Lunedì 2 marzo 2009

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
02 marzo 2009
Rassegna quotidiani locali
a cura dell’ufficio stampa

 
1 – La Nuova Sardegna
Pagina 6 - Sardegna
La task force sarda dell’integrazione aiuta i rifugiati a ritrovare la libertà 
In Sardegna sono sedici gli stranieri che hanno richiesto asilo politico: arrivano da Nigeria, Ghana, Guinea e Afghanistan 
di Giacomo Mameli
 
Sono i “senza libertà”, perseguitati che scappano dai regimi di dittatori e despoti, dall’Eritrea e dalla Somalia, dall’Afghanistan dei talebani e dall’Iran degli ayatollah irriducibili, dalla Liberia e dalla Costa d’Avorio, dalla Cina che per farsi sentire deve morire col fuoco in piazza Tienammen. Fuggono da tutti quei Paesi dove non puoi protestare e contestare senza finire in carcere. È quel mondo ancora tribale e violento dove i diritti civili sono calpestati come avveniva secoli fa, dove la legge è quella sanguinaria dei tagliatori di gole e di testa, di quelli che il dissenso non lo accettano proprio. In Sardegna i rifugiati politici - in questi giorni - sono sedici. Sono affidati allo Sprar (sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati) sorto con la legge Bossi-Fini 189 del 2002. Il Centro è stato intitolato a Emilio Lussu, il sardista-socialista di Armungia fuggito in Francia sotto il fascismo. Dal 29 dicembre 2006 il Centro è gestito dall’amministrazione provinciale di Cagliari (assessore competente Angela Quaquero) che ne ha affidato la gestione operativa all’associazione “Cooperazione e confronto” di Serdiana diretta da Ettore Cannavera, uno dei pochi sacerdoti-coraggio impegnati a difendere i più deboli nella sua comunità “La Collina” tra gli ulivi e le vigne del Parteolla. Lo Sprar ha sede in via Cadello, terzo piano di un palazzo della Provincia dove i rifugiati trovano assistenza e sorrisi. Giovedì c’erano quasi tutti perché era la giornata del “pocket money”, la social card o se volete la “paghetta”, 42 euro alla settimana che lo Stato italiano passa ai rifugiati. Adesso sono 14 maschi e due donne iraniane, queste ultime chiedono di non essere né fotografate né citate, parlano in inglese («ci rintraccerebbero comunque, we live by fear, viviamo di paura»). Sono qui per preparare documenti sanitari, i più per cercare un lavoro anche perché con 42 euro la settimana bisogna saper stringere la cinghia. Non pagano affitto perché abitano in appartamenti della Provincia tra il Poetto, il Cep e Is Mirrionis. Amos Ebosele ha 25 anni, è un nigeriano: «Sono dovuto scappare perché avevamo molti problemi io e la mia famiglia. Sono arrivato a novembre, ho frequentato un corso per meccanico, mi piacerebbe lavorare in un’officina. Qui in Sardegna sto scoprendo la libertà e l’affetto degli operatori». Aklis Molokrano, 24 anni, arriva dal Ghana. Sa dire solo una frase: «Ho bisogno di lavoro, tra Accra e Takoradi non ne trovi, ho visto che è difficile anche qui ma almeno solo libero».
 
Storie di disperazione, ma non solo. Da Kronacri, in Guinea, era arrivato Suleiname Bayo, aveva vent’anni, aveva partecipato ai mondiali giovanili di calcio, era finito in carcere per aver urlato slogan antigovernativi, riesce a fuggire dalla cella e sbarca in Italia passando cento frontiere. Arriva in Sardegna. È accolto in via Cadello, gioca a calcetto, viene notato da alcuni presidenti di squadre di prima categoria. Lui dice: «Gioco con voi solo se mi trovate un lavoro». Indossa così la maglia dell’Uta 90, diventa capocannoniere, lo vorrebbero due squadre del Sassarese, ora è in Lombardia, gioca da titolare in seconda divisione e fa il cameriere in un ristorante di lusso («fra i miei colleghi sono l’unico che parla inglese»). E così tante, tante altre storie che non sempre possono essere raccontate. Perché ci si imbatte, per esempio, in giovani afghani delle etnie Pasthun e Hazara e si capisce solo che vogliono dimenticare «persecuzioni e carcere, violenze morali e fisiche, fame e malattie,e mai un ospedale dove puoi essere curato. Voi in Sardegna, in Italia, vivete in un paradiso, la nostra vita è un inferno». E così oggi si chiudono sedici capitoli con le storie di sedici persone. Ne sono passati altri in questi uffici, nelle case alloggio, alcuni hanno trovato lavoro, si sono saputi inserire. Altri aspettano, passano le giornate o davanti alla televisione o a studiare l’italiano. Le lezioni di lingua vengono impartite alla “Giuseppe Manno”, scalette di Santa Chiara. C’è anche chi riesce a iscriversi alle superiori. Due afghani, Jovid e Amin, hanno potuto trovare una busta paga lavorando a Sestu in un laboratorio tessile. “Siamo felici, ma vediamo molti nostri connazionali senza futuro”.
 
A lavorare con questi giovani erranti dal mondo e per il mondo c’è un’èquipe affiatata di professionisti sardi con competenze di tutto rispetto. È una squadra, un team sociale che si è formato nelle nostre università, che a “La collina” di Serdiana ha trovato le motivazioni giuste. Oggi si occuperebbero di Navtei Singh Sidhu, l’indiano di 35 anni a cui tre belve hanno dato fuoco a Nettuno. Starebbero a contatto con Gratian, il bambino rumeno di quattro anni costretto dalla nonna a mendicare e rispedito in patria. (Ieri su l’Unità il direttore Concita de Gregorio, ha scritto: “Rimpatriare bambini soli anziché accoglierli, crescerli e farli diventare cittadini di questo Paese è una vergogna - non è la sola - che siamo costretti a condividere con chi ci governa”). I sardi del sociale lavorano senza le luci della ribalta tra gli uffici di via Cadello, al centro del parco di Monte Claro, e le tre residenze cagliaritane di quanti - in un labirinto burocratico spesso inestricabile - hanno chiesto asilo politico. La responsabile del progetto è una pedagogista di Maracalagonis, Stella Deiana, 43 anni, mamma di Chiara bimba di cinque anni. Dopo la laurea, dal 1991 lavora tra Milano e Roma. Ha davanti a sé i guai dei tossicodipendenti e degli etilisti, fa l’operatrice di strada nella zona della stazione Termini e in alcune borgate, avvia a La Cassia un progetto pilota di mediazione sociale in un quartiere di senzatetto a contatto con ville miliardarie di super-ricchi. Nel 2000 scatta il Servizio centrale del Programma nazionale per l’asilo politico “il padre dell’attuale sistema di protezione”. È lei che dal 2002 deve monitorare i progetti territoriali nazionali, compresi quelli della Sardegna. Si trasferisce a Cagliari dal 2005.
 Competenze varie. Gianna Antonacci, 29 anni, di Quartucciu, è psicologa, aveva discusso la tesi sulla “motivazione al cambiamento negli eroinomani” con molte inchieste sul campo. «Volevo soprattutto rendermi utile con i più indifesi, faccio un tirocinio al Sert, ed eccomi qui con i rifugiati, allo Sprar». I casi più toccanti: «La storia di un’iraniana violentata e torturata perché rifiutava il velo».
 Un gruppo di nigeriani e somali sta parlando con il sociologo del gruppo, Diego Serra, 40 anni, anche qui pagine choccanti di torture e arresti, di fame e miseria. Non le vogliono raccontare perché hanno paura, la frase più frequente è la solita, “we live by fear”. Serra, di Arbus, si è formato nel Montefeltro, all’università intitolata a Carlo Bo, a Urbino, tesi sulla formazione professionale con Marcello Dei. «Il problema principale dei rifugiati è la lingua, per questo motivo rendiamo obbligatoria la frequenza alle lezioni di italiano. È una complicazione anche far capire i meccanismi della nostra burocrazia». La difficoltà maggiore? «Riuscire a spronarli, alcuni si aspettano troppo ma il più delle volte si sanno integrare, hanno molta buona volontà».
 
Tra gli operatori c’è anche chi si occupa degli aspetti legali. È Ivonne Mameli, mamma di Beatrice, bimba di tre anni, ovviamente laurea in Giurisprudenza, deve seguire tutti i passaggi per far ottenere i permessi di soggiorno dei richiedenti asilo e le procedure connesse al riconoscimento dello status di rifugiato. È tra le prime a ricevere le confidenze, i segreti di questi giovani. «Il più delle volte sono persone che sono fuggite dal carcere dei rispettivi Paesi perché hanno osato protestare contro il governo, hanno un grande desiderio di libertà, vorrebbero rientrare nei loro Paesi, che ci fosse libertà in Iran e Afghanistan, in Costa d’Avorio e in Somalia, alcuni piangono, hanno nostalgia dei genitori. Mi ha commosso e inquietato la vicenda di un nigeriano coinvolto nella guerriglia civile, si è salvato dopo che alcuni avevano cercato di dargli fuoco». Vicende altrettanto drammatiche potrebbe raccontare Sara Cossu, 29 anni, di Dolianova, lei che ha vissuto in Marocco e che ha visto in presa diretta i giorni bui della Bosnia, del Kosovo. Sara si forma a Napoli, laurea in Studi islamici («mi hanno sempre intrigato i comportamenti di quel gruppo religioso»). Poi un master a Roma con i finanziamenti master and back della Regione sarda, si occupa della ricerca della pace (peacekeeping) e della sicurezza (security’s study). Rientra ed eccola al Progetto del centro rifugiati “Emilio Lussu” e nel gruppo di operatori guidati da Ettore Cannavera. Spiega: «Sono circondata da persone che hanno una grande voglia di integrazione, ad alcuni che soffrono la nostalgia se ne affiancano altri che si sentono davvero cittadini del mondo e che, quando assaporano un po’ di libertà, desiderano poterla esportare nei Paesi dove son nati. Ma sanno che è difficile combattere contro i regimi autoritari e i dittatori».
 
Resta da chiedersi se la Sardegna sia razzista o ospitale. Stella Deiana e Ivonne Mameli, Diego Serra, Gianna Antonacci e Sara Cossu che «il razzismo non sia diffuso ma è evidente che sacche di resistenza ne esistono». Si cita - e sembra di tornare alla cronache dell’emigrazione italiana all’estero e di quella meridionale a Torino e Milano negli anni Cinquanta del secolo scorso - il caso degli annunci sul “Baratto” dove spesso si legge “Si affitta ma non a stranieri”. Precisa Sara: «Ci sono difficoltà di primo impatto, appena ci si trova davanti a un rifugiato, soprattutto se asiatico o africano, c’è come un blocco. Ma poi - come ci capita frequentemente - quando andiamo agli uffici Asl di via Nebida, o alla cittadella finanziaria, o all’ospedale Brotzu troviamo massima collaborazione. Succede lo stesso quando andiamo con loro nei negozi per aiutarli, le prime volte, a fare la spesa, a sapersi districare con l’euro. Talvolta, anzi, ci scontriamo con atteggiamenti buonisti spesso controproducenti, che non giovano perché è logico che anche i rifugiati vanno spronati al massimo perché si sappiano rendere autosufficienti. No, non c’è razzismo, Cagliari - come la Sardegna - si conferma anzi una città accogliente». Ettore Cannavera, il sacerdote cui fa capo il Centro rifugiati, aggiunge: «Occorre una educazione costante anche della nostra società che, rispetto alle zone di provenienza dei rifugiati e richiedenti asilo, si conferma società opulenta mentre da altre parti si muore di fame, di epidemie e per di più senza libertà. Il mondo non può ancora essere diviso tra ricchi e poveri».
Anche questi problemi verranno affrontati in un convegno organizzato dalla Fondazione “Luca Raggio” in collaborazione con la facoltà di Scienze politiche di Cagliari e l’Unric (centro regionale europeo sotto l’ombrello dell’Onu). Tema: “i diritti e la condizione dei rifugiati”. Con testimonial somali ed eritrei ne parleranno la preside Paola Piras, i docenti Annamaria Baldussi e Giacomo Biagioni, l’avvocato Tiziana Meloni, l’assessore provinciale alle politiche sociali Angela Quaquero, Gianluca Scroccu della Fondazione Raggio e il giornalista eritreo Hailé Weldemicheal. L’incontro si terrà giovedì 5 marzo alle ore 16,30 nell’aula magna di viale Fra Ignazio 78 a Cagliari.
 
2 – La Nuova Sardegna
Pagina 15 - Sassari
Educazione degli adulti seminario all’Università 
 
 SASSARI. Nell’open space della facoltà di Lettere e Filosofia, si è svolto un seminario organizzato dall’Università per presentare agli studenti del corso di laurea in Educazione degli adulti e formazione continua l’accordo di rete provinciale per l’educazione degli adulti (Arpea). Il seminario, coordinato da Paolo Calidoni, docente del corso e da Antonia Tedesco (coordinatrice del corso serale dell’Istituto tEcnico industriale Angioy di Sassari) è stato aperto dal professor Aldo M.Morace, preside della facoltà, che ha messo in evidenza l’importanza del nuovo percorso di laurea e la necessità, per l’università, di favorire un costante dialogo con i diversi soggetti del territorio coinvolti nell’istruzione e nella formazione. Si sono quindi susseguiti gli interventi di Gabriella Mondardini, presidente del corso di laurea magistrale, dell’assessore provinciale all’Istruzione, Laura Paoni e di Marisa Castellini, dirigente dell’ITI Angioy che coordina la rete.
 

Questionario e social

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