Lunedì 14 febbraio 2005

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
14 febbraio 2005
Università di Cagliari
Ufficio stampa

 
1 – L’UNIONE SARDA
Pagina 8 – Cagliari
Borse Di studio per l’Australia
L’Università allarga i confini delle esperienze di studio a disposizione degli studenti. La novità si chiama Australia, con la possibilità per gli universitari cagliaritani di effettuare uno stage di studio nella terra dei canguri. «Nonostante il numero degli studenti del nostro ateneo che si tuffano in esperienze all’estero, sia ancora basso, circa cinquecento su trentottomila iscritti, – sottolinea Anna Maria Aloi, responsabile settore Relazioni Estere – il trend è in crescita, e questa nuova possibilità servirà a aprire nuovi orizzonti anche con i Borse di studio per l’Australia confini extra europei, che restano quelli più gettonati». Per parlare dell’Australia e delle occasioni di studio nello stato australiano, il settore Relazioni Estere dell’ateneo di Cagliari, in collaborazione con le associazioni studentesche Grisou, Elsa e Aegee, ha organizzato per domani, alle 16,30, un incontro dal titolo “Studiare in Australia, istruzioni per l’uso”. La serata si svolgerà nell’aula magna Giovanni Cosseddu, nella casa dello studente di via Trentino, e vedrà la presenza di Sheralyn Derrick, manager del consolato d’Australia in Italia, che fornirà preziose informazioni su borse di studio, corsi di lingua inglese, modalità di accesso ai corsi di laurea e ai master nelle università australiane. L'Australia è una delle mete preferite dei giovani, anche grazie all’alta presenza di studenti stranieri (uno ogni dieci). Per questo motivo offre grandi possibilità per i ragazzi cagliaritani (m.v.)
 

2 – LA NUOVA SARDEGNA
Pagina 13 – Sassari
L’Università accoglie 3.800 nuove leve
Edizione 2005 di «Studiare a Sassari: informazione, orientamento»
SASSARI. Anche quest’anno l’ateneo promuove «Studiare a Sassari: informazione e orientamento all’Università». Si tratta di un incontro con gli studenti dell’ultimo anno delle scuole superiori della Sardegna, organizzato per favorire una scelta consapevole nell’iscrizione ai corsi di laurea. La manifestazione avrà luogo da oggi a venerdì nei locali del complesso didattico della facoltà di Scienze, in via Vienna 2.
«Agli incontri - informa una nota diffusa dall’ufficio Ricerca e Relazioni internazionali dell’ateneo cittadino - hanno già aderito 3.800 studenti provenienti da sessanta scuole del territorio. Sono pertanto previsti circa mille visitatori in più rispetto all’anno scorso». Questo anche perché, rispetto al 2004, l’invito a partecipare a «Studiare a Sassari: informazione e orientamento» è stato esteso agli studenti delle scuole agrarie della provincia di Cagliari.
Gli studenti saranno ricevuti con un preciso calendario di incontri, concordatodall’Università con i responsabili delle scuole che hanno aderito: prevalentemente licei e istituti tecnici di tutta la provincia. Il primo approccio dei futuri universitari con l’ateneo sassarese sarà favorito attraverso colloqui tra gruppi ristretti di ragazzi e i docenti dell’ateneo sassarese.
«Particolare attenzione, visto il grande successo riscosso nella precedente edizione della manifestazione - prosegue la nota - sarà riservata al servizio gratuito di counseling che fornisce agli studenti un adeguato orientamento sulla scelta del percorso formativo dopo avere stabilito, con aiuto di psicologi, le loro attitudini». Il counseling fino ad oggi è stato utilizzato da cinquemila ragazzi.
Come l’anno scorso, anche l’edizione 2005 di «Studiare a Sassari» è stata preceduta dalla distribuzione agli studenti interessati di un test autovalutativo che ciascuno dovrà compilare autonomamente e consegnare al Servizio Counseling. Gli psicologi potranno così valutare il test e ogni studente riceverà al proprio domicilio la risposta corredata con le indicazioni della facoltà e dell’eventuale corso di laurea al quale si consiglia l’iscrizione. Gli studenti fuori sede che parteciperanno alla manifestazione potranno usufruire gratuitamente della mensa universitaria dell’Ersu. Ad alcune scuole che avevano fatto esplicita richiesta, in quanto in difficoltà economica e impossibilitate a garantire il viaggio ai propri allievi, sono stati inoltre offerti i mezzi di trasporto per raggiungere la sede della manifestazione.

3 – LA NUOVA SARDEGNA
Pagina 58 - Cultura e Spettacoli
Beni archeologici: la svolta nelle nuove figure professionali
Oltre 8000 nuraghi e 2500 domus de janas
Un patrimonio immenso che attende di essere valorizzato
Il patrimonio dei beni culturali della Sardegna è costituito - come ricordato più volte nella prima puntata dell’inchiesta - da una somma non lontana dalle ventimila unità monumentali. Ma non solo. Un’osservazione ravvicinata ci sarà utile per capire di cosa disponiamo e quali siano gli strumenti professionali necessari a comprenderlo. Proviamo a scomporre con qualche indicazione puntuale classi, quantità e insiemi monumentali. Se si contano circa ottomila nuraghi, almeno 2500 sono le domus de janas. Con due classi monumentali (per quanto le più diffuse di preistoria e protostoria) abbiamo raggiunto quota diecimilacinquecento. Molte centinaia sono le capanne prenuragiche e soprattutto quelle nuragiche. Elenco più o meno sistematicamente altre classi e tipologie: dolmen, allées couvertes, tombe di giganti, insediamenti megalitici fortificati, templi a pozzo, fonti sacre, mégara. E ancora: tombe a pozzetto, strutture edilizie diverse come recinti sacri, festivi, commerciali, assembleari. Pensate alle città fenicie, puniche, romane: le case, gli edifici commerciali, santuariali, produttivi. Le torri e i tratti murari fortificati. I tratti stradali principali e secondari, i ponti, gli acquedotti. Le tombe a camera, a fossa, in anfora. Teatri, anfiteatri, strade, piazze, fontane, edifici idraulici, terme...e poi, attraverso i primi secoli del cristianesimo, le chiese rupestri e costruite, i castra, le forme abitate dei villaggi, dei castelli e delle città fra alto e basso medioevo. A centinaia anche le torri aragonesi e spagnole. Sino all’Ottocento, (e, tra non molto, il primo Novecento), con altri manufatti e i centri dell’archeologia della produzione (da quelli minerari ai mulini ad acqua, alle neviere, alle gualchiere e ai forni per la calce). Le pinnettas di variabile tipologia.
Caratteristiche primarie di tale documentazione sono la densità territoriale e la predominante collocazione extraurbana: si confronti la cifra media prima fornita con i 24 mila chilometri quadri dell’isola e il risultato apparirà impressionante. La conseguenza ambientale è di tutto interesse: il paesaggio sardo non è ogni tanto, o raramente, ma spesso caratterizzato da segni monumentali, in misura tale da determinarne i profili. Ciò fu colto da viaggiatori, pittori e incisori dell’Ottocento, ed appare in una pregnanza forse ignota a quel legislatore illuminato (Galasso) che istituì con la legge 431 del 1985 (della quale ancora in qualche modo resistono, attraversati da forti tensioni antitutela, gli enunciati: si veda a questo proposito l’art. 142 del nuovo Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) il legame fra area archeologica e tutela ambientale. Questo paesaggio (sequenze di aree di eccezionale valore ambientale combinate con reti di monumenti), merita un attenzione non minore di quello costiero, e forse maggiore. Eppure non ha, né potrebbe, uno strumento in qualche modo così lineare ed univoco come i trecento o i duemila metri dalla linea di costa: ma bisognerebbe fare di più. Un altro fattore è dato dalla eccezionalità dei monumenti (spesso assenti in altre parti del mondo, come il nuraghe, o non presenti altrove nel loro ‘stare assieme’ per tipologie ed epoche), dalle articolazioni e dalle compresenze, con significative e variabili associazioni orizzontali e verticali, puntuali e prospettiche: nuraghi e chiese costruite (affiancati: S. Sabina di Silanus; sovrapposti: S. Lo di Bosa); chiese rupestri entro domus de janas (Su Crastu de S. Liseu a Mores), castra altomedievali su città romane sovrapposte a centri fenici localizzati fra rovine nuragiche (Tharros), castelli su colline coniche come fondali di insediamenti nuragici (Las Plassas e Barumini), strade carraie romane sopra necropoli ipogeiche (Su Crucifissu Mannu di Porto Torres). La risorsa complessiva dei beni culturali del nostro territorio sarebbe letta in maniera davvero monca senza le testimonianze legate alle tradizioni popolari. Campo materiale e immateriale di straordinaria vastità, fondamento centrale dell’identità, fonte di memoria e di ricerca che pone difficili compiti di tutela e valorizzazione. E’ soprattutto nei centri storici (intendo per essi quelli abitati) che tali tradizioni si formalizzano più visibilmente: dove cioè abbiamo la presenza della gente, con le tradizioni che attraversano gli scenari del quotidiano e della festa. Restano tracce ampiamente visibili anche nel territorio extraurbano con le architetture rurali e la permanenza di modi di produzione ‘arcaici’. E la lingua, specchio di rappresentazione del mondo con i suoi depositi, i modi di dire, la toponomastica urbana ed extraurbana. Ma non dimentichiamo che nei centri storici vi sono forme architettoniche, artistiche ed urbanistiche meritevoli di nota, tutela e di visita. E’ usuale dire - qualcuno lo fa con ispirata sofferenza e altrettanto ispirata attenzione a nuove possibili demolizioni e successive cubature - che in Sardegna non abbiamo le città d’arte di eccellenza (Venezia, Firenze, Ferrara, Perugia, Gubbio etc.): come che non esistano fatti, cose, contesti che meritino di essere tutelati senza appartenere alle vette della manualistica di storia dell’arte e architettura. Si tratta di un racconto diverso da quello basato sul concetto “di rarità e pregio” formalizzato dalla vecchia legge 1089 del 1939, cercando anche altrove la ‘testimonianza avente valore di civiltà”, magari nella sequenza e poi nella sintassi di modeste soglie, di porte in legno, di anelli per l’asino o il mulo, di architravi litiche e lunette radiali in ferro battuto a sovrastare gli ingressi. Nella stessa storia raccontata da soglia a soglia, con piccole sedie, nei lavatoi pubblici, negli zilleri e butteghinos, ateliers formativi del bel canto a chitarra. Come separare, qua, i centri storici dalle tradizioni popolari e dai sistemi antropologici?
Abbiamo quindi un patrimonio diffuso e reticolare predisposto ad inserirsi in quel modello avanzato e di estremo interesse dei ‘distretti culturali’; patrimonio che non può essere tutelato e vissuto separando le cose, ma vedendole assieme e ricostruendone, quando (e spesso lo è) necessario i nessi; fisicamente molto tangibile, che non potrà mai essere sostituito, nel godimento, ma solo aiutato nella sua comprensione da sistemi virtuali recentemente enfatizzati da ministri virtualmente competenti di beni culturali e ambientali.
Dei rischi e delle pressioni esistenti su tale patrimonio avremo modo di parlare diffusamente nel corso dell’inchiesta, ma possiamo dire in linea generale che i più importanti sono quelli del degrado, del carico antropico e, superati i problemi dello stato di conservazione, della disponibilità delle aree. La complessità di numero, qualità e radicamento pone problemi di governo che non possono essere più delegati - comunque, non ce la fanno - alle Soprintendenze. Non sembrano peraltro superati (tuttaltro) i rischi del ‘silenzio-assenso’, complemento di base del più alto livello perseguito dalle cartolarizzazioni che prelude ad un attacco mortale alla natura, come abbiamo visto reticolare, dei nostri beni culturali.
Le figure lavorative necessarie alla complessa costruzione del mantenimento della risorsa, della sua collocazione nello spazio dell’identità e in quello della fruizione, sono molte, prodotte dalla natura di un bene culturale e dalle operazioni necessarie per renderlo (e considerarlo) tale: la conoscenza, lo studio, la conservazione e la tutela, la valorizzazione. Il passaggio da un sistema prevalentemente vincolistico a uno basato sulla generalizzazione del consumo di cultura ha creato nuove professioni e rideterminato quelle tradizionali: ma queste (archeologo, restauratore, bibliotecario, archivista, architetto, storico dell’arte, demoetnoantropologo) hanno nuovi compiti e nuove responsabilità: i processi si sono fatti più complessi e con la valorizzazione, se correttamente intesa, si può compiutamente realizzare la natura pubblica del bene culturale. Il vincolo, e la conseguente tutela, è a questo proposito solo la premessa talora indispensabile ma evidentemente non sufficiente se quel bene culturale non è reso disponibile e comprensibile.
Proprio all’interno del fortissimo sviluppo del brainpower (potere/capitale intellettuale), acquistano una nuova centralità le figure legate allo studio e alla conservazione: se infatti la comunicazione del sapere si connota in autonomia, con figure professionali che impiegano tecniche e linguaggi specifici - ad esempio, gli web designers, i database managers, il pubblicitario, il copy etc. -, per la regola aurea che la buona comunicazione (divulgazione) segue e non precede il sapere scientifico, le figure professionali prima indicate come ‘tradizionali’ o classiche non possono che mantenere un ruolo direzionale nella produzione stessa dei messaggi comunicativi. Ma devono capire, all’interno del più generale ciclo produttivo del bene culturale di qualità, l’esistenza e la “ratio” delle nuove figure consegnando dove serve il testimone ai professionisti della comunicazione: esigenza sinceramente non più dilazionabile in molte aree monumentali ed esposizioni museali. Queste considerazioni non possono che essere viste entro la necessità di uno sviluppo qualitativo attraverso la risorsa cultura. Diventa perciò ancora più prezioso e delicato il ruolo dell’alta formazione universitaria e accademica.
Marcello MADAU
 
4 – LA NUOVA SARDEGNA
Pagina 14 - Cronaca
Chirurgia plastica, tutti a scuola
C’è lavoro per gli esperti di una disciplina in crescita
La facoltà di Medicina istituisce la cattedra e presto avvierà il corso di specializzazione
CAGLIARI. Riecco la chirurgia plastica all’università di Cagliari con cattedra, ordinario e, al più presto, la scuola di specializzazione. Riaffiora fra gli insegnamenti impartiti nel corso di laurea, ma la novità è che diventa disciplina ufficiale fra le scelte possibili di un laureato che deve specializzarsi. Se ne fa ancora poca, chirurgia plastica, nella Sardegna meridionale, e molti dei professionisti che la praticano vengono «da fuori». La facoltà di Medicina ha deciso di aprire questo fronte per intero e c’è speranza che si riveli un buon investimento: qui, nel sud, soltanto l’ospedale Brotzu ha un reparto. Certo non è più tempo di doppioni, ma secondo i calcoli della facoltà non ci sarà disoccupazione per un chirurgo plastico. «La chirurgia plastica è molto interdisciplinare», spiega in parole povere Diego Ribuffo, il nuovo ordinario, allievo del celebre Scuderi dell’Università La Sapienza di Roma. Si affianca a parecchie branche della chirurgia e ricostruisce quel che altri sono stati costretti a togliere. Vale per gli arti, per la mammella, per la mandibola e altro ancora.
Spiega il nuovo maestro che ormai il 95 per cento delle facoltà di Medicina italiane ha la scuola di chirurgia plastica («anche a Sassari», sottolinea Ribuffo, da buon vicino), neppure la grande Bologna fino a un paio d’anni fa ce l’aveva («ma c’erano e ci sono ospedalieri bravissimi...»). Negli ultimi vent’anni la disciplina s’è affermata, prima in Italia veniva considerata e praticata soltanto per risolvere problemi estetici. Non è un’arte nuova: precedono la nascita di Cristo le descrizioni di alcuni interventi su nasi, che venivano mutilati per punire ladri e adulteri. In epoca moderna le tappe sono la prima e la seconda guerra mondiale: «Dopo questi eventi bellici sono nate le grandi scuole in Francia, Gran Bretagna e negli Stati Uniti un grande apporto è stato dato dalla sanità militare dell’esercito. Le scuole hanno trascinato tutta la chirurgia generale verso una nuova mentalità. Basta pensare alle mastectomie allargate di un tempo, mentre ora negli interventi alla mammella si punta alla conservazione».
Ribuffo, 42 anni, a Cagliari dal 3 gennaio ma chiamato a operare dal 2002, si porta appresso l’esperienza e le scelte di campo fatte a Roma, negli Stati Uniti e in Australia. Come la ricostruzione della mammella dopo un tumore: «Già si occupano di questo i chirurghi generali, si tratta di potenziare il settore». E gli arti inferiori: dopo traumi, tumori, «assieme al chirurgo ortopedico - va avanti Ribuffo - si ricostruiscono parti compromesse per evitare l’amputazione». Poi, «il distretto testa-collo, con la ricostruzione della mandibola, che fanno bene in clinica otorino e che mi auguro di potenziare, così come in oculistica la ricostruzione della palpebra. Inoltre, con l’aiuto della facoltà, vorremmo aprire il centro studi sul melanoma e andremo avanti con i lavori sui linfonodi sentinella» (che vengono tolti oltre un certo spessore e possono lasciare zone da ricostruire).
Infine, l’estetica. E’ solo una piccola parte della «chirurgia plastica e ricostruttiva», ma nel sentire comune attira e tiene banco come soltanto il calcio e certa politica riescono a fare. E’ vero che, negli anni, i pazienti sono cambiati: «Un tempo le persone che si presentavano al chirurgo avevano di frequente difficoltà psicologiche mentre adesso - spiega il docente - nella maggior parte dei casi vengono da noi persone consapevoli di sé e informate su ciò che la chirurgia estetica può offrire. Ma anche davanti al paziente più informato non bisogna rinunciare a parlarci, è indispensabile capire le sue ragioni profonde: ci possono essere persone, per esempio, che focalizzano altri loro problemi sul naso imperfetto. In un caso del genere può succedere che anche l’intervento più riuscito sul piano tecnico non potrà portare il paziente alla soddisfazione che cerca. E se si comprende che ci sono false aspettative, queste non vanno incoraggiate. Il colloquio con un chirurgo può concludersi anche con la decisione di non arrivare all’intervento. Si tratta di problemi ben riconosciuti e infatti nel corso di specializzazione metterò insegnamenti di psicologia e psichiatria. Perché l’obbiettivo della chirurgia estetica non può essere l’eterna giovinezza, ma il ritrovarsi un po’ più in ordine».
Alessandra SALLEMI
 
5 – LA NUOVA SARDEGNA
Pagina 15 - Cronaca
Una «limba» viva da parlare
Ieri a Sorgono convegno sul futuro della lingua sarda
SORGONO. Si è discusso del futuro della lingua sarda nel convegno organizzato ieri mattina a Sorgono nella biblioteca comunale. L’incontro ha riunito personaggi del mondo della cultura e della politica per fare il punto sullo stato della questione della lingua sarda, argomento ancora aperto che richiede valutazioni e contributi. Dal mondo accademico dell’università si sono levate le voci alcuni esperti.
Tra questi, Maurizio Virdis, ordinario di Filologia e linguistica sarda della facoltà di Lettere cagliaritana e Duilo Caocci, docente di Filologia romanza dall’ateneo di Sassari. Dopo i saluti degli amministratori locali, è intervenuto il professor Virdis secondo il quale l’approccio alla lingua sarda deve essere di tipo scientifico e didattico. Discutere su quale forma o tipologia di sardo impiegare per ora non ha senso. Non bisogna pensare allo standard e costruire una lingua a tavolino, ma capire la vitalità della lingua stessa, nei vari contesti geografici e poi applicarla al concreto. Fatto questo, poi, si penserà all’ufficialità con un sardo scritto valido per tutti. Duilo Caocci, invece si è soffermato sull’osservatorio e sugli organi che controllano la lingua stessa. «Senza dati - ha detto il docente turritano - un semplice lavoro a tavolino non può dare frutti. Oggi imporre un sardo che nella realtà non esiste è nient’altro che un artificio; l’importante, alla fine dei conti è che comunque si continui a pensare e a parlare e a credere nel sardo stesso». Il professor Mario Puddu, autore del Su dizionariu de sa limba e cultura sarda si è soffermato sul ruolo della scuola «luogo in cui i ragazzi devono fissare i concetti del sardo parlato in casa», Antonello Carai, de “Su sotziu de sa limba sarda”, ha invece rilanciato la questione de “sa limba de mesania”, ovvero la lingua di mezzo che unifica i due capi della Sardegna. Di tutte queste istanze ha fatto riassunto l’assessore regionale alla Pubblica istruzione Elisabetta Pilia, la quale si è detta disponibile a qualsiasi confronto purché i margini di discussione sulla lingua abbiano sempre dei canoni seri e di carattere scientifico. Sulla necessità di migliorare l’approccio al sardo stesso si è espressa anche Francesca Barracciu, consigliere regionale e componente dell’VIIIª commissione Cultura della Regione Sardegna. Giovanni Melis 

Questionario e social

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