sia riformulata l'età della vita e il modo di pensarla».
E questo che cosa comporta?
«Prima di tutto il fatto che non si può lasciare andare al macero una intera generazione di giovani che sono colpiti nei paesi mediterranei da una disoccupazione spaventosa: 56 per cento in Grecia, 42 in Italia e in Spagna. Questo impone una trasformazione della struttura sociale, per avere una società più giusta in cui i privilegi siano smantellati al di fuori di ogni retorica».
In questi cambiamenti, la famiglia che ruolo ha?
«La famiglia è diventata più porosa e funziona come un ammortizzatore sociale. Ripulisce il welfare state: meno prestazioni ci sono e i giovani stanno in famiglia più a lungo e si sposano più tardi. I nonni, che dovrebbero essere quelli che hanno avuto una vita operosa e se la dovrebbero godere, anche loro entrano nel meccanismo per aiutare le generazioni più giovani che sono disoccupate, o cacciate dal processo produttivo a cinquant'anni. Con questo tipo di capitalismo quella che è cambiata è la struttura sociale in cui la mobilità ha creato una precarizzazione della vita».
Iniziative urgenti?
«La flessibilità è essenziale per mantenere la concorrenza con la mano d'opera asiatica o extra europea che non costa niente, e superare le difficoltà di rinnovare l'Occidente. I cinesi si danno un gran daffare, quattrocentomila nuovi ingegneri si laureano ogni anno, e nella situazione di precarietà dell'esistenza, bisogna rimodulare tutti i rapporti sociali. Non bisogna scaricare sulle famiglie le deficienze che lo stato del benessere ormai in coma non riesce più a mantenere. Negli Stati Uniti il povero Obama cerca di dare un'assicurazione compatibile a quarantasei milioni di persone, ma gli fanno la guerra perché prevale il senso comune che chi è povero è un fannullone».
Il capitalismo specula sull'economia disastrata?
«Il capitalismo è l'unica forza economica rimasta dopo la sconfitta dei modelli socialisti storici, e quelli di Wall Street e di Londra guadagnano parecchio. Siamo passati da un capitalismo industriale prevalente a un capitalismo finanziario molto più importante che esisteva sin dalla fine dell'Ottocento».
Che cosa ha ne ha favorito il passaggio?
«Negli anni Settanta, dopo la crisi petrolifera, il margine di profitto dell'industria si era ridotto, per cui si è puntato sulla finanza. Ma la crisi finanziaria del 2007, le famose bolle, sono destinate a ripetersi. Un grande economista che si chiamava Joseph Schumpeter nel saggio Capitalismo Socialismo democrazia del 1942, diceva che il capitalismo sarebbe crollato non a causa dei suoi insuccessi, ma a causa dei suoi successi. Secondo lui la logica del profitto, alla fine avrebbe desertificato le società e quei valori che non si comprano con la moneta, sarebbero stati uccisi da questa logica».
Francesco Mannoni
 


 

2 – L’Unione Sarda / Spettacoli e Società (Pagina 31 - Edizione CA)
La tenacia del drammaturgo Gaetano Marino
“LA MORTE DI ETTORE” PER TORNARE A VIVERE
Dopo quindici anni di insopportabile silenzio
Isolateatro riapre nella sede storica di Quartu H a contribuito a elevare il prestigio del teatro nell'Isola, e a partire dal 1992 è entrato di diritto nella storia della cultura della Sardegna. Grandi protagonisti dello spettacolo, anche a livello internazionale, da Giorgio Albertazzi a Gabriele Lavia, da Ottavia Piccolo a Piera degli Esposti, solo per citarne alcuni, ne hanno calcato il palcoscenico. Poi lo spettacolo è finito ed è calato il sipario. Per un tempo lunghissimo. Adesso Isolateatro, dopo 15 anni di insopportabile silenzio, riapre i battenti nella sede storica di via Danimarca 4, a Quartu Sant'Elena.
La rinascita si deve alla tenacia di Gaetano Marino, attore, regista, drammaturgo “pirandelliano” e fondatore della omonima compagnia. «Dopo tanti anni, sta ricominciando tutto», dice. Per il “battesimo”, avvenuto il 13 aprile scorso, Marino ha scelto “La morte di Ettore”, tratto dall'Iliade, in scena il venerdì e il sabato (alle 21), la domenica (alle 19). Tanto entusiasmo, come quello di un tempo, ma anche grande emozione: perché la storia di Isolateatro ha quasi dell'incredibile. L'inimmaginabile è accaduto alla fine degli anni Novanta, quando critica e pubblico esaltavano il “Bakunìn” di Gaetano Marino, l'opera che, senza scenografia (come nello stile di un teatro di ricerca quale è sempre stato Isolateatro), aveva fatto registrare oltre 400 repliche. «All'improvviso ci hanno tolto i contributi», racconta Marino. Quei finanziamenti, poco meno di un miliardo di lire all'anno, erano tutto per una compagnia che aveva scelto di offrire l'ingresso gratuito a chi voleva assistere agli spettacoli. «Perché chi si arricchisce con la cultura è un delinquente», afferma. «Isolateatro è un laboratorio teatrale, non un'impresa. Con quei finanziamenti andavamo in scena 280 volte all'anno, avevamo 15 dipendenti più un'altra decina di stagionali. Pagavamo tutto, altri soldi non sarebbero serviti», aggiunge. Colpa della crisi? «Non credo, noi ricevevamo per un anno la stessa cifra che spendeva l'Ente Lirico per le prove generali dell'Eleonora d'Arborea». Da quel momento è sceso il buio su Isolateatro. «Ho attraversato anni difficili, ma grazie alla collaborazione con il Dipartimento di Filologia Classica dell'università di Cagliari, prima, e alla nascita dei miei due figli, poi, sono rimasto a galla. E adesso si riparte». Con pochi euro, e uno straordinario capitale umano.
Mauro Madeddu
 




LA NUOVA SARDEGNA

3 – La Nuova Sardegna / Sardegna – pagina 5
Il miliardo divorato dall’altra Regione
Enti strumentali, Agenzie, Aziende e società controllate: il peso esagerato delle 91 sigle che ruotano intorno al Palazzo
di Umberto Aime
CAGLIARI In Sicilia, il mondo delle società regionali partecipate e controllate che cresce, spreca e s’ingrassa all’ombra del monumentale Palazzo dei Normanni, sede di Giunta e Consiglio, è chiamato l’inferno, dai più raffinati, «Rubik», quello del Cubo. Il senso è lo stesso: un porto delle nebbie nella contabilità, un rompicapo se provi a ricostruirlo. In Sardegna, intorno a due Palazzi molto più modesti, viale Trento e via Roma, a Cagliari, c’è qualcosa di molto simile che divora soldi pubblici a palate: oltre un miliardo e mezzo sui sette destinati alle spese correnti. Un’enormità: è il 20 per cento del bilancio. L’altra faccia. È questa la Regione autonoma parallela dei Quattro Mori: 27 società partecipate a vario titolo, al 100 per cento, o quelle in cui l’amministrazione pubblica ha piccole quote, 54 enti pubblici vigilati, comprese Agenzie e Aziende, 10 sigle di diritto privato controllate. Ricostruire la mappa non è difficile, basta consultare il sito ufficiale della Regione, mentre tutto si complica, ancora più della Sicilia, se c’è da tirare una riga sui bilanci. La Corte dei conti ci prova sempre, ogni anno, quando controlla il bilancio della Regione, ma neanche quei giudici attenti riescono spesso a quantificare il totale, perché – è scritto in una delle ultime relazioni – «gli stessi assessorati di riferimento non esercitano l’indispensabile azione di controllo». Anche il sempre preciso Sole24 ha brancolato o quasi nel buio quando ha dovuto pubblicare quanto sono costati alla Sardegna i bilanci in rosso delle società partecipate e se l’è cavata con una cifra tonda: 95milioni bruciati, nel 2012. La riorganizzazione. È da anni e anni che tutti la invocano, ma alla fine è difficile (o impossibile?) da realizzare. Stavolta la giunta Pigliaru ha in mente una riforma radicale. L’ha annunciato l’assessore alla Programmazione Raffaele Paci, che si è dato anche una scadenza: entro l’estate. La stessa Corte dei conti lo auspica alla conclusione di tutte le inaugurazioni dei suoi anni giudiziari, ma sono inviti che finora sono caduti nel vuoto, come quello per il contenimento della spesa, in continuo aumento soprattutto alla voce «costi del personale», più di 3mila unità fra enti e agenzie. Di recente, con un’interrogazione, il grippo Sardegna Vera ha sollevato il caso in Consiglio regionale. Dopo aver ricordato che oltre un anno fa, la giunta Cappellacci aveva deliberato un piano di «monitoraggio e razionalizzazione entro 45 giorni», ha denunciato: «Quel progetto è rimasto lettera morta senza sia stato avviato alcun accorpamento o soppressione, mentre invece sono ancora in corso procedimenti di liquidazione che ormai risalgono a dieci anni fa». Insomma, l’efficienza della macchina regionale auspicata stavolta dalla giunta Pigliaru pare davvero un’impresa. Una strada percorribile potrebbe essere quella del centro unico di spesa e approvvigionamento per tutti gli enti. Con un accorpamento dei fornitori potrebbe essere strappati prezzi molto inferiori ad esempio per computer, carta e altri costi generali. Ma anche di questo si parla da troppo tempo e si è fatto gran poco. Enti strumentali. A parte le otto Aziende sanitarie, quella autonoma del Brotzu e le due miste con le università di Cagliari e Sassari, che tutte insieme da sole macinano 3 miliardi e mezzo, il 65,4 per cento del bilancio della Regione, è l’Ente Foreste a prendersi la fetta più grossa dei trasferimenti per le spese di funzionamento: 177 milioni e mezzo. Oltre ottanta milioni di spese correnti mettono assieme le tre agenzie regionali per l’agricoltura, Argea, Laore e Agris, che potrebbero essere accorpate e dunque far risparmiare la Regione ma ancora nessuno sa da quale parte cominciare. Poi c’è il caso di Area, l’ex Icap, che proprio di recente è finito sotto indagine interna e rischia di essere commissariato se non ripresenterà i bilanci dal 2011 a oggi. Area ha avuto, nel 2012, trasferimenti per oltre 3 milioni. C’è anche il caso di Sardegna Promozione (8 milioni) che è sotto inchiesta in Procura per le spese «troppo libere» nei contratti di sponsorizzazione. Come se non bastasse, un altro mistero è Sardegna ricerche: oltre 12 milioni di oneri complessivi, ma neanche un bilancio dichiarato sul sito «amministrazione trasparente». Società controllate. Fra le 27 in elenco, due sono fantasma (Bastogi e Brioschi, nessuno sa che fine abbiano fatto eppure sono ancora in carico), due hanno accumulato disavanzi in doppia cifra, Abbanoa -11 milioni e Carbosulcis -42, tutte le altre arrancano, come conferma la tabella pubblicata a fianco. Da queste società la Regione non guadagna un centesimo, perde soltanto e in più nello star loro dietro va incontro a errori e inchieste di ogni tipo. È successo con la Saremar (deve essere privatizzata da un’eternità) per l’esperimento flotta sarda, l’Europa ora pretende il recupero di 10,8 milioni, e con SardegnaIt (comunque una delle poche insieme all’Arst col bilancio in attivo) sotto indagine in Procura per una presunta asta pilotata sull’affitto della sede. Solo due società non sono pentole bucate: Geasar (aeroporto di Olbia) e Sogaer (aeroporto di Cagliari) producono utili, ma solo perché qui la Regione ha quote minime e forse il motivo del successo è proprio questo.
 
 

4 – La Nuova Sardegna / Sardegna – pagina 7
Sassari, 2 afghani dottori di ricerca
Mastino: l’università prosegue la politica di internazionalizzazione
HERAT A distanza di tre anni dall'inizio del corso all'Università di Sassari, gli studiosi afghani Mohammad Alam Ghoryar e Abdullah Halim sono stati proclamati dottori di ricerca in Scienze e Biotecnologie dei sistemi agrari e forestali e delle produzioni alimentari. La cerimonia di consegna delle pergamene è stata presieduta nell'aula magna dell'ateneo afghano di Herat dal rettore dell'Università di Sassari Attilio Mastino e dall'omologo Abdul Zaher Mohtaseb Zada, presenti il comandante del contingente italiano in Afghanistan, generale Manlio Scopigno, il procuratore capo della provincia di Herat Maria Bashir, una delegazione di professori dell'Università di Sassari formata dai docenti-tutor Roberto Scotti e Chiara Rosnati, dal professor Sergio Vacca e dal dottor Giovanni Cocco, esperto di relazioni internazionali. «Diamo oggi all'Afghanistan due studiosi che hanno approfondito in Sardegna le loro conoscenze scientifiche e sono pronti ad applicarle alla realtà agricola e zootecnica del loro Paese», ha affermato Mastino, ricordando «l’intensa politica di internazionalizzazione» dell’ateneo sassarese. Mastino ha consegnato il sigillo storico dell'Università al generale Scopigno. La cerimonia ha rappresentato l'occasione per annunciare che il dipartimento di Architettura, Design ed Urbanistica dell'Università di Sassari ha proposto il conferimento della laurea honoris causa al procuratore capo Maria Bashir «per le azioni a difesa delle comunità locali e per la tenacia nel perseguimento di una città e di un territorio dei diritti».
 

 
5 – La Nuova Sardegna / Commenti – pagina 19
i giovani e il lavoro
Università, la formazione sinonimo di precarietà e flessibilità
di Eusebio Tolu
Precarietà e flessibilità del lavoro rappresentano una triste realtà, con cui i giovani e i meno giovani che si affacciano al mondo del lavoro debbono fare i conti. Le Università non sfuggono a questa regola, ed anzi costituiscono il modello ideale dove precarietà e flessibilità del lavoro trovano quella giustificazione a volte demagogica che con molta disinvoltura viene coniugata con la formazione e con la salvaguardia del merito. Concetti importanti e nobili, è vero, ma che a volte non sono in sintonia con la crescita professionale e umana dei giovani coinvolti. Solo qualche esempio. La legge Gelmini ha istituito la figura del ricercatore a tempo determinato (precarietà), che, se entro 6 anni non diventa almeno professore associato, è costretto a cambiare mestiere (flessibilità). È come dire che gli operai di una azienda, se entro un determinato numero di anni non diventano caporeparto, devono andare via. A prima vista potrebbe sembrare tutto anche molto ragionevole, ma la condizione è che ci siano tanti posti disponibili di professore associato e di capocantiere, perché in caso contrario l'alternativa è quella di cercare un altro posto di lavoro, ovviamente ancora una volta precario e flessibile allo stesso tempo. Un altro esempio riguarda gli specializzandi di area medica, utilizzati in nome della formazione e della ricerca (altri concetti nobilissimi) per tamponare le inefficienze del servizio sanitario regionale. In realtà gli studenti lavorano come gli strutturati ma guadagnano molto di meno e non hanno gli stessi diritti. Voglio dire che, a seconda delle circostanze, gli specializzandi vengono considerati studenti in formazione, ricercatori o medici del servizio sanitario, con tutto l'appoggio dei loro Tutori responsabili che senza il loro impegno e il loro riconosciuto e valido contributo correrebbero il rischio di veder chiusi i reparti. Per fortuna sono solo in pochi quei Tutori che considerano gli specializzandi addirittura come propri dipendenti, da utilizzare in assoluta libertà, e dai quali si pretende ubbidienza assoluta, pena una valutazione negativa. È una situazione un po' paradossale, che trova però difficoltà ad essere sanata a causa del conflitto di responsabilità che il servizio sanitario rimanda all'Università considerando lo specializzando uno studente e che l'Università rimanda al servizio sanitario considerandolo un dipendente del settore. È un sistema che va assolutamente ripensato, separato da quella che ormai è diventata una routine consolidata, anche perché gli specializzandi, veri e propri precari del settore, coprendo le necessità di una inadeguata e inefficiente occupazione, da precari creano involontariamente ulteriore precariato secondo un circuito che si autoalimenta indefinitamente. Ma ancora, cosa dire dei dottorandi, degli assegnisti, dei borsisti, dei docenti a contratto, dei co.co. co. di vario tipo per amministrativi e tecnici, dei lettori? Un mondo di precarietà dei giovani che vivono un disagio profondo, che fa male nell'intimo, e che nega la speranza del futuro. Eppure questa Università, con i suoi 452 anni di storia, continua a svolgere i suoi compiti istituzionali di ricerca e formazione con grande prestigio e con profondo senso di responsabilità. Ed è in questa realtà che si muove la vita di migliaia di giovani in formazione, in preparazione a un domani e ad un mondo del lavoro (così si usa dire) che possa essere quanto più aderente possibile alle ambizioni della società che vogliamo costruire. In questo contesto ci aspettiamo suggerimenti opportuni e nuove idee su come intervenire per lenire il disagio dei precari e per dare speranza al futuro delle migliaia di giovani che frequentano l'Università di Sassari. Docente di Fisiologia Umana


QUOTIDIANI NAZIONALI

Link: rassegna stampa MIUR

Questionario e social

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