Domenica 3 agosto 2008

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
03 agosto 2008
   
1 - L’Unione Sarda
Economia - Pagina 10
«Non serve un gestore ma solo clienti»
Cagliari, la ricetta di Paolo Ritossa per il rilancio del porto canale
Contship ha spostato a Tangeri l’attività che portava avanti a Cagliari. E per rivitalizzare il porto canale non si può prescindere dalla ricerca di un partner commerciale solido a cui imporre però contratti vincolanti. È questa l’opinione di Paolo Ritossa, docente universitario di Trasporti marittimi, ingegnere, progettista di porti e responsabile del Progetto di ricerca di interesse nazionale sui container. Il docente universitario analizza la crisi del porto cagliaritano partendo dal 2000, quando venne siglato il primo Accordo di programma per la gestione dello scalo container cagliaritano. Fu allora infatti che si fecero alcuni errori che oggi hanno in qualche modo determinato la situazione attuale.
GLI ERRORI
«La crisi del porto canale deve fare i conti con due peccati originali», spiega Ritossa, «il primo riguarda il fatto che il concessionario non è stato chiamato a investire sulle gru utilizzate in banchina. È chiaro che se Contship investe a Tangeri, costruendo di tasca propria le gru, non andrà via da quel porto fino a quando non avrà ammortizzato quella spesa. E ce ne vuole. A Cagliari, invece, era tutto pronto: non c’era bisogno di metterci una lira». Il secondo problema, nasce invece dal contratto sull’affidamento della gestione: «Il minimo di traffico che il concessionario deve garantire all’Autorità portuale è troppo basso, direi ridicolo per gli standard minimi: si parla di circa 300.000 teu all’anno, quando solitamente non si va sotto il 65% della capacità minima del porto. Nel caso di Cagliari, dunque, la quota doveva essere almeno di 700.000 teu».
Le potenzialità dello scalo di Cagliari, tuttavia, sarebbero molto maggiori. «Si potrebbero realizzare facilmente anche altri 400 metri di banchina, arrivare a oltre 2000 metri di allineamento e garantire così un traffico potenziale anche di 2 milioni di container l’anno», spiega Ritossa, che denuncia anche di aver notato negli ultimi anni un «grande disinteresse intorno allo scalo cagliaritano», sul quale è necessario ripensare le scelte politiche, promuovendo anche una zona franca fiscale e doganale (l’unica già esistente, anche se non funziona) e un collegamento con l’aeroporto di Elmas per le merci che necessitano di tempi brevi. In questo modo potrebbe nascere un polo produttivo e logistico di vasto interesse, ma sarebbero necessarie scelte politiche che coinvolgano l’intera area portuale e messe in atto in tempi brevi.
LA CRISI CHE NON C’È
L’attuazione di un nuovo piano di sviluppo del porto canale, inoltre, sarebbe urgente anche perché la situazione internazionale potrebbe avere risvolti favorevoli e la condizione geografica di Cagliari resta comunque vantaggiosa nel Mediterraneo. «Non è vero che il movimento dei container è in crisi», spiega Ritossa, «il traffico cresce e ogni anno si movimentano 450 milioni di container nel mondo». In questo quadro, tutti i porti gestiti da Contship appaiono in crescita, a cominciare da Tangeri (in Marocco), dove la stessa casa madre di Cict (la società dello scalo cagliaritano) e la Maersk (fino allo scorso anno l’unico cliente che operava in Sardegna) gestiscono i terminal nelle banchine del porto africano. «Perché Maersk ha deciso di andare a Tangeri? Perché lì gestisce la banchina per conto proprio e ha un costo del lavoro inferiore. Però Tangeri è sempre lontana dai mercati, così come Cagliari». Lo scalo sardo, dunque, continua ad avere non pochi vantaggi da mettere sul tavolo di una trattativa per il suo rilancio, «a iniziare dalle conoscenze acquisite dai lavoratori, che possono essere utilizzate dai futuri clienti», osserva Ritossa. È fondamentale però, ricorda il docente universitario, trovare non un nuovo gestore del porto canale, ma un cliente solido, anzi solidissimo, una compagnia di navigazione che garantisca un traffico consistente. «Il candidato ideale sarebbe proprio la Cma, compagnia francese che già opera a Malta, e usa anche Tangeri, ma avrebbe interesse ad avere un terminal dedicato», aggiunge Ritossa. Anche se uno scoglio rimane: quello delle quote della società di gestione del porto di Cagliari, attualmente di proprietà di Contship e Maersk. «Credo che le due società abbiano interesse a cedere almeno una parte delle loro azioni di Cict, perché altrimenti la crisi porterebbe verso la revoca della concessione e la gara internazionale, con tempi molto lunghi per la soluzione della crisi».
Giuseppe Deiana  
    
2 - L’Unione Sarda
Cronaca Regionale - Pagina 6
La voglia di una laurea fa 90
Anselmo Raccis discuterà la tesi a settembre
A Ferragosto un ragazzo di novant’anni rinuncerà alle ferie. Coccolato dall’aria condizionata, il consulente tributario Anselmo Raccis farà passetti felpati sulla moquette dell’ufficio di via Sonnino 170 ripassando la tesi su riscossione dei tributi e dintorni. Non contempla sbavature per il giorno in cui coronerà il sogno di una vita: dottore in scienze politiche, finalmente.
La laurea in ottimismo l’ha presa al fronte, sotto le bombe della seconda guerra mondiale. Per l’attestato accademico però ha dovuto pazientare più di mezzo secolo. Il 23 settembre affronterà la commissione d’esame all’università di Sassari. L’età? Assolutamente incidentale in un uomo che progetta, analizza e si butta sui libri con la freschezza dello studente modello: «Ho compiuto ottantanove anni il 22 febbraio: le gambe sono lente ma il cervello funziona benissimo». Le aule universitarie le frequenta da una vita. Prima Trieste: «Ero iscritto ma nel 1941 sono stato chiamato sotto le armi e ho perso tutto». Poi Cagliari: «Quattordici esami prima di essere trasferito negli uffici tributari di mezza Sardegna». Oggi Sassari: «Mi sembrava brutto non portare a termine il lavoro».
Un cognome che nella mente dei meno giovani richiama il calciatore cagliaritano di Juve e Milan anni Quaranta - «era mio cugino, giocavamo a Su Siccu» - e una tendenza naturale a riflettere, soppesare, prima di sentenziare. Sinceramente sorpreso dal fatto che qualcuno possa interessarsi alla sua storia, accetta comunque di raccontarla con una precisione chirurgica: «Avevo dato quattordici esami a Cagliari, prima di diventare direttore dell’ufficio imposte dirette. A quel punto mi dissero: "Tenga la valigia pronta per andare in nuove sedi". Ho girato tra Oristano, Bosa, Macomer, Nuoro, Isili, più o meno tutti gli uffici della Sardegna. In quel periodo ho rallentato un po’ con gli studi».
Perché ha scelto l’università di Sassari?
«Mi hanno proposto la convalida degli esami, e poi è molto meglio di quella cagliaritana, ho trovato professori preparati. Durante un esame di storia, uno di loro mi ha autorizzato ad arringare gli altri studenti: "È una materia fondamentale, vi apre tutte le porte"».
Ha trovato colleghi studiosi?
«La preparazione dei giovani non è quella di una volta, manca l’approfondimento. Lo studio - se lo fai bene - ti dà una serie di soddisfazioni, altrimenti resta niente».
Come allena la memoria?
«Nel 1955 frequentai un corso all’accademia tributaria, tra i docenti c’era Luigi Einaudi. Eravamo cento procuratori da tutt’Italia e ricordo ancora perfettamente certe lezioni. Per tutta la vita ho lavorato e studiato, non mi sono mai allontanato dai libri, ho sempre tenuto la contabilità senza calcolatrice. L’importante è non mollare, leggere molto».
Commenti velenosi degli altri studenti?
«Si avvicinavano per chiedermi tante cose. Erano incuriositi e attratti dall’avere una persona anziana nel loro corso. Alcuni sono stati così gentili da cedermi il primo posto per l’interrogazione».
E i docenti?
«Il preside mi ha detto: "Lei pensi a laurearsi, noi organizzeremo la festa"».
Qualche trenta politico?
«Gli esami sono andati benissimo, una serie di trenta. Il merito non è mio ma dei capelli bianchi».
La tesi?
«È centrata su un tema attualissimo, la riscossione dei tributi».
In tanti sostengono l’inutilità del valore legale della laurea.
«L’utilità dipende dal tipo di laurea. Ho sempre pensato che il valore legale potesse essere abolito senza creare alcun problema. Quando una persona vale, ci sono i fatti a testimoniarlo. Però è un discorso che in Italia non regge, qui il pezzo di carta ha ancora una grande importanza».
Discriminati quelli senza laurea?
«Non mi è capitato. Quando partecipai al concorso la valutazione dei titoli era diversa. Da capo reparto avevo alle mie dipendenze sei laureati».
Rimpianti?
«Non aver raggiunto una preparazione sufficientemente in alcune materie. Però tra poco mi toglierò la soddisfazione di concludere un lavoro. Dopo aver frequentato due volte il corso di laurea, era tempo di portarlo a termine».
I consulenti tributari sono gli angeli custodi degli evasori.
«Lo sono diventato dopo la pensione. Ero un reduce, quindi mi hanno dato sette anni di contributi in più. Troppo giovane per restare a far nulla, quindi ho aperto lo studio di consulenza. Sono sempre partito dal presupposto che prima di tutto c’è l’interesse dello Stato. Alcuni miei clienti li ho rimessi in carreggiata, ho sempre vinto i ricorsi davanti alla commissione tributaria».
A 89 anni rischia di fare ombra ai suoi figli?
«A loro ho sempre detto di studiare a fondo, più si è preparati e più si è rispettati. L’ombra? Bisognerebbe chiederlo a loro».
I fannulloni negli uffici pubblici?
«Finché sono stato nell’amministrazione, vale a dire il 1972, c’era una correttezza di fondo, adesso non più».
Quanti sono quelli che non fanno nulla?
«Su questo argomento si fa un po’ di confusione. Il lavoro degli impiegati dipende molto da chi li dirige: se non funziona il capo reparto, verosimilmente non lavoreranno i dipendenti. Per capirlo non c’è bisogno di una laurea»
Paolo Paolini  
    
3 - L’Unione Sarda
Cultura Estate - Pagina 9
E il manicomio sparì (i malati no)
A trent’anni dalla legge 180, i meriti e i drammi della riforma psichiatrica
Franco Basaglia non l’ho mai conosciuto. Ho letto alcuni suoi scritti e ho capito che erano animati da uno spirito combattivo e sognatore, ma questo non significa che il suo lascito sia necessariamente positivo. Credere fortemente nelle proprie idee, riuscire a farle mettere in pratica non significa che resistano all’usura del tempo e del giudizio storico. La legge 180 venne approvata proprio nel maggio di trent’anni fa. In grande fretta per evitare un possibile scontro referendario che avrebbe potuto lasciare in vigore la legge sull’assistenza psichiatrica del 1904, ovviamente antiquata e inadeguata alle nuove conoscenze della psichiatria. Almeno questo è quello che dicono quelli che volevano assolutamente la promulgazione della proposta basagliana. No, perché, a dirla tutta, c’era già stata una legge (del 18 marzo 1968) che migliorava modestamente la situazione degli ospedali psichiatrici, ma ancora insufficiente. Tra l’altro si diceva che: «Ogni ospedale psichiatrico deve avere un direttore psichiatra, un medico igienista, uno psicologo e per ogni divisione un primario, un aiuto ed almeno un assistente». Tutte queste figure non erano sempre rappresentate e, anche quando lo fossero state, sarebbero state numericamente inadeguate per mandare avanti un reparto che poteva avere (sempre per la stessa legge) anche 120 malati.
I provvedimenti della 180 erano disegnati sull’esperienza fortunata e avanzata di alcuni psichiatri a Gorizia, Trieste, Arezzo, e da un giorno all’altro vennero imposti alle altre regioni italiane, del tutto impreparate a cambiamenti così radicali. Intanto perché mancavano sia le strutture alternative di accoglienza sia il personale che doveva mandarle avanti. A queste si attribuiva quella umanizzazione della malattia psichiatrica, spesso vista come il fiore all’occhiello della 180, dimenticando che questa era iniziata già negli anni Cinquanta, quando nel giro di dieci anni comparirono le prime efficaci terapie per i più gravi disturbi psichiatrici: litio, antipsicotici e antidepressivi (tutti ancora in uso). Trattamenti che hanno diminuito molto lo stigma nei confronti delle malattie psichiatriche e hanno poi reso possibile l’assistenza alternativa all’ospedale raccomandata dalla stessa 180. Tornando alla sua immediata applicazione, si trattò più di una rivoluzione che di una legge e, come spesso accade con i cambiamente repentini, il suo inizio fu un disastro. Intanto, in molte regioni gli ospedali psichiatrici rimasero nell’illegalità per molti anni, altri si adeguarono troppo rapidamente. Come accadde a Cagliari, dove le porte dell’ospedale psichiatrico si aprirono il giorno stesso dell’applicazione della legge e molti pazienti se ne andarono senza sapere bene dove. Alcuni vagarono per la città, ma poi vennero convinti o tornarono spontaneamente in ospedale, dove almeno avevano cibo (scarso e di cattiva qualità) e un letto (approssimativo). Altri si allontanarono, morirono di sete, annegarono o vennero investiti per le strade di notte. Qualcuno si suicidò, consapevolmente o meno di quello che stava facendo. I più vennero riaffidati alle famiglie. Chiaro che soltanto un piccolo numero di parenti fu felice di riabbracciare uno zio, una cugina, un figlio, una sorella che negli ultimi anni avevano visto una volta al mese nel migliore dei casi. Ancora meno entusiasmo all’idea di ospitarlo a casa, dove spesso non c’era una stanza in più ad accoglierlo. Con uno sforzo complicato da parte del personale si convinsero le famiglie a tenersi il paziente ex-manicomiale in casa a patto di seguirlo a domicilio. Non che si trattasse sempre di carità cristiana da parte dei famigliari. Il paziente portava a casa una pensioncina e un sussidio post-manicomiale che faceva comodissimo in alcune magre economie. Quel denaro non veniva certo speso per la cura dell’ex ricoverato a cui, peraltro, venivano spesso somministrati farmaci in eccesso per garantire una conveniente sedazione.
L’enorme ingenuità, per usare un eufemismo, della legge fu di attaccare l’ospedale psichiatrico, come se i muri fossero responsabili dell’assistenza (l’umanità ha sempre subito il fascino dei simboli). Per inciso, lo sono tanto poco che quelle stesse mura ospitano ora la Clinica psichiatrica universitaria e lo stesso Centro di Salute Mentale tanto voluto dall’attuale politica psichiatrica sarda. Sì, proprio negli stessi padiglioni dove la dignità umana veniva perduta oggi si riuniscono i nuovi malati. La riflessione allora va spostata dalle mura, innocenti, verso i veri colpevoli della vecchia assistenza psichiatrica, rappresentati da chi forniva assistenza.
Nell’ospedale psichiatrico di Cagliari, al momento della chiusura, erano in servizio alcuni psichiatri che semplicemente non lo erano. Intanto perché tecnicamente fino al 1972 non esisteva una specializzazione separata dalla neurologia. Ma questo era il meno, perché molti di loro erano persone onestissime, di grande impegno umano e professionale. Altri meno: entravano, firmavano, se ne andavano a lavorare fuori e tornavano per firmare l’uscita. Sotto gli occhi di chi doveva controllarli. Non solo. Nessuno degli infermieri era qualificato. Erano solo abituati a sedare risse - spesso inevitabili dato il sovraffollamento, in cui si poteva anche sfogo a qualche aggressività repressa - e a somministrare malamente farmaci e cibo. Molto tempo lo passavano giocando a carte in camerette separate. Alcuni di loro, sempre alla luce del sole, sceglievano i migliori pezzi di carne, i formaggi, frutta e verdura destinati ai pazienti per portarseli a casa. Medici e infermieri portavano i malati giovani e volenterosi a dissodare le loro campagne in cambio di remunerazioni simboliche o di un pacchetto di sigarette. La 180 contribuì molto a mettere un punto a tutto quello e l’operazione più concreta fu il trasferimento dei pazienti da quegli ospedali ai servizi negli ospedali generali. Per dire, quello che oggi si vorrebbe smantellare riaprendo centri di salute mentale al di fuori degli stessi ospedali. Motivo? Per non considerare il malato psichiatrico come tale, come se ci si dovesse vergognare di esserlo tanto che nel lessico neopsichiatrico è diventato un utente, come quello della Telecom, o un ospite, come fosse in albergo. Miracoli del politicamente corretto.
Il linguaggio può anche influenzare il pensiero, come i linguisti sanno, e i termini che dovrebbero proteggere i pazienti dallo stigma in realtà negano il loro stato. A meno che non si voglia negare la malattia psichiatrica tout court, un cavallo di battaglia di quella psichiatria cosiddetta democratica. In opposizione a quale altra, a quella dittatoriale? La malattia psichiatrica o meno ha una dignità enorme che viene rispettata proprio quando si riconosce la sua presenza. Sulla stessa scia di pensiero anche lo psichiatra, lo psicologo, l’infermiere e l’assistente sociale sono diventati tutti operatori. Ma per livellare le differenze in una interpretazione überdemocratica dei rapporti sociali o per diminuire le singole responsabilità? Lo psichiatra decide i farmaci, lo psicologo fa psicoterapia, l’infermiere somministra le terapie e segue più da vicino i pazienti, l’assistente sociale si preoccupa delle sue condizioni sociali. Per non tralasciare l’uso della sfortunata espressione lessicale del prendere in carico che dovrebbe sostituire il prendersi cura . E perché sarebbe più corretto pensare al malato come un carico e non come una persona che ha bisogno di cure, terapie e assistenza?
Leonardo Tondo  
    

 
LA NUOVA SARDEGNA
   
4 - La Nuova Sardegna
Pagina 23 - Sassari
Start Cup premia le idee d’impresa 
Sono stati scelti i vincitori della competizione universitaria 
In primo piano nanotecnologie ed energia, ora le quattro proposte andranno in finale a Cagliari 
SASSARI. La lampadina si è accesa, le proposte sono di buon livello, di alto contenuto tecnologico e attrattive per il mercato di riferimento. La prima edizione di Start Cup Sardegna, competizione che premia i migliori progetti innovativi, ha incoronato i vincitori. Quattro intuizioni dalle quali partire per fare impresa e, come già accaduto da altre parti, provare a mettere le ali al business. È la terza missione dell’Università: il trasferimento tecnologico che porta le idee fuori dai laboratori di ricerca e le applica nel mondo esterno. Tra Sassari e Cagliari hanno partecipato 54 gruppi, otto hanno superato la prima fase.
Le squadre, composte da giovani laureati e ricercatori, hanno lavorato intorno a diverse tematiche. A Sassari i quattro team premiati hanno presentato progetti che puntano sulle nanotecnologie e su prodotti che uniscono il design a funzionalità moderne. Le idee vincenti sono Hidrogenera, Fbi-film bionanotech, Magico-interruttore invisibile, comunicatore bidirezionale wireless. Il verdetto è stato ufficializzato durante un incontro all’Università: a benedire le migliori idee d’impresa sono stati i responsabili del Liason office dell’ateneo (impegnato da più di anno nel processo di trasferimento tecnologico), “soci” della Start Cup sono il Comune, il Bic Sardegna, la Sfirs (braccio finanziario dell’operazione), l’Unione giovani dottori commercialisti, l’associazione Industriali del Nord Sardegna, la Camera di commercio e la Vodafone Italia.
Ora inizierà la seconda fase. Le squadre vincitrici (le 4 di Sassari e le 4 di Cagliari) saranno protagoniste il 20 ottobre della competizione regionale nella quale verranno premiati i progetti migliori: porteranno a casa 10mila, 5mila e 2.500 euro.
I tre voleranno poi a Milano, per partecipare al Pni (Premio nazionale dell’innovazione), che si terrà il 27 novembre. Il primo classificato si aggiudicherà i 60mila euro messi dalla Vodafone, che premierà la medaglia d’argento e di bronzo con assegni da 30mila e 20mila euro. La vetrina milanese darà a tutti la possibilità di farsi conoscere e conquistare la fiducia degli investitori, pronti a finanziare l’idea l’innovativa per trasformarla in una scommessa vincente.
(si. sa.)  
    
5 - La Nuova Sardegna
Pagina 24 - Sassari
A Chiaramonti un progetto dell’archeologo Marco Milanese, del Comune e dell’Università 
La ricerca dei villaggi medievali
Riportare alla luce i resti scomparsi nel territorio
CHIARAMONTI. Identificare e riportare alla luce i resti dei villaggi medievali scomparsi nel territorio di Chiaramonti per una loro migliore conoscenza e valorizzazione. È questo l’obiettivo del progetto di ricerca portato avanti nel 2007 a Chiaramonti dai collaboratori e dagli allievi della cattedra di Archeologia medievale dell’Università di Sassari sotto la direzione scientifica di Marco Milanese.
Il professore ordinario di Archeologia medievale all’Università di Sassari e Pisa e direttore del Centro di documentazione dei villaggi abbandonati della Sardegna. I risultati del primo anno del progetto di ricerca, finanziato dalla Fondazione Banco di Sardegna e dal Comune di Chiaramonti in accordo con l’Università e la Soprintendenza ai Beni archeologici, sono stati presentati nel recente convegno «Da Orria Pithinna a Chiaramonti» che si è tenuto nell’aula consiliare.
A illustrare il progetto e l’esito delle indagini sono stati lo stesso Milanese, i suoi collaboratori Maria Cherchi e Gianluigi Marras che hanno lavorato sul campo, Alberto Moravetti, vicedirettore del Dipartimento di storia dell’Università di Sassari e Alma Casula della Soprintendenza. Sono intervenuti anche il sindaco Giancarlo Cossu e l’assessore comunale alla Cultura Marina Manghina che hanno sottolineato l’impegno dell’amministrazione nel voler investire sul recupero della memoria storica del paese, in questo caso proseguendo con un progetto di ricerca iniziato sotto la precedente amministrazione guidata da Ezio Schintu.
«A Chiaramonti, per la prima volta in Sardegna, si prende la responsabilità di voler fare una perimetrazione dei villaggi medievali abbandonati - ha detto Marco Milanese -. Chiaramonti si colloca a oggi come esperienza di riferimento pilota, come Comune capofila, in termini di valutazione del patrimonio archeologico. Si tratta di un atto di responsabilità civico: cerchiamo di conoscere per affidare alla tutela. Il progetto portato avanti a Chiaramonti non è di autismo scientifico ma abbiamo cercato di instaurare un dialogo e una condivisione con la comunità locale. Il titolo “Da Orria Pithinna a Chiaramonti” - ha spiegato - sintetizza la dinamica seguita dagli abitanti del territorio che a metà del ‘700 si sono rifugiati nel castello di Chiaramonti. Questi abbandoni hanno creato vuoti laddove prima c’erano borghi, le mura. Le chiese sono la punta di un iceberg, sotto c’è un universo sepolto». Un patrimonio di conoscenza vasto e fragile che si sta portando alla luce e che necessita di tutela come hanno ribadito anche Alberto Moravetti, che ha moderato l’incontro, e Alma Casula.
A illustrare, con l’ausilio di diapositive, i risultati ai quali ha portato l’indagine, che ha interessato 170 ettari di terreno, è stata Maria Cherchi che ha realizzato il progetto assieme a Gianluigi Marras, entrambi specializzati in Archeologia medievale. Come ha spiegato la giovane archeologa, finora si è rilevata la chiara presenza dei villaggi scomparsi di Orria Pithinna, San Giuliano, Bidda Noa, Badu Olta, Paules ed Erva Nana. Per quanto riguarda Santa Giusta i diversi rimaneggiamenti attorno alla chiesa non hanno consentito di rilevare tracce dell’insediamento medievale. Tutti gli studi sono stati inseriti in un database e sono state create carte di rischio, valido strumento per comunicare con le amministrazioni e programmare interventi mirati preventivi di salvaguardia del territorio.
Letizia Villa  
    
6 - La Nuova Sardegna
Pagina 21 - Sassari
Colpo grosso dell’Università che porta a casa soldi e progetti 
L’ateneo è riuscito a ottenere più di 1 milione e mezzo per la ricerca e così potrà realizzare 14 elaborati 
SASSARI. Colpo grosso dell’università di Sassari. L’ateneo si è aggiudicato più di un milione e mezzo di euro dal ministero dell’Università per il finanziamento dei «Progetti di ricerca di interesse nazionale» (Prin). Un successo che, tra le università di medie dimensioni, la colloca al secondo posto per entità dei finanziamenti e al terzo per progetti approvati. Al Prin hanno partecipato oltre 40 università con 3799 progetti di ricerca. Quattordici quelli vinti dall’università di Sassari, per un milione 657 mila euro complessivi: il doppio di Cagliari che ha portato a casa 735 mila euro con cinque progetti.
Il merito è soprattutto delle facoltà scientifiche, che si prendono la fetta più grande della torta: 12 progetti, contro i due delle facoltà umanistiche. A far la parte del leone è la facoltà di Medicina, che si aggiudica da sola la metà del finanziamento: cinque progetti per 795 mila euro.
Grande la soddisfazione del preside di Medicina, Giulio Rosati: «Il nostro dipartimento di Scienze biomediche è al primo posto assoluto sul piano nazionale: un risultato che premia il lavoro svolto e che ci fa ben sperare per il futuro. Infatti - spiega il docente universitario -, i coordinatori dei progetti sono tutti giovani ricercatori che, grazie a questi finanziamenti, potranno spendere il meglio delle proprie energie all’interno della nostra università, facendo crescere la qualità globale di Medicina negli anni a venire».
La buona performance ottenuta con il Prin avrà effetti positivi anche sull’intero ateneo, perchè tra i parametri fissati per la classificazione delle università italiane nel rapporto Censis-Repubblica, rientrano proprio la ricerca scientifica e la didattica. Un particolare molto importante che fa ben sperare Sassari che adesso punta con maggiore determinazione al sorpasso degli atenei di media grandezza diretti concorrenti come Foggia, Brescia e Udine. Ma anche per una migliore valutazione rispetto all’università di Cagliari, che attualmente è a solo un punto di distacco per la ricerca.
Giulio Rosati spera anche «che questo successo faccia aumentare la sensibilità delle istituzioni locali verso le esigenze dell’università, perché la ricerca scientifica più avanzata - aggiunge il preside di Medicina - richiede l’utilizzo di strutture e laboratori dove esperti internazionali delle diverse discipline, possano lavorare fianco a fianco e confrontarsi». Come dire: noi lavoriamo al top degli standard mondiali, ma spetta alle istituzioni supportare con strutture e finanziamenti adeguati i progressi della scienza.
I progetti che hanno ottenuto le maggiori dotazioni finanziarie sono quelli del genetista Francesco Cucca (un giovane ricercatore cagliaritano che nell’università di Sassari è stato messo in condizione di mettere in mostra le sue qualità di ricercatore, confermate del resto dal Ministero) che per la sua ricerca ha per ora ottenuto 397 mila euro. E poi quella del docente di chimica, Serafino Gladiali con 285 mila euro.
Francesco Cucca sarà affiancato da un gruppo di ricercatori sassaresi con i quali studierà i fattori genetici del diabete autoimmune giovanile, una patologia che ha una notevole incidenza in Sardegna. Come anche la sclerosi multipla. E come la sclerosi, anche il diabete è causato da fattori genetici e ambientali che, a causa della geografia e della storia dell’isola, hanno reso la popolazione particolarmente sensibile a queste due malattie.
Gli altri «coordinatori scientifici» che hanno superato l’esame del ministero dell’Uiversità e delle Ricerca (Miur) sono: Marilena Budroni (Agraria), Pietro Cappuccinelli (Medicina), Marco Curini Galletti (Scienze naturali), Stefanino De Montis (Agraria), Ugo Della Croce (Medicina), Franca Deriu (Medicina), Antonina Dolei (Medicina), Giovanni Lobrano (Giurisprudenza), Antonietta Mazzette (Scienze politiche), Pier Paolo Roggiero (Agraria), Eraldo Sanna Passino (Veterinaria) e Gino Serra (Farmacia).
Alessandro Tedde  
    

Questionario e social

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