Lunedì 5 novembre 2007

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
05 novembre 2007
Rassegna a cura dell’ufficio stampa e web
Segnalati 6 articoli delle testate giornalistiche L’Unione Sarda, La Nuova Sardegna e altravoce.net  

1 – L’Unione Sarda
Prov Sulcis Pagina 2049
Iglesias È polemica con la Provincia
Università Sulcis, mancano all’appello duecentomila euro
 
Il presidente della Provincia sotto accusa. Non sono soltanto il sindaco Pierluigi Carta e il presidente dimissionario dell’Ausi a bacchettare Pierfranco Gaviano per il disinteresse nei confronti dell’Università del Sulcis Iglesiente, che ha sede a Monteponi. Tra pochi giorni, esattamente il 14, l’argomento Università ritorna in Consiglio provinciale. L’assemblea, che si riunirà nella sala consiliare del Municipio di Iglesias, dovrà discutere una mozione proposta da Progetto Sardegna. Nel documento si enfatizza il fatto che, a dicembre dell’anno scorso, con un voto unanime del Consiglio, la Provincia aveva deliberato l’adesione all’Ausi, l’associazione che sostiene l’Università, chiedendo la trasformazione in Consorzio per garantire un peso maggiore all’ente. Richieste accolte dall’Ausi, ma da quella data è trascorso quasi un anno e, nonostante una variazione di bilancio con cui veniva impegnata la somma di 30 mila euro, l’ente locale non ha ancora provveduto a erogare il contributo. La Provincia, per ora, se l’è cavata con un finanziamento straordinario, pari a 10 mila euro, concesso nel 2006.
Un atteggiamento che ha creato malumori all’interno della stessa maggioranza di centrosinistra alla guida della Provincia e che, negli ultimi giorni, ha scatenato la rabbia dei vertici dell’Ausi e del sindaco di Iglesias. Complice il fatto che, secondo quanto riferito da Giorgio Piccaluga, presidente dimissionario dell’associazione, la Regione non ha assegnato in favore dell’Università le somme previste. La ripartizione dei fondi prevede per Iglesias appena 452 mila euro a fronte dei 650 mila necessari per fare quadrare i conti. In questa situazione di difficoltà la latitanza della Provincia viene giudicata incomprensibile. Ecco perché Progetto Sardegna, con in testa il capogruppo Salvatore Massa, chiede esplicitamente al presidente Gaviano di mantenere gli impegni presi.
Insomma, per l’Università non è certo un bel periodo. Prima le considerazioni del presidente della Regione Renato Soru che, nelle scorse settimane davanti agli studenti aveva manifestato la sua contrarietà per l’Università diffusa; poi la ripartizione dei fondi che non sarebbero sufficiente a garantire la sopravvivenza dei tre corsi di laurea (Scienza dei materiali, Ingegneria ambientale e Informatica) e, infine, il mancato rispetto degli impegni da parte della Provincia. Fatti che hanno provocato un terremoto all’interno dell’Ausi, con l’annuncio delle dimissioni da parte di Giorgio Piccaluga e la minaccia di trasferire Scienza dei materiali a Monserrato sin dall’anno prossimo. Intanto c’è molta attesa, oggi, per l’incontro che il sindaco di Iglesias avrà con il Rettore Pasquale Mistretta. Potrebbero esserci novità sui finanziamenti per Monteponi.
Cinzia Simbula

1 – La Nuova Sardegna
Pagina 6 - Sardegna
Da Cagliari a Osaka emigrata per poter studiare lo stress 
La biologa Rosaria Piga racconta la sua esperienza giapponese dove i laboratori funzionano anche grazie alla meritocrazia 
di Giacomo Mameli
 
La prima sorpresa, quasi uno choc (fortunatamente più che positivo perché del tutto inatteso), all’aeroporto internazionale di Osaka. A ricevere Rosaria Piga, biologa cagliaritana in arrivo con un volo Alitalia decollato da Milano, c’è nientemeno che il professor Etsuo Niki, direttore del centro di ricerca Hssrc (Human Stress Signal Research Center), uno degli istituti più accreditati al mondo per lo studio dello “stress ossidativo”, patologia causa di numerose malattie sempre più diffuse e gravi, spesso con esito letale, dal cancro all’invecchiamento precoce, dall’arterosclerosi fino all’alzheimer e al parkinson. Il professore, giacca e cravatta, sorridente, è con un altro collega. Danno il benvenuto a Rosaria che non sa come ringraziare per un’ attenzione così premurosa, ma già da questo primo segnale capisce di «aver cambiato pianeta». Racconta: «Mi sentivo catapultata dall’anonimato o quasi che ti circonda in un centro di ricerche sardo (o italiano) al rispetto e alla considerazione riservatimi all’estero. Quando mai, non dico il direttore-mito di un centro mondiale di studi, ma anche il suo ultimo assistente ti sarebbero venuti ad accogliere a Elmas o ad Alghero? Ma neanche a Milano o Perugia. Ebbene, lì è successo. Ed è la norma, non l’eccezione”.
 
 È la domenica mattina del 31 marzo 2002. Dopo dodici ore su un Boeing a diecimila metri di quota la giovane ricercatrice sarda sale sull’auto privata del professor Niki, si parla di tutto, dell’Italia e del Giappone, ma soprattuto di cose pratiche, senza convenevoli. «Mi dice: la tua casa in affitto è pronta, è a nord di Osaka, quartiere Ikeda, abbiamo già pagato l’allaccio della luce e del gas. Di sera mi invitano a cena con altri colleghi che accolgono l’amica italiana». La casa è un condominio a cinque piani in un rione molto popolato di una città di tre milioni di abitanti, la terza del Sol Levante, alla foce del fiume Yodo, con Kobe e Kyoto è una delle tre città dove vivono 18 milioni di abitanti.
 Sì, un altro mondo, sotto tutti gli aspetti. «Entro a casa, 17 metri quadrati, più un metro quadrato di bagno. Abito ancora lì e sto bene. E sono passati sei anni».
 Il lunedì mattina, primo aprile, è al dipartimento Hssrc, collegato all’istituto Aist Kansai che sta per Advanced Industrial Science and Technology. Mezz’ora a piedi dalla mini-casa. È sempre il professor Niki che la va a prendere, le mostra i negozi e le banche, il supermercato più fornito. Eccolo il campus, una grande cancellata con una guardia in divisa blu scuro, legge i nomi dei padiglioni di Fisica, Chimica, Ottica. «Il mio istituto era quello dello stress ossidativo. All’ingresso chiedono di lasciare le impronte digitali, quella dell’indice destro». Rosaria crede che sia uno scherzo. «No, no, è la prassi. Quell’impronta diventava la mia parola chiave, la password, la chiave di accesso dopo aver digitato il codice del mio laboratorio. Entro e il direttore mi presenta dieci colleghi, tutti giapponesi doc, volti simpatici, Yoshiro e Yasukazi, anche due donne sposate, Junko e Nanako. Ecco la mia scrivania, gli scaffali, il cassetto, i libri, il computer». E vedo, nel mio studio, tutta la strumentazione necessaria per far ricerca. È tutto made in Japan, sono in giapponese anche le istruzioni per l’uso, ho bisogno dei colleghi per capire, disponibili, affabili. Dal primo giorno ho tutto a disposizione, col mio budget. E lavoro come tutti gli altri dalle 9 del mattino alle 21 con un’ora di pausa-pranzo. Dal primo mese lo stipendio regolare: 400 mila yen, pari a quattromila euro al mese». E poi? «E poi i colleghi mi insegnano pazientemente a lavorare al bancone, pipette e reagenti, microscopi. Ma soprattutto inizio da subito a ragionare come deve fare un ricercatore. Mi dicevano: devi togliere le idee dalla tua testa e confrontarle con le idee dei tuoi colleghi per arrivare a un progetto comune».
 
 Stress ossidativo si diceva. Come limitarne gli effetti devastanti? Studiando. Rosaria indaga su due proteine, va alla ricerca di sostanze naturali estratte da piante e arbusti per prevenire o ridurre i danni di queste malattie degenerative. Dice, con linguaggio tecnico: «Testo in continuazione l’effetto anti-stress di questi composti tanto su cellule di aorta per gli studi sull’aterosclerosi quanto su cellule simil-neuroniche per indagare sul sistema nervoso». Progressi? «Certo, rispetto a dieci, cinque anni fa sono stati fatti molti passi in avanti, i pazienti sono assistiti meglio, si può migliorare ancora, ma soltanto insistendo caparbiamente con la ricerca. È ciò che facciamo a Osaka e Kyoto. Collaboriamo anche con un gruppo di fisici guidati da Yoichi Kawakami, si occupano di nanotecnologie, ci lavora anche un piemontese, Ruggero Micheletto, torinese». Nanotecnologie, cioè? «Usiamo uno strumento ottico detto Snom, è un sofisticato microscopio a scansione, consente di esaminare tessuti viventi in estremo dettaglio, arriviamo a miliardesimi di metro. Ecco, tutto ciò è basilare per arrivare a risultati concreti. E ci spero, ci speriamo».
 Davvero un altro pianeta. Rispetto alla Sardegna. Rispetto all’Italia. Dove le carriere universitarie si costruiscono per via nepotistica, con le parentopoli all’ombra di nonni e di padri, di zii e di zie, di suoceri e suocere, con gli intrallazzi e le triangolazioni di grembiuli e di lobbies. Non solo a Bari e Messina, non solo a Napoli e Salerno, anche a Cagliari e Sassari, con le eccezioni del caso ovviamente. E così quella di Rosaria Piga diventa la storia emblematica di chi, «non per affermarsi» nel campo della ricerca scientifica ma «per poter fare ricerca scientifica», ha dovuto preparare la valigia e varcare il Tirreno, le Alpi e gli Oceani e approdare dove ciò che conta è il merito, il valore individuale e non la carta d’identità, il clan familiare, la casta di appartenenza. È una storia come tante altre che sono già state raccontate e che continueremo a raccontare perché è una tendenza negativa, devastante che va invertita, perché più cervelli l’Italia perde e più l’Italia perde in competitività, perché più cervelli la Sardegna regala gratis all’universo mondo e più la Sardegna retrocede. Le vicende degli “scienziati di ventura” raccontate in un best seller Cuec da Andrea Mameli e Mauro Scanu sono lì a dimostrarlo. Con inoppugnabili prove.
 
 Ricercatrice in Giappone, quindi. Con molto lavoro, riunioni in team, discussioni, prove. Dopo alcuni anni un altro salto di qualità per Rosaria. «Mi propongono di collaborare col dipartimento di immunologia e infiammazione del Kyoto Prefectural University of Medicine diretto da un altro grande della ricerca, il professor Toshikazu Yoshikawa. Accetto. Da Osaka sono 45 minuti di treno, sempre puntuale, treni che spaccano il secondo, ogni giorno dell’anno. Passo davanti ai templi, al Palazzo imperiale e poi camice bianco e microscopio». Studi e pubblicazioni su riviste internazionali. Una delle più recenti è apparsa su Biophys Chemistry. Articoli e ricerca continua. Ancora Rosaria. «In Giappone, avere un laboratorio efficiente è la normalità, la regola per un ricercatore, non devi elemosinare nulla, hai a disposizione ciò che è necessario. In queste condizioni la crescita culturale è costante»
 E i rapporti umani? Eccellenti. «Intanto nessuno conosceva la Sardegna, pochi conoscevano l’Italia, per cinque anni non ho incontrato un solo sardo, solo quest’anno ho conosciuto una coppia di cagliaritani che studiano a Tokyo la storia delle religioni, in particolare il buddismo e lo shintoismo». E oggi? «L’Italia e la Sardegna non sono più sconosciute ma sempre poco conosciute, sono state importanti alcune fiere, alcune mostre. Quello giapponese può essere un mercato importante per il nostro Paese».
 Vita normale, semplice quella di Rosaria Piga. Ha 43 anni, nasce a Cagliari, il padre Antonello rappresentante di prodotti per l’agricoltura, la madre (Maria Teresa Boi) insegnante fra i paesi dell’alto oristanese e del Campidano di Cagliari. Rosaria è la primogenita (il fratello Piero, 39 anni, geometra, vive in Spagna dove è fidanzato con Monica, un architetto). Elementari in viale San Vincenzo a Cagliari, liceo scientifico al “Brotzu” di Pitz’e serra di Quartu. Gli insegnanti del liceo? «Giudizio insufficiente, il professore di italiano e latino mi sconsiglia di iscrivermi all’università, e aggiunge: non ti servirebbe a nulla». Rosaria va avanti, diploma, si iscrive in Biologia, studia e lavora, baby sitter e ripetizioni, fotocopie al palazzo di giustizia, la laurea con 107 (tesi con Gaetano Verani sui prodotti di sintesi con metalli pesanti). Inizia il calvario per «trovare un istituto che mi accolga per poter fare la ricercatrice. Inizio con tanto entusiasmo, poi mi rendo conto che non ho nulla attorno a me, lavoro gratis, mai un soldo, girovago sette anni senza avere mai uno stipendio che mi consenta di essere autonoma economicamente. Vago per l’Italia, Torino, Siena, Bologna, Napoli, Udine. Ovunque le stesse trafile, estenuanti. Mi proponevano pochi denari. Poi la svolta, targata Sardegna. Nel 2000 conosco alla Cittadella di Monserrato l’ex preside di Scienze, il professor Francesco Corongiu, patologo generale. Ha collaborazioni con Paesi esteri. Mi chiede se sono disposta a lasciare l’Italia. Anche domani mattina, gli rispondo. Senza dirmi nulla avvia le pratiche. Prima di morire Corongiu mi dice: andrai presto in Giappone. Detto fatto. Arrivo a Osaka nel marzo del 2002 e mi accorgo davvero di un altro mondo per la ricerca scientifica, noi in Italia ne siamo lontani anni luce».
 
2 – La Nuova Sardegna
Pagina 15 - Cronaca
ORANI 
La Sardegna nella tesi di una vietnamita 
Studentessa di Hanoi trae ispirazione dai racconti di un amico sardo 
 
ORANI. «La Sardegna è un’isola incantata, con i suoi colori, l’ospitalità, la sincerità e la disponibilità della sua gente». Così Trang Tran Thu, una studentessa vietnamita ventenne, che frequenta la facoltà di lingue dell’università di Hanoi, descrive la nostra isola, di cui lei conosce in modo particolare Orani, Oliena, Nuoro e Oniferi. Un interesse, il suo, nato in seguito all’amicizia della sua famiglia con quella di un sardo, che il padre conobbe tanti anni fa e che si trovava in Vietnam per ragioni di lavoro. Grazie a questo filo diretto con la Sardegna, Trang ha avuto modo di apprezzare l’arte, la cultura e le tradizioni dei quattro comuni, che sono diventate l’oggetto di una tesina poi presentata ai suoi docenti e colleghi della facoltà. «Conosco Orani per i suoi artisti, come Nivola e Delitala, e gli scrittori, come salvatore Niffoi di cui sto leggendo le opere - ha dichiarato Trang - Oliena, citata spesso dai viaggiatori dell’800 per la sua operosità, e attualmente per l’industria turistica; ma anche Nuoro, che grazie ai suoi artisti, nel’900, fu definita l’Atene sarda, e Oniferi, con i suoi poeti e i monumenti archeologici». La giovane studentessa si dice attratta dai romanzi di Grazia Deledda e dal canto a tenore, che ama ascoltare e di cui apprezza la coralità. «In facoltà - continua Trang - ho parlato di un popolo fiero e orgoglioso, che ha dato lustro all’Italia in tutti i campi; un popolo felice pur fra tante contraddizioni, di cui sono innamorata, così come lo sono della sua terra». Trang Tran Thu arriverà in Sardegna probabilmente nel 2008, dopo la laurea, ospite della famiglia dell’amico del padre, con la quale tiene una fitta corrispondenza, e potrà conoscere tutti quei luoghi di cui finora ha solo letto le descrizioni e visto le foto. «Vorrei visitare i nuraghi, le domus de janas di Sas Concas a Oniferi, il museo Nivola ad Orani e quello etnografico di Nuoro - conclude Trang - ma soprattutto mi piacerebbe essere accolta dalle donne di Orani, Oniferi e Oliena, stare con loro per capire le usanze e i comportamenti, che saranno cambiati dal periodo descritto dalla Deledda».
Andreina Zichi
 
3 – La Nuova Sardegna
Pagina 3 - Fatto del giorno
Per l’antropologo il problema è complesso e va affrontato con equilibrio 
La mediazione di Angioni 
«Nel villaggio globale un paese sardo è periferia della città» 
Il governatore pugliese: «La battaglia sociale si vince investendo nella formazione» 
 
CAGLIARI. «L’Università non può essere una targhetta che serve a rendere orgogliosi i sindaci dei piccoli centri». Dal Forum nazionale del Libro che si è chiuso ieri alla Manifattura Tabacchi il presidente della Regione Renato Soru è intervenuto sul problema dei corsi di laurea gemmati. L’ateneo diffuso è infatti al centro, questi giorni, di una polemica esplosa tra mugugni e proteste proprio nei centri sotto tiro: da Nuoro a Iglesias, da Tempio a Sanluri dove le sedi universitarie, per problemi di budget potrebbero correre il rischio di scomparire. Un fatto che riguarda oltre tremila studenti e qualche centinaio di docenti che insegnano in vari corsi specialistici. Il Governatore, nel corso del suo intervento così si è espresso: «Mi rendo conto che sarà difficile chiudere queste sedi, ma è necessario far capire alle persone quanto sia prezioso per uno studente fare un’esperienza fuori casa».
 Riflettendo sulle ragioni della protesta come quelle del Governatore, lo scrittore Giulio Angioni, titolare della cattedra di Antropologia Culturale presso l’Università di Cagliari, presente al Forum ha invocato la necessità di affrontare l’intera questione “cum grano salis”. Cioè prendendo bene in considerazione le ragioni degli uni e degli altri.
 «Non è certo trascurabile per un amministratore porsi il problema dei soldi - premette lo scrittore e docente universitario - soprattutto quando quelli che si spendono per l’istruzione non sono molti... ma occorre tenere anche conto dei tempi che cambiano e la storia».
 Una storia iniziata mille anni fa. «Quando nacquero le prime università, a Parigi, Bologna. Gli studenti dell’epoca erano chiamati “clerici vagantes”, perchè si spostavano nei grandi centri universitari. Da cinquecento anni però la tendenza è opposta. Cioè è quella di far crescere gli atenei come servizio dei territori. Quando Soru parla di esperienza fuori casa per uno studente come importante patrimonio culturale fa riferimento a quanto accadeva diverso tempo fa. Dalle grandi campagne d’Europa i genitori inviavano i figli a studiare e vivere esperienze cittadine. Questi così tornavano a casa più ricchi di conoscenza e di vita. Ma ora queste differenze non esistono più. Un qualunque paese sardo oggi è come se fosse una sorta di periferia delle città. Per cui queste gemmazioni in piccole città non devono essere viste solo come motivo di inorgoglimento. In molti casi infatti, rispondono a una vocazione del territorio che richiede un centro studi universitario legato alla tradizione, alla cultura e alla economia della zona stessa. Un corso di laurea e specializzazione ingegneristica sulle miniere ad Iglesias, ad esempio, nessuno potrebbe dire sia fuori posto o senza senso».
 Resta il problema del budget. «Il Governatore ha certo ragione dell’irridere verso quei sindaci che si mettono il fiore dell’università all’occhiello per motivi elettoralistici. E, ancora, proprio per i motivi di oculatezza nella spesa pubblica, non bisogna certo esagerare nel decentrare. L’insediamento universitario deve avere cioè un senso preciso rispetto al territorio. Ma, attenzione, se c’è uno spreco, questo si vede nel giro di pochi anni. In quel caso si deve essere drastici e tagliare». Insomma, conclude Angioni, occorre muoversi «con ragionevolezza. Ci sono certamente ottime ragioni in quello che Soru dice. Ma anche il campanilismo in qualche caso può essere un supporto a costruire delle cose ben fatte».
Walter Porcedda
 
1 – altravoce.net
Lettere.
I corsi di laurea da tagliare a Nuoro
e il rischio di tornare indietro per tanti giovani
di Elena Bertocchi*
 
Nuoro non è una grande città, ma si trova al centro della Sardegna, zona in cui diverse attività stanno fallendo o annaspano e fanno fatica a decollare. Le industrie di Ottana, di cui si è sempre tanto parlato, sono un esempio.
Non ci sono sbocchi, il lavoro scarseggia, uno dei mezzi possibili per venire fuori da una situazione di stallo potrebbe essere l’università. Negli anni, sono stati attivati diversi corsi di laurea; in alcuni, ad anni alterni, sono state bloccate le iscrizioni. Sono tantissimi gli iscritti, di diverse fasce di età: questo vorrà pur significare qualcosa.
Fino a poco tempo fa si è parlato di realizzare il “terzo polo universitario”, si è parlato di realizzare un campus universitario in un luogo stupendo come l’attuale sede dell’Artiglieria, si son dette tante cose. Ma noi studenti non abbiamo mai chiesto nuove sedi, fantomatici “terzi poli”: solo un nostro diritto, poter studiare e conseguire la laurea come tanti altri studenti al mondo.
Le sedi ci sono. Avere un’unica sede sarebbe un sogno, ma il sogno per molti sta diventando poter studiare, realizzarsi, perché c’è una cosa molto importante da capire: non tutti hanno i mezzi economici per poter prender casa a Cagliari o a Sassari.
Concordo con Marco Mesina, rappresentante degli studenti nel Consiglio d’Istituto Enrico Fermi di Nuoro quando afferma che «… noi lo sappiamo, alcuni continuano perché hanno la speranza di poter andare all’Università a Nuoro. Solo questo basterebbe per scegliere di combattere. Ma l’Università è anche una porta aperta sul mondo, la possibilità di confrontarsi con altre realtà, di toccare e vedere il progresso praticamente in diretta. In poche parole rappresenta la possibilità di non restare indietro».
Non restare indietro. Marco Mesina ha centrato il nocciolo di tutta la questione: senza corsi di laurea, o comunque la possibilità di avere un offerta formativa varia come c’è tutt’ora (i corsi attivati sembrano pochi, ma se anche quelli non ci fossero?), si tornerebbe indietro di decenni.
Studiare costa sempre di più, non lo dico io, lo dicono i genitori che vengono intervistati ogni anno a settembre quando inizia l’anno scolastico e si ritrovano in libreria per acquistare il necessario per i propri figli che iniziano e proseguono nella carriera da studente. Lo dicono gli studenti delle grandi e piccole città, che hanno la fortuna di avere delle sedi universitarie “collaudate” e secolari, pagano affitti astronomici e dicono che i propri genitori fanno i salti mortali per dare loro questa opportunità.
Quest’anno chiuderanno “Amministrazione governo e sviluppo locale” e “Scienza dei servizi sociali”. L’anno prossimo toccherà alle sedi gemmate di Sassari che per quest’anno si sono salvate? Tra qualche anno che cosa accadrà? Si parla di “centri di eccellenza”, di portare a Nuoro corsi che non siano doppioni di altri… Che si vuol fare? Dare un colpo di spugna al presente e cancellare centinaia di studenti in un sol colpo?
Facciamo sì che studiare a Nuoro non diventi un sogno ma l’opportunità per tutti di poter scegliere un futuro migliore.
webmaster del forum nuorouniversity
 
2 – altravoce,net
Passioni e rivoluzioni attorno al sardo
Ma le forzature e la fretta
sono causa di esclusione e discriminazione
di Marinella Lőrinczi
 
Il 18-19 ottobre scorso si è tenuto a Cagliari un convegno scientifico internazionale, organizzato congiuntamente dagli Atenei sardi e dalla Regione, sull’uso del sardo, ma per dirla bene, sull’uso della Limba sarda comuna «comente limba giurìdicu-amministrativa». Il giorno dopo, sabato di pomeriggio, “atobiu mannu” e partecipato, con un uditorio altrettanto numeroso se non di più, e senza obbligo di firma, nel Comune di Masullas, sindaco presente, per la valorizzazione di tutte le parlate della Sardegna, a partire, chiaramente, dal campidanese-masullese (immortalato dall’anonima e celeberrima Scomuniga ottocentesca de Predi Antiogu arrettori de Masuddas).
La settimana successiva mi è capitato di essere presidente di una seduta di laurea, alla Facoltà di Lingue, durante la quale è stata presentata una tesi sugli usi linguistici infantili nel comune di Scano in Montiferro. Un condensato dunque di eventi - collegati a questioni ed atmosfere di emancipazione del sardo - a forte impatto potenziale od effettivo, anche emotivo, soprattutto se considerati insieme con le recenti iniziative della scuola cagliaritana “Randaccio” a favore del cagliaritano e del consiglio comunale di Sinnai a favore del sinnaese. E con altre più o meno recenti.
Ogni componente del fenomeno ha una sua rilevanza particolare. È anzitutto evidente che c’è una accelerazione, un aumento delle iniziative a favore del sardo, a tutti i livelli, iniziative che nel loro insieme sono senz’altro positive e promettenti. Ma per prudenza non andrebbero indicate, assecondando le parole entusiastiche dell’assessore alla cultura Maria Antonietta Mongiu, come gli inizi di una «rivoluzione copernicana». Se quest’ultima metafora, adattata al caso Sardegna, significasse spostamento da un assetto italocentrico ad un assetto sardocentrico della situazione linguistica della Sardegna, il successo del processo andrebbe comunque valutato in itinere e a posteriori, poiché le previsioni potrebbero non avverarsi o portare addirittura al fallimento, se gli interventi politici sono poi fatti con mano pesante, come avviene già adesso. Un direttivo politico diverso potrebbe persino adottare linee di condotta differenti se non contrarie.
Quanto alle esperienze del passato, usarle come modelli illustri per il presente è improprio e storicamente sbagliato, poiché gli usi ufficiali medievali del sardo si situano al culmine di un processo le cui fasi iniziali non conosciamo. Mentre ora viviamo e conosciamo le fasi iniziali di una eventuale koinéizzazione, di una eventuale e problematica formazione di una lingua unitaria, e non ne possiamo prevedere il futuro. Comunque sia, osservatori esterni raccomandano ai politici interessati e agli operatori linguistici mosse ed atteggiamenti soft, carezzevoli, cauti, insomma non impattanti sulla masse dei parlanti con usi linguistici consolidati. Forse queste raccomandazioni, che non sono mai inutili e troppe, arrivano in Sardegna un po’ in ritardo, dal momento che stiamo giungendo alla logica della discriminazione, proposta con la massima tranquillità o ingenuità, a seconda dei casi. E le reazioni non sono soltanto risentite o vivaci ma possono assumere toni isterici persino durante gli incontri tra specialisti. Proprio per questo è opportuno evitare i commenti a caldo.
Il summenzionato convegno sui moderni usi giuridici e amministrativi della lingua sarda è stato presentato come un incontro scientifico. Gli incontri scientifici hanno un protocollo preciso e collaudato per garantire pari opportunità e svolgimento ordinato. Le autorità sono presenti all’ora prestabilita e se questo è reso impossibile da contrattempi istituzionali, l’evento ha comunque inizio per rispetto verso il pubblico e verso i relatori, e non con un’ora buona di ritardo. I tempi di ciascun intervento vanno dunque rispettati.
I nomi di ciascuno vanno ugualmente rispettati, per cui un invitato di nome, mettiamo, Jack White non diventa Giacomo Bianco o Jaccu Biancu/Arbu, e Carla (Marcato, professore all’Università di Udine) non dovrebbe diventare Càrula. Nel programma di un incontro scientifico, il titolo di ciascun contributo va enunciato nella lingua scelta dal relatore (e poi eventualmente tradotto), a meno che non ci siano limitazioni nelle lingue d’uso previste dal comitato scientifico. Non si tratta di pignolerie pseudofilologiche. Anche queste regole, che non sono sempre e soltanto di buona creanza o consuetudinarie, sono in parte prescritte da norme giuridico-amministrative: il nome di ciascuno, in situazioni serie e formali, va usato così come registrato negli atti anagrafici.
Ma, evidentemente, alla Regione ci si sta soltanto vezzosamente esibendo davanti all’Europa con l’uso di una koiné sarda pseudoufficiale. Con la stessa stessa disinvoltura e serietà l’ufficio stampa della Regione aveva comunicato, a maggio, che a Paulilàtino si sarebbe fatta la presentazione dell’indagine “Limba sarda comuna. Una ricerca sociolinguistica” che invece s’intitola “Le lingue dei sardi. Ecc.”. Le norme bibliografiche prescrivono l’obbligo di riportare il titolo originario di un lavoro scientifico o creativo. Se è questo che insegniamo ai nostri studenti, come mai la regola dell’esatta citazione non deve valere per l’Ufficio stampa della Regione? Perché, appunto, si gioca alla lingua sarda giuridica oppure perché si vuole ciurlare nel manico attraverso forzature, dando per acquisito e ufficiale ciò che acquisito e ufficiale non è (ancora).
Nessuna delle due risposte è esaltante, tanto meno se poi veniamo a sapere che nel punteggio per gli avanzamenti di carriera, interni alla Regione, si incomincia a computare anche le conoscenze linguistiche (di Lingua sarda comune?), secondo norme e con commissioni valutative non meglio pubblicizzate. Se fosse vero, questa è l’anticamera del famigerato patentino linguistico degli impiegati pubblici, rispetto al quale ci saranno persone preposte o autopreposte a decretare chi parla bene o male il sardo (ovviamente quello Comune, per come stanno le cose).
Il personale della Regione costituiva, infatti, la maggioranza (precettata?) del pubblico al convegno sugli usi giuridici. Venivano prese le firme di presenza. I relatori avranno per lo più riassunto o ripreso argomenti già trattati durante un precedente corso regionale di addestramento all’uso della Lingua sarda comune, e i corsisti, impiegati e funzionari, si trovavano in sala per ricevere gli ultimi insegnamenti o le ultime informazioni. Non convegno scientifico, dunque, ma corso o conclusione di corso. Tanto valeva farlo nei locali della Regione, risparmiando anche sull’affitto della sala e sui gadget (ossia accessori di propaganda) tipici dei convegni: zainetti, portadocumenti, blocchi per appunti, voci di spesa che la legge 482 permette.
Ho appreso che c’è stato anche un dibattito alla fine della seconda giornata, ma me n’ero andata prima, quasi in chiusura, poiché i relatori esterni e stranieri erano già comunque quasi tutti partiti e un dibattito affrettato in quelle condizioni (prereferendarie, per di più) non aveva molto senso, se non per poi dire e scrivere che c’è stato dibattito, dunque posizioni diverse, dunque democrazia. Sarebbe invece valsa la pena di commentare per lo meno due dei temi trattati, che hanno attinenza con il sentimento di discriminazione che molti Sardi provano dinanzi alla Lingua sarda comune e alla sua gestione.
Si sentono discriminati e temono l’emarginazione, immagino, gli italofoni sardi adulti professionisti, per i quali l’italiano è lingua dominante al 90% come minimo se non al 99%. Possiamo affermare, per la maggiore gioia di chi era già raggiante per le numerose autoattestazioni di conoscenza del sardo rilevate nell’inchiesta Oppo (Le lingue dei sardi), che chi vive in Sardegna da più anni ha necessariamente una minima competenza attiva del sardo; questo vale anche per gli immigrati intellettuali e non intellettuali, ma soprattutto per questi ultimi: sanno spiccicare o intercalare qualche frase in sardo. Così i bambini delle città; anche se succede, al limite, come è successo qualche settimana addietro, che un ragazzino torni felice da scuola vantandosi: «Mamma, so parlare il sardo.» «E cioè?» «A sa facci tua.» «E cosa significa, secondo te?» «Vacci tu.»
Che cosa illustra quest’aneddoto? Numerosi sono gli intellettuali sardi, nati e soprattutto cresciuti in città, per i quali il sardo è un idioma di tipo gergale-confidenziale imparato ed usato con i coetanei, nei giochi e a scuola (come sta capitando a quel bambino). Questi intellettuali sanno il sardo, ma come lingua d’antan, come lingua coesiva di gruppi/bande giovanili che poi viene abbandonata, lasciata sopita, messa in stand-by ossia sleep mode, fenomeno ben studiato d’altronde.
Questa categoria di italo(-sardo)parlanti adulti, importante professionalmente, non è nemmeno intervistabile direttamente, a mio avviso, sulla questione dell’emancipazione del sardo, perché si mettono subito in guardia. Fanno i puristi riguardo al sardo, cercano il pelo nell’uovo rispetto a questi primi tentativi di traduzioni di documenti ufficiali dall’italiano in sardo. Forse non sanno che ogni tradizione scrittoria o traduttoria ha inizi difficili ed esitanti (la storia delle traduzione bibliche è più che istruttiva: è esemplare); che le equivalenze terminologiche vanno create; che gli xenismi, i forestierismi (che però spesso sono internazionalismi e non solo italianismi) sono inevitabili a meno che non si ricorra ad arcaismi (potremmo dire, perché no, Rennu o Logu Sardu anziché Regioni, Regione Sarda ecc.); che si deve tradurre e ritradurre per imparare a tradurre.
Se si sta cercando di creare una nuova lingua, o, meglio, nuovi stili di lingua adatti a nuovi argomenti e circostanze, alla modernità anzitutto, il primo risultato inevitabile è una lingua piena di italianismi anche nella sintassi, percepita, come è normale che sia, aliena e brutta finché non ci si fa l’abitudine e/o finché non si affinano i mezzi linguistici interni. Proprio per questo, nonché per creare la necessaria assuefazione, il pianificatore dovrebbe muoversi con circospezione, senza impartire lezioni ma soltanto proponendo.
 
Ma alla Regione si rendono pubblici nel sito i primi vagiti di traduzione, validati da chi?, e si insegnano pure come modelli. E gli italofoni colti sbuffano sdegnati, mentre contemporaneamente sappiamo, per esperienza e attraverso la ricerca, che il sardo sta sviluppando comunque e da tempo, per adeguamento pragmatico spontaneo, varianti sempre più italianizzate anche se si tratta di varianti a basso prestigio e non ad alto prestigio come dovrebbe essere una lingua ufficiale. Dunque, dov’è il problema? Il problema non è il sardo, non è il problema tecnico degli italianismi sì o degli italianismi no, ma il sentimento di emarginazione da tale processo, che rende aggressivi. Vanno anche loro compresi: l’italofonia non è un delitto antipatriottico.
C’è un altro aneddoto a questo proposito. In un altro incontro simile dell’anno scorso (al Lazzaretto di Sant’Elia) un giovane sotto la trentina ha dichiarato che a lui il sardo non lo avevano insegnato, parlava perciò solo l’italiano e non si sentiva per niente colonizzato. Un signore anziano l’ha rimproverato per questo, parlando in sardo, senza però rendersi conto che era la sua generazione che aveva peccato, se vogliamo metterla in questi termini, di mancata trasmissione del sardo ai giovani. I figli pagano per i torti commessi dai padri? Voler usare o preferire l’italiano è un delitto antipatriottico? Perché il principio della polinomia linguistica, includente l’italiano, non può essere adottato?
Un’altra discriminazione si sta inoltre compiendo ai danni di quei parlanti che non usano le varianti centro-logudoresi. Qui la plurisecolare teoria accademica, che ho da sempre percepita come perniciosa, sulla superiorità del sardo-logudorese o del sardo-nuorese, propagandata a generazioni di studenti, sta dando i suoi frutti più vischiosi. Sia il progetto della Lingua sarda unificata, sia il progetto della Lingua sarda comune discendono da tali teorizzazioni, a loro volta sorrette da luoghi comuni culturali di antica data che situano nelle aree centrali e montuose della Sardegna il prototipo della sardità intatta, inglobante anche analoghe caratteristiche linguistiche.
«Prescegliamo il dialetto del Logodoro, ch’è il più primigenio, più chiaro, e più puro che l’altro, del Capo di Cagliari.» Questo non è stato scritto adesso, ma nel Settecento, da Matteo Madao, e riecheggia ancora puntualmente nelle premesse sia della LSU sia della LSC. Oggi si direbbe più in generale (non cito la fonte): «La montagna, più che la pianura, rappresenta infatti un luogo privilegiato, nel quale si osserva come il radicamento e il mantenimento della tradizioni linguistiche e culturali, rientrino all’interno di reti relazionali che si sviluppano dentro allo stesso ambiente geografico.» Non so cosa ne penserebbero i Mongoli, pastori nomadi per tradizione, in un ambiente di steppa, o gli abitanti degli altopiani. Avranno problemi esistenziali tremendi: siamo montagna o siamo pianura?
Le varianti sarde che hanno limba (e non lingua) sarebbero perciò più identitarie. È scritto a chiare lettere. Altrettanto chiaramente è stato enunciato nel convegno, con semplicità, che scrivere in un modo e leggere in modi diversi sta nella natura delle cose linguistiche-grafiche: vedi il cinese. E allora perché non scrivere tutti chelu, ad esempio, che a seconda dei sistemi fonetici locali potrà essere pronunciato kelu oppure celu; in fondo il digramma, cioè l’insieme di lettere <ch> ha in italiano il valore fonetico di Casa e in spagnolo il valore di CHocolate. Semplice, no?
I Campidanesi imparerebbero in fretta, con un po’ di buona volontà, che abe sta per abi, abes sta per abis, domo sta per domu, iscola sta per scola, pische, pronunciato alla tedesca, sta per pisci, cantare sta per cantai, cantadu sta per cantau, ruju sta per arrubiu. Non si è osato dire che sos, sas stanno ovviamente per is; sarebbe stato troppo. Né si è giustificato perché i Campidanesi, maggioritari, dovrebbero fare tale sforzo, con la Regione che ha la sua sede a Cagliari. L’abate Madao, che ha lavorato anche in altre direzioni assai più meritorie, non è stato scomodato come testimonial.
Indignati, quindi, i Campidanesi a Masullas, indipendentemente da quanto raccontato sopra. Bella locandina, pubblico folto, tutti attenti per oltre tre ore di fila senza pausa, discorsi vivaci, numerosi e variegati sia in sardo sia in italiano. Atmosfera ravvivata da alcune esibizioni artistiche di launeddas e di chitarra e da improvvisazioni elaborate a s’arrepentina. È stato tra le altre cose contestato, sul piano storico e sul piano della prassi, ciò che compare purtroppo ancora in tesi di dottorato o di laurea (come quella a cui ho assistito come commissaria): che è il logudorese ad essere stato usato maggiormente per finalità creative, artistiche. Se è vero, com’è senz’altro vero ciò che sostiene lo studioso francese Louis-Jean Calvet, noto per i suoi studi di ecologia linguistica, secondo cui gli idiomi non sono uguali tra di loro, e che la disuguaglianza può generare situazioni di conflitto ma è anche un principio organizzatore, è altrettante vero - prosegue lo studioso - che la situazione ecolinguistica, dei rapporti reciproci tra le lingue, può cambiare sotto le spinte sociali. A maggior ragione se il disequilibrio è un costrutto, una invenzione, una favola, senza corrispondenza effettiva nella realtà. 
 

Questionario e social

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