Lunedì 4 luglio 2011

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
04 luglio 2011

 

Rassegna quotidiani locali
A cura dell’Ufficio stampa

L’UNIONE SARDA 
1 – L’Unione Sarda
Cronaca di Cagliari (Pagina 11 - Edizione CA)
Un medico per i fuori sede
Accordo tra i vertici di Ersu e Azienda mista
Agli studenti non residenti in città verrà garantita l'assistenza sanitaria
 
Per ora devono tornare al loro paese per farsi fare le ricette, oppure quando stanno male sono costretti a rivolgersi alle guardie mediche o ai medici del Pronto soccorso. Ma stanno per finire i disagi legati al medico di famiglia dei 18 mila studenti universitari fuori sede che vivono nel capoluogo, pur continuando ad avere il domicilio sanitario nel Comune di residenza.
L'ACCORDO Già nei prossimi giorni, l'Ersu potrebbe chiudere un accordo di programma con l'Azienda universitaria-ospedaliera per garantire il supporto sanitario ai fuori sede. «È da tanto che lo chiediamo», ha detto Alice Marras, 23 anni, di San Gavino, delegata degli studenti nel consiglio di amministrazione dell'Ersu e in quello della facoltà di Filosofia.
«Quest'anno risultano iscritti 18 mila fuori sede e per tutti c'è sempre stato lo stesso problema. Non avere in città un medico di riferimento, avendo quello di famiglia nei Comuni di provenienza. Per tutto, dunque, dobbiamo rivolgerci alle guardie mediche o ai Pronto soccorso, dove però bisogna pagare per quelle che non sono urgenze. Stesso discorso per le ricette, le impegnative indispensabili per le visite specialistiche e i certificati medici per la pratica sportiva. Tutto a pagamento. C'è anche chi ha deciso di cambiare medico, ma poi quando per le vacanze torna a casa si trova comunque “scoperto”».
LE RICHIESTE Punto cardine del programma della lista Unica 2.0, da tempo i delegati studenteschi hanno chiesto all'Ersu che venisse trovata un modo per archiviare i disagi. E la soluzione, almeno secondo le indiscrezioni filtrate, sarebbe stata trovata dalla presidente dell'ente per il diritto allo studio, Daniela Noli, che sarebbe in procinto di siglare un accordo col Policlinico universitario e con l'ospedale San Giovanni di Dio (entrambi sotto il controllo dell'Azienda mista-universitaria).
Gli ospedali fornirebbero così l'assistenza sanitaria ai ragazzi, evitando lunghe e impegnative trasferte anche solo per una semplice ricetta.
«In questi anni c'è chi si è arrangiato», ha proseguito la portavoce degli studenti, «anche perché non tutte le guardie mediche accettano di firmare le ricette. Impossibile, poi, ottenere l'impegnativa per una visita specialistica se non dal medico curante. Allora molti di noi si sono rivolti ai privati, ma tutti sappiamo quanto costa una visita specialistica per chi non è convenzionato».
Sollevata la questione anche col rettore dell'Università, Giovanni Melis, nelle prossime ore potrebbe arrivare l'annuncio dell'accordo che consentirà una copertura sanitaria completa per migliaia di studenti, soprattutto per quelli che arrivano da fuori provincia e vivono nella Casa dello studente o nelle camere affittate.
Francesco Pinna
 

LA NUOVA SARDEGNA
2 – La Nuova Sardegna
Pagina 8 - Sardegna
Sardegna-Africa via Manchester
L’Erasmus, un master e la scoperta di un mondo nuovo
 
MACOMER. Marika Mura ha ventisette anni. Ha studiato lingue all’università degòli studi di Sassari, inglese e francese. Ha fatto anche un anno di arabo, un secondo di spagnolo, un terzo anno di Erasmus a Manchester, con un master sulla cooperazione allo sviluppo. «Grazie a questo master è nata la mia passione per l’Africa», confida.
 «Mi intriga il desiderio di essere parte attiva per migliorarla. Loro vedono in me un modello di insegnante differente da quello a cui sono abituati. Io lo faccio per pura passione, i loro insegnanti no: lavorano di malavoglia, picchiano gli studenti anche quando non c’è alcun motivo. I ragazzi vedono in me una speranza, sanno che non provengo da una famiglia ricchissima ma sono riuscita a studiare fuori. Mi sentono come un punto di riferimento».
 C’è però una differenza, fra maschi e femmine.
 Spiega Marika: «Con i ragazzi è più semplice avere rapporti. Con le ragazze meno: stiamo parlando di adolescenti, alcune si sono affezionate, le altre tengono le distanze. Non so perché, forse mi vedono troppo diversa dalla loro cultura, troppo emancipata. Chi lo sa? C’è anche un problema di insegnanti che stanno con studentesse - e questo, devo confessarlo, mi turba molto - e ci sono perfino ragazze costrette a vendersi perché non hanno di che mangiare. I ragazzi li vedo diversi anche per sono molto più curiosi e desiderosi di imparare».
 Marika ha anche un’idea del tempo da dedicare a questo suo anelito.
 «Il mio obiettivo è finire l’anno accademico, il prossimo mese di ottobre. Rimarrò a Kwala fino a novembre poi conto di ritornare in Sardegna. Lo farò a malincuore perché mi dispiacerà lasciare quella realtà che ormai per me è una seconda casa: conosco tutti nel villaggio, per le strade tutti mi salutano come se fossi il sindaco».
 «Purtroppo- continua Marika- dovrò partire, ma tornerò: voglio tornare ogni anno per almeno dieci giorni, ho dei progetti di adozione a distanza per sostenere degli studenti a scuola. L’Aids è ancora una delle principali cause di morte in Tanzania, il quarto paese al mondo per morti da sindrome da immunodeficenza acquisita. Ci sono torme di bambini orfani, vivono con i nonni poverissimi. Noi cerchiamo di costruire e offrire per loro un’alternativa».
 Avesse la famosa bacchettina magica, Marika risolverebbe subito un problema: «Istituirei la scuola gratuita, costruirei ostelli migliori, darei un’opportunità a tutti. Adesso, vista la situazione attuale, non hanno scelte, purtroppo».
 Per quanto tempo ancora «dannati della terra»?
 
Pagina 8 - Sardegna
Macomer, Marika docente di inglese a Kwala, Tanzania
 
MACOMER. Il mal d’Africa non ha sempre gli stessi sintomi ma spesso una lunga incubazione. Marika Mura l’ha contratto in Europa, a Manchester, in un master post lauream sulla cooperazione allo sviluppo del Terzo Mondo. Poi è andata in Tanzania con un’organizzazione non governativa statunitense.
 La incontriamo a Macomer, il suo paese d’origine, dove è ritornata per una vacanza. Ha i capelli corti: «Dopo quasi un anno al sole e di docce con i secchi a Kwala, li ho tagliati», dice, e sorride.
 Il suo racconto va a ruota libera, franco e spontaneo come quello di una missionaria in paesi lontani.
 «In Tanzania cattolici e ortodossi sono in minoranza, ma non più di tanto, rispetto ai musulmani. Nel mio villaggio, tremila anime, ci sono una chiesa e una moschea ma non c’è l’acqua corrente né il gas, né l’elettricità. Si cucina con il carbone, l’acqua si raccoglie con i secchi in tre punti diversi del villaggio».
 - Il fiume è lontano?
 «A sei chilometri di distanza. Quando piove è bellissimo perché si mettono i secchi fuori e si riempiono di acqua piovana. Noi qui in Sardegna stendiamo la roba e se piove la rimettiamo in lavatrice per risciacquarla».
 - A Kwala, invece?
 «I vestiti talvolta si stendono sotto la pioggia, che li lava. Una concezione diversa del vivere».
 - Le difficoltà primordiali ti spaventano?
 «Al contrario. Mi dànno molta confidenza in me stessa, ho visto che il mio spirito di adattamento è molto forte. Sono riuscita a cavarmela benissimo in tutte le situazioni. E non mi sono ammalata, al contrario degli americani che si sono beccati un po’ di tutto: malaria, virus intestinali, dermatiti varie».
 - Vaccini?
 «Se ne fanno diversi: epatite A, antitetanica, meningococco. Per la malaria non c’è il vaccino, bisogna fare una profilassi».
 - Se avessi saputo com’era saresti partita?
 «Non saprei dire, ora. Il viaggio da sola mi spaventava, la prima settimana è stata difficile soprattutto per le condizioni igieniche. Noi siamo piuttosto condizionati, a Kwala i piatti si lavano con le galline che ci camminano sopra, si cucina con gli animali che ti girano fra i piedi, il rapporto con la natura è un altro. Noi, ad esempio, ci mettiamo problemi di batteri e poi magari non c’è bisogno di tutte le precauzioni. Le cose che usiamo per pulire e disinfettare sono chimiche, laggiù si usa la terra».
 - Come vivi il rapporto con una popolazione che comunque ti ama e riconosce quello che fai per loro? Che tipo di conforto ti dà?
 «Sicurezza e fiducia in me stessa innanzi tutto, so di fare qualcosa per gli altri: mi sento utile. Con una soddisfazione in più: i miei studi sono serviti a qualcosa, mi hanno aiutato a trovare un lavoro che non mi ripaga tanto dal punto di vista materiale quanto nella consapevolezza di essere d’aiuto a cambiare delle vite».
 - Che cosa intendi, esattamente?
 «I ragazzi non mi dimenticheranno, da grandi parleranno di me. Spero di lasciare un buon ricordo. Anche loro stanno cambiando la mia vita».
 - Quando l’Africa era per te soltanto un continente sulla carta geografica o in tv, come te la pensavi?
 «Alcune cose le immaginavo in peggio, altre non le immaginavo affatto. Per esempio: quando sono arrivata sapevo che loro vivevano in capanne, ma non credevo mancasse l’acqua corrente. Poi sono andata a vivere in un edificio, una parte della scuola: diverso dalle capanne, non proprio una casa, comunque una struttura. Non c’era l’acqua corrente ma l’elettricità sì. Già quello mi ha sollevata».
 - Com’era quella casa?
 «Il regno dei contrasti. C’era il salotto, la televisione, la radio, il lettore dvd, ma non una cucina, né un tavolo, né sedie, né fornelli. Lì ho capito quanto sia subalterno il ruolo della donna: l’uomo ha la poltrona, la tv, il cellulare, ma non c’è un frigo, nonostante i 35 gradi di temperatura costante».
 - Il potere decisionale a chi spetta?
 «La donna controlla l’educazione dei figli e la casa, il marito va a lavorare. Parlo degli insegnanti. La maggior parte degli uomini sono pastori o contadini, la donna lavora a casa e nei campi, più dell’uomo. Sono donne forti. In Tanzania la poligamia è irrilevante, la maggioranza degli uomini ha una sola moglie».
 - Tu quale lavoro fai?
 «Insegno inglese nella prima e nella seconda superiore e seguo i progetti di sviluppo comunitario tramite l’organizzazione americana per cui lavoro. I miei alunni sono un centinaio per la prima e altrettanti per la seconda. Ma c’erano lavori in corso, mancavano aule: io avevo classi con settanta-ottanta ragazzi. In situazioni normali cinquanta».
 - I tuoi studenti si applicano?
 «Una trentina dei miei sono bravini, altri si impegnano ma è difficile lavorare anche perché arrivano con basi scarse. Le elementari le fanno nella loro lingua, poi nelle superiori tutte le materie per legge debbono essere insegnate in inglese. Come se a un ragazzino di tredici anni qui da noi tutto fosse insegnato in inglese».
 - Di conseguenza?
 «Molti di loro sviluppano un rifiuto nei confronti dell’inglese. Qualcuno capisce e si applica, vuole studiare la sera: vengono a cercarmi a casa, mi chiedono compiti. Altri invece non ne hanno voglia».
 - Evasione scolastica?
 «In Tanzania la scuola è pubblica, a pagamento. La rata annuale è di 70.000 scellini, intorno ai 35 euro. L’evasione è altissima, ma la statistica non ne tiene conto».
 - Aborti clandestini?
 «No, che io sappia. Qualche studentessa è rimasta incinta ma ha portato avanti la gravidanza. Chi rimane incinta viene espulsa dalla scuola. C’è un gran rigore: le ragazze debbono avere i capelli corti e niente braccialetti. Ma ci sono anche alcune cose nascoste. Molte ragazze vengono dei paesi vicini, i genitori debbono pagare anche la rata dell’affitto dell’ostello. Spesso le ragazze scappano dall’ostello durante la notte e si prostituiscono perché non hanno soldi».
 
LA NUOVA SARDEGNA
3 – La Nuova Sardegna
Pagina 9 - Sardegna
Sardegna ricerche, intese con aziende negli Usa
Si è tenuta in America la manifestazione internazionale cui hanno preso parte solo quattro regioni italiane
 
 CAGLIARI. Sono stati due giorni positivi per Sardegna ricerche, (il Parco scientifico e tecnologico dell’isola), che ha partecipato negli Stati Uniti alla più importante manifestazione internazionale nel campo del biotech. Il bilancio per la società sarda è sicuramente positivo. La manifestazione si è tenuta a Washington, nel «Padiglione Italia», con una quarantina di partecipanti fra imprese, centri di ricerca e parchi scientifici oltre a spazi in cui sono stati effettuati diversi convegni e alcuni workshop. L’appuntamento è annuale e vi prendono parte i leader mondiali del settore. A rappresentare l’Italia sono state invitate solo quattro regioni: Lombardia, Piemonte, Sardegna e Toscana con programmi che attraversano diversi settori di attività: dall’oncologia all’agroalimentare, dalla cosmetica alla biomedicina fino alla diagnostica molecolare e ai farmaci innovativi per la cura di malattie rare o finora incurabili. Nella due giorni americana si è discusso molto di green economy, settore su cui la Sardegna punta molto per riconvertire parte dell’industria e per salvaguardare l’ambiente. Di grande rilievo, a questo proposito, un progetto presentato per lo sviluppo del comparto delle biotecnologie, finanziato dal Ministero per lo sviluppo economico in collaborazione con Federchimica-Assobiotec. Un ruolo importante avranno tutte e quattro le regioni italiane rappresentate a Washington. Nel padiglione italiano, infine, è stato presentato su un maxi schermo un catalogo virtuale delle tecnologie innovative delle aziende italiane, mentre le società Ernst&Young, Assobiotec-Farmindustria hanno illustrato il Rapporto 2011 sulle biotecnologie in Italia insieme al nuovo portale www.biotechinitaly.com.
 L’industria biotech italiana è in crescita per dimensione e competitività. Con 375 aziende l’Italia è al terzo posto in Europa per numero di imprese: 246 operano nel red biotech (farmaceutico e medicale), 49 nel green biotech (agroalimentare), 21 nel white biotech (ambientale e industriale). La manifestazione è stata organizzata operativamente dall’Ice ed è stata raggiunta l’intesa di realizzare e promuovere programmi bilaterali di collaborazione nel campo della ricerca avanzata. L’accordo è frutto di esperienze molto simili. Il fatturato delle 622 società biotech quotate in borsa cresce ad un ritmo molto superiore a quello delle aziende italiane.
 
LA NUOVA SARDEGNA
4 – La Nuova Sardegna
Pagina 39 - Sport
Il Cus Cagliari è tentato dalla A1
La rinuncia di Venezia apre le porte al ripescaggio ma i costi sono importanti
MARIA GRAZIA PAIS
 
 CAGLIARI. Ancora 24 ore e i tifosi del Cus Cagliari sapranno se dopo 14 anni torneranno a fare il tifo in A1. Fine settimana rovente per i dirigenti universitari, divisi tra la volontà di rispettare la sofferta decisione presa qualche settimana fa di rinunciare all’eventuale ripescaggio, e la voglia matta di rischiare e provare subito l’ebrezza della A1.
 Bisognerà aspettare che la Reyer Venezia abbandoni definitivamente il panorama cestistico nazionale: i tifosi lagunari fanno gli scongiuri, ma la crisi è crisi. E il responsabile del settore basket del Cus Marcello Vasapollo e i suoi collaboratori stanno valutando attentamente pro e contro. Il Cus ha comunque presentato in Lega la documentazione, per no farsi cogliere impreparato nel caso di una chiamata.
 In queste ore si cercano contatti con sponsor e istituzioni per non lasciare nulla di intentato, visto che partecipare alla A1 costa parecchio e a Sa Duchessa non hanno voglia di prendere decisioni avventate per ritrovarsi a fare una comparsata. Dopo la delusione di gara3 della finalissima promozione ad Alcamo, la società aveva subito voltato pagina iniziando a pensare al futuro con la riconferma dei pezzi da novanta, Barbora Fabianova a Federica Brunetti, e l’acquisto di Sara Giorgi, Raffaella Costa e Francesca Bergante in sostituzione di Antonella Buscemi, Sara Azzellini e Barbara Gibertini. Un roster di primissima fascia per la A2, ma che in caso di promozione dovrebbe essere rinforzato soprattutto con una base straniera.
 

Questionario e social

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