Domenica 6 gennaio 2008

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
06 gennaio 2008
Rassegna a cura dell’Ufficio Stampa e Web
Segnalato 1 articolo dalla testata giornalistica L’Unione Sarda
1 – L’Unione Sarda
Cronaca Regionale Pagina 9

Lasciate che i matti vengano a me
Pier Paolo Pani e il grande blitz nel pianeta-psichiatria

di GIORGIO PISANO

Sono più di trentamila i sardi sotto terapia nei Centri di salute mentale. Le statistiche dicono però che ammontano a quasi cinquecentomila quelli che almeno una volta nella vita sono usciti di testa, ottantamila i casi gravi. Dietro una gigantesca legione di malati (dal depresso allo schizofrenico) c’è un signore che tiene i fili dell’organizzazione sanitaria, che deve (dovrebbe) garantire la qualità dell’assistenza. Si chiama Pier Paolo Pani, ha 52 anni, origini a Lanusei e specializzazione negli Stati Uniti dopo quella che si chiama una brillante laurea all’università di Cagliari.
Chi lo detesta dice che Pani è uno dei Nerina boys, dove per Nerina si intende Nerina Dirindin, asburgico assessore alla Sanità. Pani, insomma, è il comandante di quel settimo cavalleggeri che sta tenendo d’assedio il fortino-psichiatria in Sardegna. Cognome sardo, giusto per smentire i maligni che mugugnano sull’irresistibile vocazione import della Dirindin, è uno psichiatra che fino all’altro ieri stava nella trincea dei Sert, cioè sul fronte della lotta alle tossicodipendenze. Per completare la sua carta d’identità professionale, bisogna aggiungere che è un allievo del professor Gian Luigi Gessa, una delle poche intelligenze in transito nei nostri giorni.
Dovesse riferire il curriculum, finirebbe per annoiare: troppo lungo. Non lo fa perché sembra timido, attento a distillare opinioni come gocce di Tavor, propenso a cercare tregua e consenso. Quasi un politico fatto, in pratica. Per questo spara acqua con l’impeto di un vigile del fuoco sulle Torri Gemelle nella polemica che da tempo sta incendiando il settore (sterminato, doloroso, redditizio) delle malattie mentali.
A Cagliari, soprattutto a Cagliari, brucia la resistenza più accesa contro l’invasione di specialisti provenienti dalla penisola e incaricati di spiegare i dieci comandamenti della psichiatria sociale agli indigeni. Nereide Rudas, ex direttore della clinica psichiatrica dell’Università e autorevole bandiera dell’opposizione, ha liquidato da tempo Dirindin e consulenti al seguito: grazie, non ci servono lezioni .
Da qualcuno Pani è considerato un traditore, un allineato al nuovo potere. Si trattasse di una guerra interna, stupide galline che s’azzuffano per niente , potremmo anche infischiarcene. Ma la questione è più grossa: finanziamenti a parte, è in corso un’offensiva che punta a modificare radicalmente l’assistenza psichiatrica nell’Isola, a prescindere dai guru d’importazione. In meglio o in peggio (ammesso che sia possibile peggiorare)?
Pani è convinto del suo: «È la prima volta che passa un treno come questo. Non saltarci sopra sarebbe una follia». Perciò si fa violenza e non risponde come vorrebbe a una serie di domande fastidiose, ogni tanto, ma giusto ogni tanto, provocatorie. Un tremito gli scuote le mani mentre nel suo ufficio di via Roma a Cagliari prova a spiegare, a dire, a ricucire ragioni contrapposte. Sta parlando in nome e per conto terzi, dunque non è autorizzato a stappare la rabbia (sempre che ce l’abbia davvero o non sia saggiamente sedata).
La sua qualifica, per intero.
«Direttore del Servizio dell’integrazione socio-sanitaria. Ho questo incarico da poco più di un anno».
Cosa fa, in concreto?
«Sto al confine tra la sanità e il sociale».
Che le importa del sociale, mica fa l’assessore.
«Vogliamo migliorare il concetto di assistenza introducendo una formula già sperimentata in alcune regioni d’Italia. Banalizzando: lo psichiatra non può prescindere nel suo lavoro dal panorama che sta intorno al malato. Ci stiamo muovendo».
Come?
«I posti letto dei Servizi psichiatrici ospedalieri passeranno da cento a centotrenta. Abbiamo poi istituito otto dipartimenti di salute mentale e delle dipendenze, introdotto una nuova classificazione delle comunità terapeutiche a seconda del tipo di utente, disposto l’apertura 24 ore su 24 dei centri di assistenza. Far questo significa mortificare le professionalità sarde?»
Poi ne parliamo. Intanto, questi centri sono o no manicomi in sedicesimo?
«Quando c’era da sbattere qualcuno in manicomio l’unica domanda che ci ponevamo era: dove lo metto questo? Non a caso ospedali come Villa Clara hanno finito per accogliere ogni genere di disadattati. Tutti quelli che disturbavano, che navigavano contro, finivano inevitabilmente in manicomio».
E siccome adesso i manicomi sono chiusi...
«Non c’entra tutto questo. A cambiare è l’approccio. La differenza tra ieri e oggi è che noi vogliamo dare al paziente una prospettiva di cura. Prima i malati si rinchiudevano e gettavamo la chiave...».
Sembra quasi che i manicomi li abbiano inventati i marziani.
«Cosa vuol dire con questo?».
I manicomi, che adesso rinnegate, li avete inventati voi. Voi psichiatri.
«C’era buona fede, certezza di fare il meglio. Ma ora bisogna andare avanti».
Non le pare di alzarsi con troppa leggerezza dalla sedia dell’imputato?
«Se la medicina è un’arte (e non scienza come qualcuno si ostina a ripetere), la psichiatria lo è ancora di più. Sbagliamo, certo che sbagliamo».
Negli anni avete sostenuto tutto e il contrario di tutto.
«Nei medici c’è una certa tendenza a sentirsi padreterni. Io credo invece che al centro ci debba essere il paziente».
Siete o no una casta nella casta?
«Qualcuno di noi fa le pulci ai medici, come dire?, generici. Altri si sentono cenerentole. Altri ancora...»
Altri ancora esercitano il familismo, trasmettono titoli e cattedre per diritto ereditario.
«Non ci differenziamo da altre categorie».

Trascinato, suo malgrado, a incarnare i panni di un’intera categoria, Pier Paolo Pani dribbla il desiderio di puntualizzare, dire chi e chi, regolare i conti come e dove. Viene dall’inferno dei Sert e, prima ancora, da un ambulatorio di psichiatria generale in Marmilla, Sardegna che scoppia. Non cerca processi al passato, vuole parlare di quello che, secondo lui e secondo l’assessore, è il nuovo che avanza, l’obiettivo scintillante di una psichiatria che pensa sul serio ai matti da slegare. E lo fa con una ricetta che arriva da Trieste e, più esattamente, da uno psichiatra (Beppe Dell’Acqua) che ha lavorato con Franco Basaglia durante la stagione esaltante dei manicomi aperti.

Cosa non va nella psichiatria sarda?
«Va tutto benissimo, però oggi abbiamo la possibilità di fare un passo avanti, distinguere disagio psichico da disturbo psichico».
È così difficile?
«No, ma si tratta di proiettare l’assistenza nella vita di ogni giorno, sentire il malato e i suoi familiari, accogliere e capire la realtà che li avvolge. Il salto si farà quando la terapia diventerà un programma di lavoro e non una ricetta».
Sta cercando di dire che gli psichiatri sardi sono asini?
«Scherziamo? In Sardegna abbiamo eccellenze in questo campo. È che bisogna aprirsi alla cosiddetta psichiatria sociale e di comunità».
Dicono che la Regione mortifica, umilia, snobba.
«Lo sento dire, ogni tanto. Una parte degli psichiatri cagliaritani si lamenta, gli altri no. Io comunque non ho nessuna volontà di ledere la dignità dei colleghi sardi. Vorrei solo aggiungere qualcosa di complementare».
Qualcuno, di complementare. E lo pescate a Trieste.
«Siamo meno sardi se raccogliamo esperienze che arrivano da fuori? Questo è provincialismo. Il confronto è ricchezza».
Però se muore un paziente in Psichiatria a Cagliari, tutti zitti meno uno.
«Come sarebbe tutti zitti meno uno? Chi voleva parlare ha parlato».
Nossignore. Ha parlato solo Gumirato, il manager-sceriffo della Asl.
«Non entro nel merito di scelte che non sono mie. Se la vedranno Gumirato e il primario del reparto. A me interessa far sapere che tira vento nuovo».
Nuovo, in che senso?
«Per la prima volta abbiamo finanziamenti per sostenere l’assistenza: avete capito o no che stiamo andando oltre la logica della ricetta e basta? Per la prima volta, la psichiatria sta entrando nelle carceri, per la prima volta tiene aperti gli ambulatori giorno e notte, per la prima volta organizza al malato un futuro possibile».
Futuro che prevede, se è il caso, l’elettroshock?
«Non mi schiero, non accetto la logica a favore o contro. Dunque non dirò cosa ne penso. Mi sembra di rileggere vecchi copioni del passato: pro o contro il metadone?, pro o contro la comunità terapeutica? Scusate, non ci sto. Posso soltanto dire che l’elettroshock è una terapia delicata e complessa».
Avesse sottomano un paziente con propensione al suicidio, se ne servirebbe?
«Niente casi astratti. Portatemi il paziente e ne parliamo».
Contenzione.
«Tutti sono contrari alla contenzione, a meno che non si abbia un paziente pronto a buttarsi dalla finestra. Ma la contenzione non può essere una toppa copri-assenze».
Si spieghi meglio.
«La contenzione, in qualche reparto, è considerato un antidoto alla mancanza di personale».
Impacchettare il malato così non disturba.
«Esatto. E tu, intanto, puoi continuare a fare il tuo lavoro».
Questa è barbarie.
«Appunto».
pisano@unionesarda.it



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