Domenica 7 febbraio 2010

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
07 febbraio 2010
Rassegna quotidiani locali
a cura dell’ufficio stampa e web

1 – L’Unione Sarda
Cultura – pagina 50
Incontri. L’architetto catalano, visiting professor nella facoltà cagliaritana, in città per “Shifting”
La sfida dell’architettura? La periferia cubista
Carmen Fiol racconta Barcellona e Cagliari E il deserto che può diventare poesia  
 
Portare la poesia nel deserto. È accaduto a questa bella architetta-urbanista-paesaggista catalana che dagli esordi frequenta la facoltà di Architettura di Cagliari come visiting professor. Carmen Fiol I Costa, titolare, con Andreu Arriola, di uno degli studi di architettura più apprezzati a livello internazionale, è riuscita a ridare anima a un luogo. A trasformare una zona degradata della sua città in un parco di sedici ettari, il Nou Barris Central, restituendo al luogo una identità attraverso il potenziamento delle infrastrutture viarie e l’interruzione dell’isolamento. “Periferia cubista” l’ha definita, ammettendo di essersi ispirata, con Arriola, a Picasso e al suo Horta de Sant Joan : un insieme di linee disordinate e disarmoniche che creano ordine e armonia.
Carmen Fiol in questi giorni è a Cagliari, tra i suoi studenti, per dar vita a Shifting , un importante momento di scambio sui grandi temi. Ieri mattina, sollecitata dalla collega Ilene Steingut, ha intessuto con Elena Pascolo (sudafricana di origine italiana, visiting professor anche lei) un discorso sull’architettura. Non esiste una architettura senza un discorso: questo il senso dell’incontro - e dell’impegno - di queste professioniste. Che a Cagliari, in questa facoltà giovane, presieduta da Antonello Sanna e ospitata nello splendido complesso di Santa Croce, hanno trovato un luogo pieno di energia. Agli studenti suggeriscono ora di aprire gli occhi al mondo, unico modo possibile per apprezzare la singolarità della loro città. Aprire gli occhi, e le porte, a nuovi incontri, perché l’architettura è dinamica. E qualunque progetto urbano o è dialogo o non è.
Barcellona in questi anni è segnata da un grande rilancio dell’architettura. Un rilancio di cui lei è protagonista, basti pensare alla Gran Via. Qui che cosa si può fare?
«Ci deve essere una espressa volontà di politici colti, professori colti, gente colta, nell’architettura, nell’economia, nella finanza. Da piccola mi vergognavo quando entravo a Barcellona in treno, tornando da Parigi. Credo avvenga altrettanto qui. Una città deve essere come la tua casa, funzionale, bella, a misura di uomo».
Cagliari è a misura di uomo?
«Non lo è. Lo sono i quartieri singoli: Castello, Stampace, Marina, percorrerli è possibile. Ma attraversare Cagliari, per esempio da viale Diaz a via Corte d’Appello, è difficilissimo, non ci sono marciapiedi, c’è rumore. Niente è pensato per la persona, non c’è un buon compromesso tra diverse esigenze».
Quanto è importante per gli studenti il confronto?
«È fondamentale, nel nostro studio abbiamo avuto per un anno due allievi sardi molto bravi, Laura Porceddu della facoltà di Alghero e Marina Fanari di Cagliari. Io ho fatto un’esperienza simile negli Usa, e devo dire che è fondamentale rendersi conto anche del propri valore. A volte scopri che sei migliore di altri. Questo vale anche per voi, Cagliari non è affatto isolata, il vostro pensiero, il nostro pensiero, sono di prima fila».
Perché le città oggi sono più brutte? Qui a Castello questo Palazzo Cugia che ora ospita la facoltà è splendido ma anche i palazzi più poveri hanno una loro dignità...
«Credo che gli anni Settanta abbiano portato a Cagliari molte cose terribili, e anche adesso buttare piccole case per costruire palazzi è terribile. Non si possono fare cose peggiori di prima solo per rispondere all’esigenza di costruire».
Qual è la buon architettura?
«Quella facile da vivere, contemporanea, bella, in grado di dare risposte ai bisogni di oggi e di fare città. Creare relazione tra casa e strada, individuo e casa, casa e quartiere. Non basta una visione geometrica e formale, credo ancora che l’architettura possa ancora trasformare il rapporto tra la gente, l’oggetto architettonico e la città. Oggi abbiamo migliorato tutto: ventilazione, luce, aria, spazio, ma il vero senso della città è dinamico».
Che cosa pensa dell’esaltazione delle archistar? Una moda?
«Questo lo porta il sistema. Quello americano, ipercapitalista. Sono i politici che vogliono una icona, un monumento architettonico di una grande firma, per valorizzare la città. Può aiutare, certo, ma non basta l’immagine se non si ristruttura un quartiere».
Oggi si parla tanto di architettura sostenibile...
«Tutte queste parole sono moda. Nei paesi tradizionali del Mediterraneo l’architettura è per sua natura sostenibile. Negli Stati Uniti, in Australia hanno speso tanti soldi per costruire immensi grattacieli, ora fanno gli stessi edifici ma cercano di risparmiare. Questa non è sostenibilità, lo è solo in parte. Voglio dire che in ogni parte del mondo c’è una maniera di costruire più adatta».
A proposito di occhi bene aperti, esiste uno sguardo femminile sull’architettura?
«Credo di no, l’architettura è stata per troppo tempo in mano agli uomini. Il potere è nelle loro mani».
Torniamo alla periferia cubista, al deserto che diventa poesia. A Cagliari.
«Prendiamo Sant’Elia, guardiamone le qualità: il cielo, lo spazio, il mare, e pensiamo a un progetto nuovo, a qualcosa che leghi quei palazzoni privi di urbanizzazione: un parco, un auditorium, una scala, un ponte. Un luogo dove qualsiasi punto di vista abbia la stessa importanza. Insomma, una pittura cubista in tre dimensioni. La gente normale pensa che il centro delle città sia la Cattedrale. Lo era un secolo fa, non lo è più. È la periferia cubista, la città reale: molte case, poche risorse. Creare uno spazio che metta tutto insieme, questo è la scommessa del progetto urbano contemporaneo».
MARIA PAOLA MASALA

2 – La Nuova Sardegna
Pagina 2 - Cagliari
Il master per fare progetti con l’Europa 
Corso di eccellenza dell’università: più facile ottenere i fondi dell’Unione 
 
CAGLIARI. «Gli Eurobond, emessi dalla Banca europea degli investimenti e garantiti dagli Stati, permetterebbero una raccolta di mille miliardi all’anno, con cui finanziare un grande progetto per il rilancio e lo sviluppo, uno per la ricerca e la formazione compreso il lancio dell’Erasmus universale, esteso ai giovani tra i 16 e i 35 anni». Lo ha detto Gianni Pittella, vicepresidente vicario del Parlamento Europeo, all’inaugurazione della terza edizione del Master in Progettazione europea organizzato dal centro di ricerca Crenos e dalla facoltà di Scienze politiche, «Servono decisioni coraggiose - ha proseguito l’europarlamentare del Pd - quello degli Eurobond è un tema che va rilanciato con forza». Secondo Pittella, è necessario un coordinamento economico: «Come si fa ad avere una moneta unica forte e a non dotarsi di strumenti di politica economica efficaci?». E a questa necessità risponde il master in Progettazione europea (Mape) dell’università, giunto alla terza edizione e diretto da Stefano Usai. «Formiamo persone in grado di rapportarsi alle nuove dinamiche - ha spiegato il docente - e che sappiano ottenere le risorse scrivendo progetti capaci di affrontare le criticità dell’attuale crisi del sistema socio-economico». Il master è un corso di eccellenza nell’offerta formativa del nostro Ateneo e si propone di colmare una lacuna formativa, ha detto Giovanna Ledda, prorettore delegato per l’internazionalizzazione, che ha proseguito: «Il nostro scarso successo nell’acquisizione di risorse esterne è dovuto anche alla mancanza di professionalità in grado di affiancare chi presenta progetti in sede europea con le necessarie conoscenze di rete e le opportune competenze linguistiche».
 
3 – La Nuova Sardegna
Prima Pagina
DILIBERTO AUTORE DEL CODICE CIVILE DI PECHINO 
 
ROMA. Oliviero Diliberto, ex ministro della Giustizia e segretario dei comunisti italiani, collabora da dodici anni alla realizzazione del codice civile della Cina.
 
Pagina 6 - Sardegna
«Ho insegnato il diritto ai cinesi» 
Diliberto collabora da 12 anni alla redazione del codice civile di Pechino 
Quando Deng ha avviato le riforme economiche ha avuto l’esigenza di introdurre nuove norme, come quelle sulla proprietà 
DALL’INVIATO MAURO LISSIA 
 
 ROMA. A che punto è il suo codice civile sardo-italo-cinese?
 «Molto avanti. Sono state promulgate le prime due parti, quelle che riguardano i rapporti degli uomini con le cose. Mancano le parti sui diritti delle persone. Alla fine tutto confluirà in una trattazione omogenea».
 - Destinata a ricalcare le norme antichissime del diritto romano.
 «Questa è la cosa di portata storica. I cinesi dovevano scegliere il modello cui uniformarsi e hanno scelto quello romanista».
 - Merito dei romani?
 «Merito di Sandro Schipani, che oggi insegna all’università di Tor Vergata. La sua è stata un’intuizione geniale. Era il 1988, la Repubblica popolare cinese aveva intrapreso la strada delle riforme economiche e Schipani capì che aprendosi al mercato avrebbe presto avuto la necessità di fare riferimento a norme del diritto civile».
 - Così è nata la collaborazione con l’Italia.
 «Certo. Poi è accaduto che dieci anni esatti dopo l’avvio di questo rapporto io sono diventato ministro della Giustizia. Ero ministro, comunista e professore di diritto romano. Quando nel 1999 si svolse il convegno internazionale di diritto romano in Cina l’inaugurazione venne affidata ai due ministri omologhi. E’ stato il passo fondamentale per dare ufficialità a un rapporto nato dalla collaborazione fra due università».
 - I cinesi sono andati alle fonti romane.
 «Hanno tradotto quaranta libri dal latino al cinese e hanno bypassato la fase dei codici europei. Così per loro quello alla proprietà non è il perno del sistema, ma è un diritto come gli altri».
 - Qual è stato il suo ruolo in questo progetto?
 «Come ministro ho dato un crisma di ufficialità a una cosa che altrimenti sarebbe stata solo privata, oggi faccio l’ufficiale di collegamento fra l’università italiana e la Cina. Sono fra i docenti che collaborano più intensamente all’elaborazione del codice».
 - Lei partecipa anche alla scrittura dei testi normativi?
 «Noi della Sapienza forniamo i materiali da tradurre nel codice cinese. Nel 2005 non era stata ancora approvata la parte di codice relativa alla proprietà. C’era il grande tema, in un paese che si proclama socialista, del rapporto fra proprietà statale e proprietà privata. Io ho suggerito di adottare il sistema squisitamente romano: la terra è proprietà dello stato e non può essere privata. Però lo stato è un’entità astratta, allora lo stato può concedere in uso la terra ai privati mantenendo la titolarità. Come facevano i romani».
 - Suggerimento accolto?
 «Sì, ora è nel codice civile cinese».
 - Come funzionava la giustizia civile in Cina prima del codice?
 «Semplice, se non hai un’economia di mercato non hai bisogno neppure di un codice. E’ quando Deng Xiao Ping avvia il cammino verso le riforme economiche che si pone il problema delle regole».
 - Ma il codice civile regola anche i rapporti elementari fra le persone, dalle liti di vicinato ai debiti.
 «C’erano norme consuetudinarie e la cornice costituzionale».
 - I giudici?
 «Sono arrivati solo dopo Deng, prima c’erano i tribunali del popolo. E’ con le grandi modernizzazioni che si pone il problema di creare una classe di giudici. Oggi la formazione dei giudici cinesi avviene in Italia, all’università Tor Vergata. Qui imparano il rapporto tra le norme e la loro applicazione».
 - Come possiamo immaginarci la giustizia civile cinese?
 «Efficientissima. Da loro il processo è breve e basta».
 - Che cosa può cambiare nei rapporti commerciali internazionali il fatto che la Cina si sia dotata di un codice civile?
 «Un enorme vantaggio, ancora sottovalutato dagli imprenditori italiani. Ora Cina e Italia hanno categorie comuni, perchè il rapporto fra i diritti nazionali e il diritto romano è lo stesso che esiste fra latino e lingue neolatine».
 - Le norme del lavoro?
 «Rispetto a noi in Cina ci sono meno garanzie, ma sono infinitamente maggiori rispetto agli altri paesi asiatici. Oggi il tema del partito comunista cinese è portare il benessere nelle campagne».
 - Il diritto penale?
 «Confesso la mia ignoranza. Il diritto penale è un’espressione molto più diretta delle diverse concezioni dello stato, per definizione una delle prerogative dello stato. Come università non ce ne siamo mai occupati».
 - Possiamo dire che oggi le garanzie sui profili penali sono più limitate delle nostre?
 «Sono diverse. Ma lo sono anche negli Stati Uniti, dove esistono le carceri private, anche se nessuno ne parla».
 - Il livello dei diritti e delle libertà in Cina?
 «Siamo in due pianeti diversi, chiaramente. L’acquisizione in Europa della consapevolezza dei diritti è il frutto di un percorso faticosissimo che passa dall’illuminismo alla rivoluzione francese, alla rivoluzione d’ottobre in Russia fino alle costituzioni repubblicane che sono nate dopo la sconfitta del nazifascismo. Tutto questo la Cina non l’ha avuto, è passata dal feudalesimo al comunismo. Ci vorrà tempo e una maturazione complessiva. Il primo diritto dell’uomo è quello di vivere, per vivere bisogna mangiare e dar da mangiare a un miliardo e trecento milioni di persone è un po’ complicato. Quindi è comprensibile che ci sia una struttura dello stato diversa dalla nostra».
 - Che cosa potrebbe imparare l’Europa da un paese come la Cina?
 «Il senso della collettività, il contrario dell’indivudualismo europeo, frutto di una concezione tardo-illuminista. In Cina tutti sono convinti di partecipare a un progetto collettivo ed è un paese giovane. Direi che il pendolo della storia si sta spostando verso oriente. Perchè c’è un investimento di risorse mostruoso in un settore dove noi non investiamo più niente: l’intelligenza delle ragazze e dei ragazzi. La Cina investe il cinque per cento del pil in ricerca scientifica, noi lo 0,8. L’accademia delle scienze di Pechino ha comprato l’Ibm. L’accordo strategico Cina-India sta creando una gigantesca potenza perchè in India ci sono i più avanzati informatici del mondo. Se la Cina non prende più il know-how in Occidente ma lo prende in India e l’India prende le risorse economiche cinesi si crea il fenomeno cosiddetto Cindia, che non lascerà più trippa per nessuno».
 - Un’occasione perduta per noi?
 «Noi italiani dovremmo cercare di entrare in Cina facendo il contrario di quello che stiamo facendo: i dazi. Se noi mettiamo i dazi, i cinesi metteranno a loro volta i dazi e l’Europa ne uscirà strangolata. Altrimenti si aprirà un mercato enorme, per prodotti che loro non hanno ancora».
 - E i diritti in Italia?
 «Noi li esportiamo, ma nella culla storica del diritto lo stato della giustizia è comatoso. Anche perchè qualsiasi riforma impatta su tre-quattro processi che riguardano gli imputati eccellenti. E’ una cosa intollerabile».
 - Presto potrebbe arrivare il processo breve.
 «C’è già, perchè la rumena che ha ucciso con l’ombrello una ragazza italiana alla stazione di Roma ha avuto la sentenza di condanna definitiva in due anni e tre mesi. Siccome era una sfigata rumena aveva il difensore d’ufficio, non ha potuto mettere in piedi alcuna forma di difesa utile a sfruttare la corsa a ostacoli che è diventato il processo penale in Italia. La realtà è che abbiamo una giustizia di classe: i ricchi se la sfangano, gli sfigati vanno in galera. Tant’è vero che la popolazione carceraria in Italia è fatta di tre grandi segmenti: i tossici, gli extracomunitari e la marginalità sociale. Nel carcere si scarica il disagio della società».
 - Rimedi?
 «Una banale depenalizzazione per evitare tutta la microcriminalità legata alla droga. Ma di questo naturalmente non parla nessuno, il parlamento non si occupa di giustizia ma solo delle vertenze giudiziarie di Berlusconi».
 - Serve risolvere i problemi giudiziari del premier per salvare il resto dei processi, il cosiddetto male minore invocato da molti?
 «Non sono d’accordo, capisco questa linea ma rappresenterebbe il cedimento definitivo sul piano dei principii. Se si sancisce il principio che c’è una persona in Italia che non può essere processata... no, meglio una norma che lo assolve. Perché io devo poter continuare a dire che questa cosa è una schifezza e che l’articolo 3 della Costituzione stabilisce l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge».
 - L’uguaglianza?
 «...siamo a una via di mezzo fra tragedia e farsa. Norme anti-pentiti, limiti alle intercettazioni, il premier che si autocertifica gli impedimenti. Non c’è consapevolezza a livello di massa che il tema della giustizia riguarda tutta la società, non solo gli imputati o chi ha cause in corso. La giustizia civile è ingolfata, anni per divorziare, per esigere un credito... tutto ciò ha costi spaventosi».
 - La corte europea li ha segnalati più volte.
 «Con un paradosso, perchè i ricorsi alla corte europea sono talmente tanti che siamo riusciti a ingolfare anche quella. Prima le sentenze erano immediate, ora servono anni. In Italia ci sono studi legali specializzati in ricorsi a Strasburgo. D’altronde abbiamo duecentomila avvocati, record planetario, e queste sono le conseguenze».
 - Nel corso delle inaugurazioni dell’anno giudiziario si è parlato molto di lentezza del processo. Solo un problema di carenza di mezzi o c’è altro?
 «E’ il sistema che è arrivato al capolinea. Un esempio: le cause civili pendenti sono circa quattro milioni, ma un milione sono cause dell’Inps. Cittadini italiani che chiedono la pensione, l’invalidità... per disposizioni gli avvocati dell’Inps resistono sempre e vanno a giudizio. Tre gradi, tempi lunghissimi. L’Inps perde il novanta per cento delle cause, ma il giudice decide sulla base dei calcoli di un perito. Bisogna togliere questa massa di cause dai tribunali e passarle a una camera di conciliazione, dove c’è un perito che calcola e decide. Camere di conciliazione, le cause seriali possono essere smaltite così. Stesso discorso per il penale: depenalizzare tutto quello che non provoca allarme sociale, spostare sul piano amministrativo. Queste soluzioni di buon senso però si scontrano con corporazioni forti: gli avvocati, che con queste cause ci campano. Ma anche la magistratura non vede di buon occhio perdere tutti questi ambiti dove decide. Ci vorrebbe un potere politico forte in grado di gestire con queste categorie una riforma di struttura».
 
4 – La Nuova Sardegna
Pagina 4 - Sardegna
«Studiamo vie per una chimica pulita» 
Farmaceutica, bonifiche, ricerche e altre sinergie tra i piani dell’università di Sassari 
PIER GIORGIO PINNA 
 
SASSARI.  In che cosa consiste, sul piano concreto, l’aiuto che l’ateneo di Sassari può dare all’area industriale di Porto Torres? «Abbiamo le competenze per rilanciare una stagione della chimica pulita - spiega Serafino Gladiali, specialista dell’università - E le forniremo tutte».
 Quali i punti di forza ipotizzabili dopo gli annunci del rettore e il documento del Senato accademico di sostegno alle lotte? «Studiare come servirsi al meglio d’infrastrutture e servizi, avviare le bonifiche, difendere il patrimonio di cultura e tradizioni accumulato in 40 anni, favorire altre linee come la farmaceutica e incoraggiare nuove iniziative imprenditoriali», risponde ancora Gladiali, docente di chimica industriale. In Sardegna dai primi anni ’70, alle spalle un lungo curriculum, da esperto, con altri colleghi specialisti, Gladiali ragiona sulle prospettive. Tutto in una collaborazione con gli operai-attori sul territorio che veda l’università protagonista.
 - Già, ma protagonista in che senso, professore?
 «L’ateneo deve svolgere semplicemente il proprio ruolo. Non può sostituirsi a soggetti imprenditoriali. Ma il fatto che per la prima volta venga data la piena disponibilità delle nostre competenze è un segnale di estremo rilievo. Daremo un contributo verso quei piani di reindustrializzazione decisivi per il rilancio di Porto Torres, dalle manifatture alla tecnologia applicata».
 - A quale tipo di prodotti si riferisce nella nostra vita quotidiana?
 «Mah, un po’ a tutto. La chimica è indispensabile per ogni cosa: dalla componentistica all’arredamento, dagli interni delle auto ai pannelli fotovoltaici. In Italia sembra che si voglia trascurarla. Ma i nostri vicini, come Germania Olanda, Francia e Gran Bretagna, stanno rilanciandola. Loro occuperanno il mercato».
 - Che intende per chimica pulita e sostenibile?
 «Oggi in fabbrica non si lavora più come 30 o 35 anni fa. Esistono leggi a tutela dell’ambiente che devono essere rispettate. Sempre. In queste condizioni la chimica non è dannosa per il patrimonio naturalistico. A patto di sostenere i costi per mettere a norma gli impianti e fare poi i periodici controlli, le moderne produzioni potranno tranquillamente convivere col parco dell’Asinara».
 - Porto Torres è un polo ancora competivo?
 «Eccome. Ha strade, infrastrutture, servizi eccezionali. È inserito in una formidabile rete di comunicazioni: via mare, via terra, via aerea. Le maestranze sono giovani, eppure hanno acquisito una professionalità straordinaria. Ecco perché, come università, metteremo in campo ogni risorsa per favorire un nuovo sviluppo».
 - Ci sono altri attori in grado di svolgere una parte sulla scena?
 «Certamente. Se per l’ateneo possono venire mobilitati ricercatori dei dipartimenti di chimica, della facoltà di farmacia, altri gruppi specialistici, non dimentichiamoci che a Sassari c’è il Cnr, attivo nel campo delle indagini su prodotti biologicamente importanti. La stessa Regione, infine, dovrebbe dar corso alle bonifiche con programmi politici d’incentivazione degli insediamenti industriali».
 
5 – La Nuova Sardegna
Pagina 17 - Sassari
Da Cagliari la richiesta di una verifica sull’Università 
 
 SASSARI. Proseguirà nei prossimi giorni l’indagine interna del rettorato sui rilievi contenuti nell’ispezione ministeriale sull’attività contabile dell’università. Attilio Mastino ha infatti disposto che siano verificati tutti gli aspetti contenuti nella relazione con l’intenzione di fare chiarezza ed eliminare tutte le ombre che ora gravano sull’ateneo.
 Intanto da Cagliari viene confermata la volontà di capire che cosa sia successo nell’università sassarese e se davvero, come risulta dai rilievi dell’ispettore, i fondi regionali assegnati non sono stati utilizzati correttamente. In un documento firmato da 25 consiglieri regionali della maggioranza, tutti della zona di Cagliari, si chiede infatti che venga istituita una commissione d’inchiesta proprio per verificare «le modalità con cui sono stati spesi i soldi della Regione, se ci sono state concessioni non legittimate da gare d’appalto, quantificare eventuali incomprensibili aumenti di costi su interventi fatti con i finanziamenti regionali, quanto verrà a costare il completamento dei progetti ancora in essere e quali saranno i tempi per la loro ultimazione». Inspiegabilente il documento non è stato firmato da consiglieri regionali sassaresi.
 
6 – La Nuova Sardegna
Pagina 1 - Cagliari
Tre porti per vincere la sfida del nord Africa 
Parte dalla Sardegna la riscossa del transhipment made in Italy 
«Il governo deve riconoscere la nostra specifica attività» 
ALESSANDRA SALLEMI 
 
 CAGLIARI. Parte da Cagliari la sfida ai terminal container africani meno costosi, super attrezzati, molto aggressivi nel cercare mercati. Il porto di Cagliari è appena uscito da un gran vuoto di traffici durato quasi un anno, Gioia Tauro e Taranto ci sono in mezzo, con 700 cassintegrati fra l’uno e l’altro: la difficoltà a riprendere quota ha creato attenzione verso la proposta lanciata tempo fa dall’autorità portuale di Cagliari affinché i tre porti italiani dove attraccano navi container diventino un tutt’uno. Giorni fa il presidente dell’autorità portuale cagliaritana, Paolo Fadda, era a Gioia Tauro per lavorare alla bozza di un’associazione fra porti di transhipment. Il momento è giusto perché il Governo ha messo mano alla legge 84, quella che istituì le autorità portuali e riformò profondamente il sistema di lavoro negli scali italiani. Il riordino della normativa è cominciato, ma Fadda e gli altri presidenti vedono già un pericolo neppure troppo all’orizzonte: «Lo Stato non si sta mettendo il problema di riconoscere i porti di transhipment, che significa avere gli strumenti per fare transhipment, non le strutture che hanno gli altri scali italiani che gestiscono diversi tipi di traffico. Una delle differenze del transhipment rispetto ai traffici degli altri porti è che noi ci confrontiamo con il mercato internazionale, non con i mezzi a disposizione negli scali nazionali. I porti africani hanno molta più capacità di competere di noi che abbiamo regole imposte dall’Unione Europea e dal governo nazionale». E’ come se per una gara di Formula Uno si mettesse a correre una macchina da rally anziché una adeguata al circuito. «Il nostro porto è molto costoso - continua Fadda - abbiamo necessità che la nuova legge 84 ci riconosca diversi e quindi noi si abbia la possibilità di contrattare liberamente le tariffe nel mercato internazionale, senza invece dover fare riferimento a quelle dei porti nazionali». Oltre il riconoscimento da parte di Roma, serve un altro passaggio, quello in costruzione con la bozza discussa pochi giorni fa a Gioia Tauro: i tre porti devono fare sistema, «diventare un terminal virtuale unico - spiega Fadda -, dove ci si scambino i container, si faccia la gestione dei vuoti, la formazione comune, la gestione dell’emergenza. Tutte cose da studiare, che si è cominciato a proporre». L’allarme porti è nazionale, Assoporti ha lanciato un’idea che le tre autorità portuali ritengono interessante: «Lo Stato introita l’Iva pari al 20 per cento di tutte le attività dei porti, se a questi si riconosce un 6, 7 per cento di quell’Iva, i porti diventano autonomi e ci possiamo gestire le infrastrutture senza più chiedere un euro allo Stato. Perché se noi abbiamo la certezza - spiega Fadda - di quelle entrate, possiamo contrarre mutui e pagare le rate, project financing e altre formule utili per fare investimenti sul porto. L’argomento è interessante, anche se non di immediata praticabilità, ci vorrà una trattativa. Per ora noi insistiamo a chiedere allo Stato che ci dica se dobbiamo continuare a fare transhipment oppure no. Se ci dirà di sì, ci dovrà riconoscere gli strumenti». Infine, sulla polemica con Genova: «A Genova non conviene che il transhipment italiano muoia: Tunisi, per esempio, che garanzie è disposta a dare di servirsi di Genova come scalo europeo invece di Marsiglia? Credeteci - chiude Fadda - ora come non mai serve gioco di squadra».
 
 
 
 

Questionario e social

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