Domenica 27 marzo 2005

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
27 marzo 2005
Ufficio Stampa
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI

 
1 – L’Unione Sarda
Pagina 18 – Cagliari
Già partita la corsa al Rettorato, indiscrezioni sulle candidature nelle facoltà
Mistretta pronto alla conferma
Ma prende forza il nome del preside Raffaele Paci
Dal polverone per la scelta dei candidati per la Provincia di Cagliari spunta il nome di Pasquale Mistretta. Non sarà la carta a sorpresa del centrosinistra, in queste ultime ore in affanno per trovare un autorevole e spendibile anti Delogu. Il suo nome, invece, prende quota nel toto candidature per il rettorato. Una scadenza (giugno 2006) solo in apparenza lontana. In realtà molto vicina: l'importante poltrona dell'ateneo cittadino rientra in un giro elettorale ben più vasto che, partendo proprio dalla tornata delle amministrative del prossimo maggio, porta dritti all'anno venturo quando si dovrà votare per il Municipio e per il Senato. In questi giorni si riparla con insistenza di Pasquale Mistretta, magnifico rettore da quindici anni, docente di urbanistica nella facoltà di ingegneria, politico di lungo corso con un passato da socialista (mai rinnegato) e un presente più distaccato dall'agone dei partiti. Mistretta, dunque, destinato a succedere a se stesso nella stanza del seicentesco palazzo Belgrano di via Università. Candidato a un sesto mandato, che segnerebbe un primato personale nella storia secolare dell'ateneo cittadino. L'interessato non conferma, ma neppure smentisce le insistenti indiscrezione che ormai sono più che voci. «Personalmente non mi ricandido, ma se me lo chiederanno valuterò con attenzione la proposta», dice. Il problema è che l'attuale Statuto esclude una rielezione di Mistretta. Statuto già modificato nel 2003 proprio per consentire a Mistretta di ricandidarsi e che ora dovrebbe essere nuovamente emendato. Un'operazione - sottolinea lo stesso rettore - sul filo dell'interpretazione giuridica non impossibile e anzi già oggi praticabile. Come dire, se sarà necessario lo Statuto potrà essere rivisto. «Non dipende da me - aggiunge il rettore - ma dai docenti, dal personale amministrativo e tecnico, e dagli stessi studenti. Nel caso saranno loro a sollecitare un riesame dello Statuto». Le indiscrezioni sulla corsa al rettorato non saltano fuori a caso, ma rientrano nell'acceso e spigoloso dibattito sulle candidature in casa del centrosinistra. Tutto nasce dal nome di Raffaele Paci, dinamico preside di Scienze Politiche, amico e collega di Francesco Pigliaru, assessore regionale alla Programmazione molto vicino a Soru. Paci, cinquantenne, ex militante del Pci ora vicino ai Ds, economista del gruppo di Antonio Sassu, con esperienze all'estero (specializzazioni in Inghilterra e negli Stati Uniti) sarebbe stato indicato come un tecnico ben visto sia dalla sinistra che dall'area di Progetto Sardegna. Sulla sua possibile candidatura per la Provincia Paci non si esprime. Conferma soltanto di essere stato contattato, ma di non aver dato per ora alcuna risposta. Tutto rinviato al vertice di martedì quando il centrosinistra dovrebbe sciogliere i nodi. Nel frattempo prendono peso le voci che, nel caso rimanesse fuori dalla tornata politica, sarebbe lui l'anti Mistretta nel giugno 2006. Un' ipotesi non nuova e anzi sempre più consistente nell'area dei docenti che si riconoscono nel centrosinistra e che lo vedrebbero bene nella successione a Mistretta. «Io al rettorato?»: Paci glissa sulla domanda, ma nell'ateneo negli ultimi tempi le sue quotazioni sembrano in ascesa. E non senza contrasti e possibili avversari. Nell'ambito delle discipline economico giuridiche (dove Paci dovrebbe trovare i maggiori consensi) si parla di una cordata alternativa che farebbe capo a Giovanni Melis (docente di Economia). Ma emerge anche il nome del preside di Giurisprudenza , Francesco Sitzia, studioso di fama vicino alla Margherita. Senza peso politico le facoltà umanistiche, la partita dovrebbe restringersi ai candidati di Ingegneria (per la presidenza si voterà a maggio) e soprattutto di Medicina dove sarebbe molto apprezzato l'attuale preside Gavino Faa. E ci sarebbe ancora un outsider, Giuseppe Santa Cruz, ordinario di anatomia, già avversario di Mistretta due anni fa. Insomma, una corsa ancora apertissima visto che durerà un anno. E con l'incognita dell'attuale rettore che non sembra disposto ad andarsene senza garantire una successione in linea con i suoi programmi iniziati quindici anni fa e da portare avanti. Sempre che non si ripresenti l'opportunità di riproporsi al vertice dell'Ateneo.
Carlo Figari
 
I numeri dell'ateneo
38 mila Sono gli studenti iscritti all'università di Cagliari. Di questi 8454 frequentano il primo anno di corso. Continua a calare il numero dei fuoricorso. 1234 Sono gli universitari di Scienze della Formazione, il corso con più iscritti di tutto l'ateneo. 4135 Questo il numero di laureati nell'ultimo anno accademico, il 2004. Il dato, se confrontato con quello dell'anno precedente, evidenzia un leggero calo rispetto al 2003: allora i laureati furono 4203. 10 Sono le facoltà dell'ateneo cagliaritano: Giurisprudenza, Scienze Politiche, Economia, Scienze della formazione, Lettere e Filosofia, Farmacia, Ingegneria, Lingue e Letteratura straniere, Medicina e Chirurgia, Scienze matematiche e fisiche. A febbraio il senato accademico ha dato il via libera a tre nuove facoltà: Biologia, Psicologia e Architettura. 1000 Mille iscritti più del 2003/04: questo il numero di immatricolazioni per l'anno accademico 2004/05. una crescita del 14,5 per cento. Le uniche facoltà in calo sono Lettere ed Economia, maglia nera con un -4,5 per cento di iscrizioni.
 
 
2 – L’Unio e Sarda
Pagina 18 – Cagliari
«Disponibile se me lo chiedono»
Pasquale Mistretta non si scompone alle voci di una nomination per le candidature alla poltrona su cui lui, da quindici anni, siede saldamente. Anche perché, più che del preside di Scienze Politiche aspirante alla successione, nelle facoltà si parla sempre con più insistenza di una sua rielezione. Alla faccia dello Statuto modificato appena due anni fa proprio per consentire un quinto mandato per Mistretta e alla faccia delle dichiarazioni che l'immarcescibile Magnifico pronunciò solennemente alla vigilia dell'ennesima riconferma: «Questa è l'ultima volta». Il rettore è uomo di mondo e soprattutto un politico di esperienza. Sulle voci sempre più forti nei corridoi dell'ateneo ha pronte tutte le risposte. Raffaele Paci candidato dal centrosinistra? «È troppo giovane e poi c'è ancora molto tempo per le elezioni. Queste indiscrezioni rischiano di bruciarlo». L'attuale Statuto esclude la possibilità di un altro mandato, dunque si renderebbe necessaria una nuova modifica. «Non sarebbe impossibile, c'è tutto il tempo», spiega Mistretta: «Anche se, secondo alcune interpretazioni legali, non sarebbe neppure necessario poiché ogni nuova modifica azzera i precedenti mandati e quindi non ci sarebbero impedimenti a una mia nuova candidatura». Ma per Mistretta il problema è un altro: «Sono disponibile ad accettare solo se ci saranno le condizioni». Significa? «Se me lo chiederanno docenti, personale non docente e gli stessi studenti. Non è detto però che da qui a un anno possano accadere altre cose». Per esempio? «Un posto al Senato non è certo da trascurare». Ma chi lo conosce bene, sa che il Magnifico ci terrebbe molto a completare l'opera cominciata quindici anni fa. «Sto lavorando in modo intensissimo perché a breve abbiamo scadenze importanti», dice: «Entro il mese dobbiamo presentare al Ministero il programma triennale che consentirà di quantificare la disponibilità delle risorse assegnate. Da questo programma sapremo quante assunzioni sarà possibile fare in tutti i settori dell'Ateneo. C'è poi da definire l'offerta formativa per il prossimo biennio». Tra gli impegni ravvicinati entro aprile la definizione dei dirigenti amministrativi: verso la conferma al vertice l'attuale direttore Fabrizio Cherchi, da fare quindici nomine. Sempre in tema di nomine c'è da assegnare il prestigioso incarico di manager della nuova Asl che nascerà al Policlinico grazie all'intesa Università-Regione siglata di recente. E ancora il varo delle tre nuove facoltà, da tempo attese e oggi in dirittura finale: Architettura, Biologia e Psicologia che dovrebbero partire nel 2006. Infine i progetti con le imprese sul territorio. C. F.
 
 
3 – L’Unione Sarda
Pagina 20 – Cagliari
La Sardegna sbarca in Antartide
I geologi di Ingegneria preparano una spedizione scientifica
Primo appunto sulla lista di viaggio: ricordarsi i mutandoni. Non quelli di lana: va bene che è la prima volta dei sardi in Antartide, ma quanto ad equipaggiamento e tecnologia il livello sarà da professionisti, mica da debuttanti allo sbaraglio. I mutandoni sono semplicemente le guaine per proteggere i sensori dal gelo. A chiamarli così, per brevità, è il professor Gaetano Ranieri, il docente di Ingegneria del Territorio che ha pensato, voluto e ottenuto il battesimo dei ghiacci per l'Università di Cagliari. Lui seguirà l'impresa da una base in Argentina, dove elaborerà i dati in arrivo dal Polo Sud. A scarpinare sul pack sarà il geologo Stefano Andrissi, dottore di ricerca in Ingegneria del sottosuolo. È l'uomo giusto, garantisce il professore, e non solo perché è specializzato in meteorologia alpina e nivologia, ma anche perché da buon veneto è appassionato di montagna e sport invernali: «Ha fatto venire la bronchite a mezzo dipartimento trascinandoci in escursione ovunque nevicasse». Se gli piace il freddo avrà di che sfogarsi. Ma non è per far cavare un gusto al pur eccellente nivologo che l'Università tra otto mesi spedirà al Polo Sud via Nuova Zelanda la sua rappresentanza (è della partita anche il professor Gian Piero Deidda, sardo di Jerzu, oltre alla dottoressa Adele Manzella del Cnr di Pisa). Gli obiettivi sono due, uno scientifico e l'altro, diciamo così, di prestigio accademico. Il secondo è evidente: con la spedizione d'autunno Cagliari entrerà nel club ristretto degli atenei italiani che hanno fatto ricerca sul campo in Antartide: Milano, Genova, Siena, Roma e Trieste. Quanto al lavoro scientifico, si tratta di indagare il suolo imprigionato sotto lo strato di ghiaccio che si è accumulato in milioni di anni fino a raggiungere uno spessore che va dai due ai quattro chilometri. Ma quello che i ricercatori cagliaritani vorrebbero trovare ed esplorare è un elemento denso di informazioni quanto di fascino: l'acqua fossile. Per intendersi: nessuno si stupisce se sente parlare di un lago sotterraneo; l'acqua fossile sarebbe un lago sotto il ghiaccio. Ce n'è uno che si chiama Vostok, vicino a una base russa che si chiama allo stesso modo, che misura 270 chilometri per 50. Uno specchio d'acqua lungo quanto la Sardegna e largo la metà che se ne sta da tempo immemore sotto un cielo di ghiaccio spesso tre chilometri. Una massa liquida che può nascondere un tesoro di informazioni (torna in mente la suggestiva "memoria dell'acqua" che per qualche tempo affascinò alcuni scienziati) ma forse addirittura «forme di vita sconosciute, rimaste isolate per migliaia di anni e capaci di sopravvivere in condizioni estreme». Ma quanto alle condizioni estreme, al Polo Sud non c'è bisogno di stare sotto tre chilometri di ghiaccio per sperimentarle. Se la spedizione partirà a novembre è per approfittare del bel tempo, che sarebbe il seguente: meno quaranta. Nella stagione fresca si scende a meno novanta, ma anche durante il periodo più mite il clima è tanto severo che nelle basi si deve vivere secondo una disciplina militare, o se preferite monastica, e guai a chi infrange una regola (come il divieto assoluto di muoversi da soli e non in coppia) o una regoletta. L'osservanza rigida dei protocolli è la prima norma di sicurezza in un ambiente dove anche un mal di pancia può diventare un problema solenne, dove reni e sistema di circolazione sono sottoposti a uno stress robusto. Dove tra l'altro le convenzioni internazionali vietano categoricamente di lasciare tracce permanenti, «e questo - spiega il professore - è uno dei problemi con i quali la nostra ricerca dovrà fare i conti: la seccatura sono gli elettrodi». Vediamo perché. Uno dei compiti del dottor Andrissi sarà posare sul ghiaccio dei cavi elettrici fino a formare un quadrato di ottocento metri di lato, ancorato con elettrodi che poi sarebbero dei picchetti metallici. A quel punto si fa passare la corrente e si analizzano le eventuali "correnti parassite": «Il ghiaccio è resistivo, è l'isolante perfetto, esattamente come l'acqua è conduttiva per eccellenza: analizzando la risposta individueremo la presenza dell'acqua, ma avremo modo di raccogliere informazioni sul suolo sotto il ghiaccio». Tutto molto ecologico e rispettoso, senza trivellazioni né carotaggi. Il problema degli elettrodi qual è? «Che a quelle temperature si saldano al ghiaccio, ed è vietato lasciare che del materiale estraneo all'ambiente venga inglobato». Secondo problema: l'elettronica e il gelo non vanno d'accordo. L'Università di Cagliari è proprietaria di un'apparecchiatura russa progettata per eseguire questo test (che sarebbe il sondaggio Tdem) e gradirebbe molto se dopo la spedizione continuasse a funzionare. Per questo si sta pensando ai mutandoni di cui sopra, ma nel frattempo si sta preparando una prova generale - a maggio - su un ghiacciaio italiano. Un altro test fondamentale sarà quello sulle condizioni fisiche di Andrissi: «Più o meno le prove alle quali viene sottoposto un aspirante astronauta. Diciamo che il nostro geologo ci guadagnerà un check-in completo». Ma anche la possibilità di diventare il più estremo ambasciatore del made in Sardinia. Nessuno dice che debba mettersi la giacca di orbace per fare pubblicità ai tessuti dell'Isola, ma per qualunque prodotto o accessorio essere esposto al gelo dell'Antartide sarebbe un certificato di garanzia impareggiabile. Quanto può valere un «Acquavite tal dei tali, scalda anche a -40»? Ci pensi, dottore.
Celestino Tabasso
 
la curiosità Sul Polo il test fatto al Poetto
«Osservazioni nivometeo sul Gennargentu - principali caratteristiche geomorfologiche, climatiche e nivologiche». Si intitola così una delle pubblicazioni di Stefano Andrissi, eppure ad onta delle sue competenze in fatto di nivologia, il sistema di rilevazione che applicherà ai ghiacci dell'Antartide ha avuto - almeno in Sardegna - un collaudo tutto balneare. Si tratta della "Tac elettrica e di polarizzazione indotta" usata al Poetto per accertare la "resistività" che rivela il contenuto di sali e, dunque, di sabbia. Il professor Ranieri si servì di questo sistema, applicandolo al tratto di spiaggia tra il bar Il Nilo e il vecchio ospedale Marino per accertare che sotto il grigiore sassoso del ripascimento c'è la vera sabbia del Poetto, quella bianca e fine. Ranieri ha fatto parte di un'équipe che ha effettuato un ripascimento in Spagna, ha effettuato ricerche nel deserto del Gobi, in Mongolia, e in Africa, ha lavorato in altri atenei italiani. Ora Andrissi porterà la strumentazione dal bianco dimenticato della spiaggia cagliaritana a quello assoluto del Polo. Ma l'equipe cagliaritana effettuerà anche un secondo esame il test magnetotellurico: si tratta di un esame che sfrutta e misura gli effetti delle tempeste solari, misurando le correnti parassite che ne derivano e disegnando in base a queste le caratteristiche del sottosuolo, fino a cento chilometri di profondità. La ricerca della squadra schierata dall'ateneo di Cagliari consentirà di esplorare un "corridoio" lungo 500 chilometri e largo 50 attraverso il bacino di Wilkes, nella parte orientale del continente antartico, e oltre al lavoro a terra si avvarrà anche delle rilevazioni in volo, grazie agli strumenti di cui saranno dotati alcuni aerei Twin Otter.
 
 
4 – L’Unione Sarda
Pagina 41 – Olbia
Trasporti. Dal primo aprile, il pullman dell'Arst cesserà le corse a favore del treno
La Regione lascia a terra gli studenti
Soppressa la linea Olbia-Sassari, i pendolari in rivolta
Qualcuno si è lamentato con gli autisti, qualcun altro ha pensato di fare pure una raccolta di firme, ma non c'è niente da fare: dal primo aprile la linea Arst che collega Olbia con Sassari verrà soppressa. «Non possiamo fare niente ? dice Flavio Demartis, direttore generale dell'Arst ? dobbiamo eseguire una disposizione della Regione». A questo si aggiunge anche la soppressione della linea che collega il capoluogo di provincia con l'Isola Bianca, in concessione alle Ferrovie della Sardegna. Il tutto per far risparmiare alle casse della Regione poco più di 300 mila euro, «che potranno essere destinati ad altri interventi nel settore del trasporto pubblico locale», si legge nella nota che il 17 marzo è stata spedita dall'assessorato regionale dei Trasporti alle sedi Arst interessate alle variazioni. «Questi tagli rientrano nella riorganizzazione dell'Azienda ? spiega Demartis ? sono state soppresse le linee poco frequentate, e non è certo il caso della tratta Olbia-Sassari, o quelle che viaggiano in sovrapposizione con Trenitalia». Una notizia di questi giorni che ha creato perplessità e disagio tra i passeggeri, ma non solo. «Da quasi dieci mesi ? spiega Giuseppe Addis, cinquant'anni, dipendente della Motorizzazione civile di Sassari ? faccio la spola tra Sassari e Olbia. Ogni mattina parto alle 6 e un quarto per arrivare in ufficio alle otto. Stesso discorso per il rientro: parto alle due per arrivare a casa verso le tre e mezza. Non sono l'unico che viaggia per raggiungere il posto di lavoro: ci sono insegnanti che vengono da Palau e diversi professionisti». Sono una ventina i pendolari che tutti i giorni si incontravano prima alla fermata dell'Arst di corso Umberto, e ora al deposito dei pullman in via Vittorio Veneto. «Ho raccolto delle firme ? dice Addis ? che manderò in assessorato per dimostrare che questa linea ha ragione di esistere. Se dal primo aprile la linea dovesse essere soppressa come potremmo raggiungere il nostro posto di lavoro? L'utilizzo del mezzo privato farebbe costa troppo». L'abbonamento settimanale (dodici tratte) costa 53 euro, una cifra ragionevole. «Si registrano dei picchi di presenze durante il fine settimana e il lunedì», precisa il responsabile Arst dell'agenzia olbiese, Vanni Cossu. Sono numerosi infatti gli studenti universitari galluresi. «È assurdo ? dice Lucia Amico, 26 anni, neo laureata olbiese che tuttora vive a Sassari ? che ci tolgano anche questo pullman: solo un mese fa è stata eliminata anche la linea della Nuragica Tour, che ci portava sino all'aeroporto Costa Smeralda. Diventa quindi impossibile raggiungere in tempi accettabili il capoluogo sassarese, ma anche rientrare a casa». Effettivamente non mancano certo i treni per andare a Sassari. Il primo parte da Olbia alle 6,34 e arriva a destinazione (ritardi a parte) dopo due ore. Seguono gli altri alle 9,17, 14,08 e 20,17. «In qualsiasi caso, troppo tardi per andare a lavoro», sottolinea Addis. Tra i tagli voluti dalla Regione rientra anche quello alle Ferrovie dello Stato. «Dal primo aprile cesserà la linea Sassari-Oschiri-Olbia-Isola Bianca in concessione alle Fds. Alla ditta Turmotravel è attribuito il collegamento dedicato con lo scalo portuale di Olbia», si legge sempre nella nota dell'assessorato Regionale dei Trasporti. «La ditta privata andrà a sostituire il servizio delle Fds, ma sarà comunque vincolato all'arrivo delle navi all'Isola Bianca», spiega Flavio Demartis. «Risparmiare per spendere di più», lamenta Masino Fresi, coordinatore territoriale Fit-Cisl ma anche autista Arst. «Si taglia una linea che ha da sempre avuto successo e che viene sfruttata dall'Azienda per portare i mezzi nell'officina sassarese». Nel deposito di Olbia, infatti, ci sono solo due meccanici che possono garantire solo la manutenzione ordinaria, gli altri lavori vengono invece eseguiti nell'officina di Sassari. «In questi anni sono state distribuite troppe concessioni di linee: come associazione di categoria siamo favorevoli a un ridimensionamento, là dove si rende necessario. In questo caso si tratta di tagli ingiusti che metteranno a rischio i posti di lavoro. Da anni sono state bloccate le assunzioni a tempo indeterminato: i pensionati non vengono sostituiti, con un'evidente riduzione dei posti di lavoro». Antonella Manca
 
 
5 – La Nuova Sardegna
Pagina 4 - Cagliari
Il professore è contro i sindaci
Cancedda: «Sui cavallini della Giara dicono troppe bugie»
«Assurda l’idea dell’ippovia: metterebbe in crisi una specie unica»
 TUILI. Guai a toccargli i cavallini della Giara e guai anche a contraddirlo («menzogne», dice) sulla loro condizione. Mario Cancedda, docente di Biologia animale della facoltà di Veterinaria di Sassari, tornato in trincea sui problemi de is cuaddeddus dopo un anno e mezzo di assenza per problemi di salute, ce l’ha con il sindaco di Gesturi, Vanduccio Mura, e con il presidente della XXV Comunità montana “Sa Jara”, Raffaele Sanna, che a suo dire nasconderebbero molte verità sui cavallini.
 Mario Cancedda, cittadino di Tuili profondo conoscitore fin da ragazzino dei cavallini selvatici tanto da diventarne uno strenuo paladino, è un fiume in piena contro gli amministratori dei tre comuni (Gesturi, Tuili e Setzu) proprietari territorialmente della Giara. A scatenare le ire del padre putativo de is cuaddeddus, una volta tornato in salute, è stata la decisione del comune di Gesturi di realizzare un progetto di ippovia sulla Giara, ovvero portare i turisti in groppa a cavalli addomesticati in mezzo ai cavallini selvatici.
 «Un’idea folle», l’ha giudicata da subito Mario Cancedda, «sarebbe compromessa in maniera irrimediabile la tranquillità dei cavallini, qualunque turbativa proveniente dall’esterno causerebbe grossi problemi a questi animali che hanno sempre vissuto isolati e timorosi dell’uomo».
 Tanta è la rabbia del docente universitario che non ha esitato a inviare esposti alla procura della Repubblica di Cagliari e alla Corte dei Conti, nonchè al presidente della Regione Soru e ai vari assessori competenti, per segnalare eventuali ipotesi di reato nel progetto di ippovia dato che i cavallini sono per legge una specie protetta.
 La reazione del sindaco di Gesturi è stata veemente e le sue dichiarazioni, riportate sulla stamap, hanno ancor più indispettito il paladino de is cuaddeddus. Cancedda adesso attacca anche su altri fronti pur di difenderli in tutto e per tutto. «Ma cosa è questa storia che sulla Giara ci sarebbero ottocento cavallini - incalza Cancedda -, come va dicendo il sindaco di Gesturi, o settecento, come invece sostiene il presidente della XXV Comunità montana “Sa Jara” Raffaele Sanna. Sono molti di meno, forse nemmeno la metà. Con questi dati non è che si staino frodando le comunità locali e quella regionale?». Inutile cercare di capire a cosa si riferisca questa presunta frode. Forse nel far credere che i cavallini stanno bene e che si stanno regolarmente moltiplicando dopo essere esistita per qualche tempo la possibilità (e il timore) per l’estinzione della razza a causa dell’abbandono in cui erano stati lasciati i caratteristici pony?
 «Se vogliono far credere che sulla Giara va tutto bene - prosegue Cancedda -, lancio una proposta al sindaco di Gesturi e alla Comunità montana: si istituisca una commissione per contare quanti effettivamente sono i cavallini e si includa nella commissione anche la mia persona. Andiamo assieme a verificarne il numero, si vedrà così che i cavallini sono molti meno di quanto si vuol far credere».
 Va giù duro il protettore dei caudedddus nei confronti degli amministratori locali della Giara. «I dati in mio possesso non li ho ancora ufficializzati, ma riserveranno grosse e amare sorprese. Non si può continuare a imbrogliare e turlupinare le popolazioni. Capisco che a breve ci saranno le elezioni comunali e provinciali e qualcuno sarà Farsi propaganda a spese dei cavallini non va bene, e non va neppure bene annunciare progetti di ippovia che, lo dico già adesso, ostacolerò con tutti i mezzi consentiti.
Luciano Onnis
 
 
6 – La Nuova Sardegna
Pagina 9 - Cagliari
Ostetricia del Sirai, applausi dagli Usa
Uno studio del dipartimento è stato pubblicato su una delle più prestigiose (e famose) riviste mediche
 CARBONIA.«Le sono sinceramente grato di avermi offerto la possibilità di leggere il suo studio, che considero un mirabile esempio di alta qualità nella ricerca realizzata in ambito clinico». Così Tomas Ganz, direttore del Blood Journal, rivista dell’American Society of Hematology di Washington, una delle più prestigiose del globo, ha annunciato l’avvenuta pubblicazione di uno studio del Department of Obstetrics and Gynecology, Sirai Hospital, Carbonia, Italy.
 Lo studio che appare sulle pagine della pubblicazione medica statunitense (i cui articoli attribuiscono all’autore un punteggio fra i più alti nell’ambito dei titoli professionali) si intitola «I livelli dell’emoglobina correlati ai livelli dell’interleuchina-6 nei pazienti con tumore dell’ovario non trattato ed in stato avanzato: il ruolo dell’infiammazione nell’anemia cancro-correlata». Un lavoro che Antonio Macciò, primario di Ostetricia e Ginecologia del Sirai ha condotto in particolare con Daniela Massa e Maria Cristina Mudu, del servizio di oncologia medica dell’ospedale di Carbonia, al quale hanno collaborato anche i professori Giovanni Mantovani, direttore della clinica di Oncologia Medica, e Gian Benedetto Melis, direttore della clinica di Ostetricia e Ginecologia, entrambi dell’università di Cagliari. Al lavoro hanno partecipato, inoltre, i dottori Clelia Madeddu, Maria R. Lusso, Giulia Gramignano, Roberto Serpe. Dello studio è pubblicata una sintesi sui siti web del Blood Journal (alla pagina http://www.bloodjournal.org/cgi/content/ abstract/2005-01-0160v1) e del National Center of Biotechnology Information (alla pagina www.ncbi.nlm.nih.gov/entrez/query.fcgi?cmd= Retrieve&db= pubmed&dopt= Abstract&list - uids=15774616). Sono diversi gli studi nei quali Antonio Macciò appare all’interno di èquipe condotte dal professor Mantovani, pubblicati su riviste importanti a livello internazionale, come”Cancer Epidemiology Biomarkers & Prevention”, il Journal of Molecular Medicine, l’Expert Review of Anticancer Therapy, l’International Journal of Cancer, Drugs, il Journal of Immunotherapy, Gynecologic Oncology. «Nello studio - spiega il primario di Ostetricia e Ginecologia - abbiamo posto in primo piano alcune evidenze relative al tumore dell’ovario, ma da tempo stiamo lavorando sul ruolo dell’infiammazione nell’anemia correlata ai tumori. Un dato clinico che noi crediamo non sia da riferire all’effetto delle terapie ma sia conseguenza del tumore stesso e che, quindi, in tale quadro debba essere affrontato».
Giovanni Di Pasquale
 
 
7 – La Nuova Sardegna
Pagina 46 - Cultura e Spettacoli
Aveva 83 anni, era la moglie di uno dei più fermi oppositori del fascismo divenuto poi politico di primo piano
Dal Dodecanneso a Tavolara
E’ morta Bianca Sotgiu, intellettuale e scrittrice appassionata
MANLIO BRIGAGLIA
E’ morta ieri mattina all’alba, nella sua casa di Cagliari, Bianca Sotgiu. Aveva appena compiuto ottantatré anni. Di nascita, in realtà, si chiamava Ripepi: ma dalle lunghe battaglie combattute insieme con il marito Girolamo sin dai tempi della guerra aveva conservato l’abitudine di farsi chiamare col cognome che aveva aggiunto al suo sposandosi. Si erano sposati a Rodi, il 1º maggio del ’43. Calabrese di nascita, a Rodi (allora colonia italiana) l’aveva portata il suo diploma di maestra elementare: e lì aveva conosciuto Girolamo, che c’era andato da professore, anche se per il suo antifascismo era stato spesso espulso dalla scuola.
 Lì li sorpresero le drammatiche vicende dell’armistizio e dell’occupazione tedesca (e del lavoro clandestino in aiuto dei molti ebrei dell’isola): quando era riuscita a far uscire dal carcere il marito, che era stato arrestato e aveva rischiato la fucilazione, nel gennaio del ’45 erano avventurosamente riparati in Turchia e di qui, a distanza di qualche mese uno dall’altro, erano riusciti a tornare in Italia.
 All’approssimarsi del referendum istituzionale, Velio Spano aveva chiamato Girolamo, che si era iscritto al Partito comunista, ad aiutarlo nel lavoro di propaganda in Sardegna. Vi sarebbe rimasto fino al 1955, quando sarebbe stato richiamato a Roma per far parte della Commissione cultura del Pci. In Sardegna aveva diretto la Cgil ed era stato segretario della Federazione di Sassari.
 Bianca lo aveva seguito con i primi due figli, Federica (nata a Rodi) e Antonello (nato nel breve soggiorno in Turchia), e, pur continuando il suo lavoro di maestra, si era impegnata nella lotta politica. Nel marzo 1950 era stata arrestata a Bono, nel pieno delle lotte contadine per le terre incolte: condannata con la condizionale dopo il carcere, era stata sospesa dall’insegnamento per due anni.
 Nel 1956 Girolamo e Bianca (intanto era nata la terza figlia, Donatella) erano rientrati definitivamente in Sardegna: negli «anni della Rinascita» Girolamo sarebbe stato per diverse legislature consigliere regionale e quindi senatore della Repubblica.
 Dopo la lunga carriera politica, era diventato professore di Storia moderna nell’università di Cagliari (fu anche preside della facoltà di scienze politiche). Di quel suo infaticabile lavoro restano i cinque volumi laterziani della «Storia della Sardegna moderna» e la collezione della rivista «Archivio sardo del movimento operaio, contadino e autonomistico», in cui si sono formati molti degli storici modernisti e contemporaneisti che insegnano oggi nelle due università sarde.
 Morendo improvvisamente, nel 1998, Girolamo aveva chiesto che le sue ceneri potessero tornare a Tavolara, diventata negli anni per lui e per Bianca una sorta di Itaca, la tappa finale di un lungo viaggio attraverso il Mediterraneo. «Da Rodi a Tavolara» è intitolata la bella autobiografia in cui Bianca ha raccontato, tre anni fa, il mezzo secolo e più del loro amore e delle loro lotte comuni: il libro, pubblicato dalla cagliaritana AM&D, aveva avuto l’anno scorso il prestigioso Premio Iglesias. Bianca era venuta a riceverlo, un po’ più curva di quanto la sua stessa età richiedesse: era già malata, ma noi amici non lo sapevamo, anzi pensavamo che quella donna delicata, coraggiosa e forte non sarebbe morta mai. Ora tornerà anche lei a Tavolara, per sempre.
 
 
8 – La Nuova Sardegna
Pagina 47 - Cultura e Spettacoli
Cargeghe laboratorio di cultura
Dibattito su giovani e letteratura, da Harry Potter alle lettere di Gramsci
A giugno il paese ospiterà la fiera del libro per ragazzi
Il libro come strumento di crescita intellettuale e momento di svago, serbatoio di scoperte sempre nuove e antiche magie. Si è parlato di letteratura per l’infanzia nell’incontro dal titolo «Da Gramsci ad Harry Potter» che si è tenuto nei giorni scorsi nella sala conferenze del centro culturale di Cargeghe. Tra i relatori Pino Boero, preside della facoltà di scienze della formazione dell’università di Genova, esperto di letteratura per l’infanzia, e Antoni Arca, docente di letterature giovanili e processi educativi presso l’università di Sassari.
 Il dibattito, organizzato dalla biblioteca di Sardegna e dall’associazione Coilibrì, è nato con l’obiettivo di indirizzare l’attenzione dei più giovani sul tema della lettura. La serata, coordinata dal giornalista Corrado Piana, ha coinvolto numerosi studenti in un affascinante racconto che passando per i racconti di Salgari e le lettere del carcere di Gramsci è giunto alle anglosassoni atmosfere di Harry Potter. «C’è bisogno di fantasia, una forza magica che possiedono gli scrittori. Come Salgari ad esempio - dice Boero - che ha raccontato nei suoi libri avventure svolte nei paesi più lontani senza essersi mai spostato dalla sua casa». Lo studioso nel suo intervento ha poi elencato i numerosi punti di contatto esistenti tra un libro di avventura e un videogioco. «Ogni eroe che si rispetti - spiega Boero - incontra diversi livelli di difficoltà sul suo percorso, le vittorie sono un po’ come i bonus dei games della playstation». Esempi semplici, che fanno entrare il concetto di libro nello spazio dei ragazzi dedicato al tempo libero, trasformandolo da supporto didattico in strumento di svago. «Bisogna credere nella lettura e farla conoscere attraverso percorsi sempre nuovi - aggiunge Arca - Il nostro obiettivo per i prossimi mesi sarà quello di creare nuovi momenti di incontro con i più giovani, attraverso laboratori incentrati sulla lettura». Cargeghe ospiterà inoltre il prossimo giugno, in coincidenza con l’inaugurazione ufficiale della biblioteca di Sardegna, la «Fiera del libro per ragazzi», che si prospetta come un importante veicolo di promozione dell’editoria in ambito nazionale.
 Altri importanti collegamenti tra lettura e letteratura, racconto, storia e fantasia sono stati illustrati nel corso della serata da Arca che ha presentato due suoi recenti libri indirizzati ai più giovani. Il primo, «Sardegna, infanzia e letteratura oltre le sbarre», edito da Condaghes, analizza la figura di Antonio Gramsci animatore alla lettura attraverso le “lettere dal carcere”. Il secondo «Carezze, brividi e Harry Potter», scritto insieme con Ester Pinna e Giovanna Pisano, rappresenta la prima produzione saggistica dell’associazione Coilibrì nata in seguito ad alcuni laboratori di lettura e scrittura attiva, promossi dall’università di Sassari e realizzati presso la libreria Koinè. Il nuovo volume si presenta come una sorta di guida per i giovani lettori che vogliano imparare a distinguere la lettura di taglio industriale, che crea «discepoli omologati, compatti e permeabili», dalla letteratura costruita su fondamenta profonde e semplici fatte di intelligenza onestà e poesia. (mo.de.m.)
 
 
9 – Corriere della sera
Ricerca e biotech, la strategia di De Maio «Una rete di geni per le scienze della vita» Il coordinatore regionale: meno burocrazia e più fondi per l’apertura di nuovi centri «E’ importante l’asse tra università e industria. Richiamerò cervelli anche dall’estero»
DAL NOSTRO INVIATO

NIZZA MONFERRATO (Asti) - Una pausa all’indomani della nomina a coordinatore regionale della ricerca. Tra le verdi colline del Monferrato, nella casa di campagna all’ombra di un noce troppo alto. Adriano De Maio, classe 1941, ex rettore del Politecnico di Milano, attuale «Magnifico» dell’Università Luiss di Roma, si gode pochi giorni di riposo. Tra passeggiate in giardino e letture davanti al caminetto.
Il nuovo incarico ricevuto dal Pirellone significherà il suo ritorno a tempo pieno nell’amata Lombardia. Un sogno che si realizza. Per il piacere di stare a casa, ma anche per il lavoro che lo aspetta.
Sarà il supermanager regionale responsabile di un «nucleo di progetto» che coinvolgerà gli studiosi della biomedicina e delle innovazioni tecnologiche, per la definizione di una strategia di sviluppo della ricerca sul territorio.
Quando comincia?
«Già fatto. Non vedevo l’ora di dedicarmi al progetto».
Perché proprio lei?
«L’incarico è la naturale evoluzione di un lavoro cominciato nel 1996, quando fui nominato presidente dell’Irer, Istituto regionale per la ricerca: l’ente aiuta la giunta a individuare i settori più interessanti per i finanziamenti».
In che cosa consiste il progetto?
«E’ piuttosto complesso. Si divide, infatti, in diverse fasi».
La prima.
«Selezionare i settori dove conviene fare ricerca».
Vale a dire?
«Significa individuare i progetti più coerenti in un contesto internazionale, che offrono prospettive di sviluppo e di applicazione concreta».
Un esempio.
«In generale, le scienze della vita: dall’ingegneria tessutale, quella che ricostruisce pezzi del corpo, alla farmaceutica, allo studio di nuovi materiali. Poi la neuroscienza, la proteomica, la genomica. Scendendo nello specifico, credo che l’Alzheimer sia una di quelle malattie che meriterebbero grande impiego di risorse. Altrimenti in futuro potremmo correre il rischio di ritrovarci fisicamente belli e robusti, ma fuori uso a livello di cervello».
La seconda fase.
«Una volta selezionati i settori e i campi di applicazione, fare in modo di concentrare le risorse. Gli investimenti nella ricerca, si sa, sono scarsi in Italia. Quel poco che abbiamo è necessario far sì che venga utilizzato nella maniera più efficace. Questo implica anche un modo di gestione intelligente. Inutile, per esempio, spendere soldi in un progetto se non viene superata la massa critica, cioè quel livello tale affinché ci sia un risultato utile. La seconda fase comporta anche la creazione di una rete di collegamento dei centri di ricerca tra loro e con il sistema produttivo. Se in due posti si lavora sul medesimo progetto, perché non metterli insieme? Non soltanto in via telematica, ma anche materialmente. Poi scatta la terza parte».
Cioè?
«Richiamare sul territorio le risorse più importanti: soldi e cervelli. Elementi che oggi sono sempre più carenti. Ebbene, io dico che è inutile piangerci addosso. Cerchiamo invece di attrarli: italiani e anche stranieri».
E come si fa?
«Migliorando la qualità della ricerca. Per questo occorre concentrare le risorse in maniera da raggiungere risultati. Diventare bravi, accogliere centri di eccellenza, è infatti una condizione per attirare soldi e cervelli. Ma non è tutto».
Che altro?
«Occorre introdurre facilitazioni per l’apertura di centri di ricerca: in pratica, meno burocrazia. E poi ci vogliono le agevolazioni fiscali. Finora i centri di ricerca hanno pagato addirittura l’Irap».
Qual è il suo modello?
«Non ce n’è uno esattamente. Ma ho tanti ricordi dei tempi dell’Università. Penso spesso a quando ero al quarto anno del Politecnico, mi sono laureato in ingegneria elettronica. Allora Giulio Natta vinse il premio Nobel per la chimica: aveva inventato la plastica. Insomma, quelli erano anni in cui Università e industria erano collegate. Adesso le cose sono cambiate».
E poi?
«Fare i ricercatori in Italia è diventato quasi svilente. I cervelli scappano, non solo per una questione di soldi, ma anche per un fatto culturale. All’estero hanno più libertà e autonomia: ricevono i budget e poi rispondono dei risultati».
Quindi?
Bisogna intervenire collegando i centri di ricerca alle attività produttive e restituendo dignità ai ricercatori».
Quali risultati si aspetta?
«Credo nel mio progetto, perché mi sono sempre occupato di strategie aziendali e di gestione dell’innovazione, nonostante la laurea in ingegneria».
Bisogna fare ricerca soltanto se conviene, dunque?
«No. Dico che abbiamo bisogno di ricerca pura, ricerca applicata e sviluppo. L’una non può esistere senza l’altra».
Non pensa ai soldi?
«Certo. Sono necessari. Ora si stanno definendo i fondi regionali per il nostro progetto. Dovrebbero essere potenziati. Poi arriveranno quelli del Miur e del Cnr».
E se dovesse cambiare la giunta?
«Vedremo. Ma sono fiducioso: la ricerca non è né di destra né di sinistra».
gmottola@corriere.it
Grazia Maria Mottola
 
L’incarico
Il professor Adriano De Maio è stato chiamato dall’assessore regionale alla Sanità, Carlo Borsani, a dirigere il «nucleo di progetto» che coordinerà i diversi ricercatori della biomedicina e della ricerca scientifica che operano in Lombardia per definire comuni progetti di ricerca e condivisione dei risultati. I rappresentanti di 20 istituzioni impegnate in Lombardia, tra cui gli Irccs, l’Università statale (facoltà di Medicina e Farmacia), il Mario Negri, il Cnr, l’Irer, Farmindustria e altri, lavoreranno nello sviluppo del progetto
assieme ai ricercatori che operano nel sistema sanitario lombardo.
 
Chi è
Nasce a Biella nel 1941. Si laurea in ingegneria al Politecnico di Milano nel 1964. Nel periodo 1970-71 è stato membro del gruppo di studio che ha definito gli orientamenti per l’attivazione del corso di laurea in ingegneria gestionale. E’ stato tra i fondatori del programma Mip del Politecnico di Milano, membro del relativo consiglio di amministrazione e docente fino al 1994. Nel 1990 viene nominato pro-rettore vicario al Politecnico; nel 1994 diventa rettore, ricoprendo l’incarico fino al 2002. Oggi è rettore dell’Università Luiss Guido Carli. La scadenza del mandato è prevista per il prossimo 31 ottobre
 
 
10 -  Corriere della sera
«Studio all’università ma vivo da clochard» Storia di Mario, 46 anni, ex operaio dell’Autobianchi. Iscritto alla Cattolica, di notte dorme in strada
Secondo tavolo a sinistra, sala cataloghi della biblioteca centrale. Mario è lì ogni mattina. Alle nove in punto è già sotto i portici della Cattolica, attraversa di corsa il chiostro e raggiunge il «suo» tavolo di studio. Con sé ha un sacco a pelo e una borsa di tela da cui non si separa mai, uno spazzolino da denti e un asciugamano infilati tra gli appunti e le dispense di diritto penale. In questi giorni non si stacca dai libri neanche per mangiare, sta preparando l'esame di psicopatologia e vuole passarlo al primo colpo. Esce dall'università solo la sera, quando il guardiano chiude i cancelli. Allora si infila nella galleria dietro piazza Sant'Ambrogio e si prepara per la notte. Stende a terra i cartoni dell'Ikea che gli fanno da letto e si raggomitola nel sacco a pelo fino al mattino.
Per tutti, alla Cattolica, è «il Mario», il clochard che studia per diventare avvocato. Chi lo chiama così, però, lo fa arrabbiare. «Sono una persona normale - spiega -, ho solo qualche problema in più degli altri. Sono uno studente fuori corso che si arrangia per arrivare alla laurea, come fanno tutti». Apre il libretto e snocciola ad alta voce i voti dei suoi otto esami: «Medicina legale 30, psicologia generale 27, istituzioni di diritto romano 26, economia politica 24... Me ne mancano ancora 16 e potrò indossare la toga».
Quarantasei anni, magro, il viso scavato e stanco, Mario parla malvolentieri dell'altra metà della sua vita, fatta di notti gelide e pasti frugali consumati sul marciapiede. Racconta con pudore la sua storia, uguale e diversa allo stesso tempo da quelle dei tanti senzatetto che abitano le strade di Milano. «Fino a sette anni fa ho vissuto in Brianza con mia madre - dice -. Per tredici anni ho lavorato: muratore, vetraio, poi metalmeccanico all'Autobianchi di Desio. Quando la fabbrica ha chiuso mi sono messo in proprio come idraulico».
Nel '97, la crisi: Mario sta male, rompe con la famiglia e perde il lavoro. È in cura da medici e psichiatri, gli viene diagnosticata una malattia cronica allo stomaco.
Il parroco del Fatebenefratelli gli offre uno stanzino per trascorrere la notte. Passa così un anno e mezzo. Nel 2000, però, è di nuovo in strada. Ed è qui che il copione di una vita che sembra già scritta cambia all'improvviso e sorprende tutti. Mario si iscrive alla facoltà di giurisprudenza, vuole diventare avvocato per occuparsi di problemi sociali, per aiutare chi non ha la possibilità di difendersi «contro i tanti barlafus che ci circondano».
Paga la retta universitaria grazie ai soldi che la madre gli passa ogni due mesi. Preferisce usarli per studiare piuttosto che spenderli per un posto letto. Per il resto si arrangia: chi lo conosce gli regala un po' di cibo, un maglione, una coperta.
I compagni di facoltà, i bibliotecari e i professori, tutti lo rispettano e cercano di dargli una mano. Anche se lui è schivo, fa di tutto per non chiedere aiuto.
«È un anno che cerchiamo di regalargli un paio di scarpe nuove - spiega una studentessa in sala consultazione - ma non c'è verso di fargliele accettare». Perché nella lotta tra libertà ed emarginazione che Mario combatte da una vita, le necessità della sopravvivenza non possono cancellare tutto il resto. È lui stesso a spiegarlo quando racconta delle sue «visioni» notturne, delle donne della Caritas e delle altre associazioni di volontariato che compaiono all’improvviso, con coperte e borse ricolme di frutta e panini.
«Guardo queste ragazze come apparizioni - dice stringendosi nel maglione sfilacciato -. Ma poi non oso accettare nulla da loro, mi sembrerebbe di mangiare un frutto proibito». La vita per strada è dura. Un mese fa, un clochard è stato trovato morto all'ippodromo, stroncato dalle temperature polari. Ma anche adesso che l'inverno è alle spalle, al mattino, Mario arriva in università con le ossa rotte e le mani segnate dal freddo.
«Ma in Cattolica non c'è problema - scherza -: metto le mani sotto l'acqua calda e riprendono sensibilità. Questo è uno dei motivi per i quali l'ho preferita alla Statale. Lì, nei bagni, c'è solo l'acqua fredda». E poi sbotta: «Io devo studiare, non ho mica tempo di fare il barbone. Girare per Milano con la cartina in mano per finire a fare la coda davanti alla Caritas, magari per un piatto di minestra. Piatti caldi, posti caldi, letti caldi. È sempre la solita filastrocca. Non me ne frega niente».
La voce si fa dura, quasi sprezzante. «Se ti ammali, perdi il lavoro e resti solo non importa niente a nessuno. Lasciano che succeda, giorno dopo giorno. Poi, quando finalmente sei diventato un disperato a tutti gli effetti ti offrono un thermos di caffè. Lo conservino per chi ne ha bisogno».
Mario sorride. Non vuole la compassione di nessuno. Difende la propria dignità con la cattiveria di chi è stato tradito troppe volte. Dal poliziotto che lo obbliga a lasciare in piena notte il suo giaciglio di stracci e cartone «perché intralcia i passanti». Dai ragazzi che la domenica, all'alba, lo svegliano a suon di calci e insulti. Da chi gli offre una scatola di biscotti e distoglie subito lo sguardo. Sono gli altri, spiega, a farlo sentire diverso. Poi, qualche volta, anche lui ha quelli che chiama «attimi di mancamento».
«Mi capita la domenica quando l'università è chiusa - racconta -. Passeggio in centro e guardo le vetrine dei negozi. Poi mi vedo riflesso sul vetro con i capelli arruffati, lo zaino sulle spalle, le scarpe bucate e tutto il resto. Per un istante penso che hanno ragione loro, quelli che mi chiamano barbone. Ma è solo un momento, per fortuna passa in fretta».
Olivia Manola
 
 
 
11 – Corriere della sera
 
Tra le Sette Opere di Misericordia Corporale raccomandate a un buon cristiano c’è la visita ai detenuti. Negli ultimi anni si moltiplicano gli sforzi e le iniziative per cambiare la percezione del mondo del carcere: non un deposito di scarti della società, da cancellare alla vista e alla mente; ma un luogo insopprimibile di questo mondo. Abitato da uomini che pagano per le proprie colpe, ma che restano uomini. Ian Buruma, scrittore e giornalista, grande esperto di Asia, lo ha scoperto accettando di tenere un corso universitario in una delle prigioni di massima sicurezza dello Stato di New York. Nell’America che dal ’94 ha eliminato i fondi federali per l’istruzione accademica ai detenuti, è un privato, Max Kenner, a realizzare un programma pilota che sta dando risultati sorprendenti per l’entusiasmo e l’impegno nello studio dimostrato dagli allievi, con effetti benefici anche per l’atmosfera generale del penitenziario. Il viaggio di Buruma tra i detenuti (che ricorda quello a San Vittore del nostro Candido Cannavò, autore del libro Libertà dietro le sbarre ) è una testimonianza di come basti poco per ridare dignità e speranza a chi vive dentro una cella.
 
SCUOLA IN CARCERE
I miei studenti assassini
di IAN BURUMA
Il carcere di massima sicurezza di Eastern, Stato di New York, ha aperto le porte a un programma pilota di istruzione universitaria per i detenuti. Lo scrittore Ian Buruma vi ha tenuto un corso sulla storia del Giappone. In una classe formata da assassini, spacciatori
di droga, rapinatori, Buruma  ha scoperto nei suoi allievi l’entusiasmo e l’impegno per  lo studio. «I miei studenti erano grati di essere trattati da adulti intelligenti. Ho visto la voglia di recuperare la dignità». Buruma racconta come i benefici dei corsi universitari si siano estesi all’atmosfera di tutto
il penitenziario, ormai ritenuto uno dei più tranquilli d’America. Intanto, ieri il New York Times ha annunciato che il Pentagono sta preparando il piano per sostituire le Commissioni
di Guantanamo con tribunali davanti ai quali saranno rafforzati i diritti degli imputati
 
***
Non c’è niente di che essere particolarmente contenti a Napanoch, ai margini trasandati del monti Catskills, un centinaio di chilometri a nord di Manhattan: i bei tempi in cui era un’abbordabile località di villeggiatura per ebrei newyorchesi e del New Jersey sono finiti da un pezzo. C’è qualche motel nelle vicinanze, con le insegne rotte e con su scritto Starlite e Eldorado, un buffet, un cimitero ebraico e una «colonia agricola» dove gli ospiti della prigione di Eastern, delinquenti ritardati mentali, furono messi a lavorare nei primi decenni del Ventesimo secolo. Un motivo, però, ci sarà se gli ospiti chiamano la prigione Happy Nap, dolce pisolino. Eastern è più rilassata di altre carceri di massima sicurezza, i «max», con meno ostilità fra personale e detenuti, e come risultato meno «episodi insoliti», tipo accoltellamenti. Nello Stato di New York, quello di Eastern è uno dei tre carceri di massima sicurezza dove ancora si può ricevere una formazione - non soltanto manuale, ma una vera e propria istruzione di livello universitario con laurea finale, grazie al sostegno economico di privati.
Una persona che si è avvalsa di un programma di istruzione di questo tipo è Mika’il DeVeaux, un magro quarantottenne nero che ha scontato venticinque anni per omicidio. DeVeaux ha studiato teologia a Sing Sing e ha preso una specializzazione in sociologia. Dopo il rilascio, nell’ottobre 2003, ha fondato con la moglie a New York un’organizzazione che ha chiamato Cittadini contro la recidività . DeVeaux ama far notare come l’istruzione carceraria riduca le possibilità che gli ex detenuti riprendano la via del crimine e della prigione. Ecco perché, secondo DeVeaux, «Eastern è il posto dove stare».
Un tempo i programmi di istruzione carceraria erano molto diffusi nelle prigioni statunitensi, soprattutto dopo la tristemente nota rivolta del carcere di Attica del 1971, che fece quarantatré morti. Fra le richieste dei detenuti c’era un miglior programma di istruzione. Richiesta accolta, non soltanto ad Attica ma nelle prigioni di tutto il Paese. Nei decenni successivi, i corsi in carcere ebbero grande sviluppo. Poi, nel 1994, con il voto che tolse i Pell Grants , le borse di studio, alle prigioni federali e statali, il Congresso abolì i corsi per detenuti finanziati a livello federale, nonostante la forte resistenza del ministero dell’Istruzione. I critici fecero notare come l’istruzione riduca enormemente la recidività e, comunque, soltanto un decimo dell’un per cento del bilancio di queste borse andava ai programmi di istruzione carceraria. Ma la senatrice Kay Bailey Hutchinson, repubblicana del Texas, sostenne che era ingiusto che se ne avvalessero i criminali quando c’erano centomila studenti a basso reddito ai quali venivano rifiutate ogni anno. Perché i carcerati dovrebbero ricevere un'istruzione gratuita quando tanta gente onesta non riesce ad avere una chance? E poi, affermò, il governo federale aveva già speso più di cento milioni di dollari per l’istruzione e per i programmi di formazione nelle carceri. Oggi, il denaro federale destinato all’istruzione carceraria va in gran parte alla formazione professionale.
Prima del 1995 negli Stati Uniti c’erano qualcosa come trecentocinquanta corsi di laurea per detenuti. Oggi sono una decina, di cui quattro nello Stato di New York.
La Bard Prison Initiative è un programma pilota di istruzione universitaria che si deve a Max Kenner. Kenner si è laureato a Bard nel 2001. Finito il college, ha passato l’estate fra una prigione e l’altra a incontrare personale e ospiti per cercare di capire di che tipo di corsi ci fosse maggior bisogno. Molti funzionari si sono dimostrati ricettivi all’idea; l’entusiasmo da parte dei detenuti è stato travolgente. E la prigione di Eastern, grazie al regime relativamente liberale voluto dal direttore David Miller, è stata la più favorevole, dichiarandosi disponibile a ospitare il programma.
Per accedere ai corsi, gli ospiti devono sottoporsi a una selezione come qualsiasi altro studente universitario: uno scritto, test a punti, risultati degli studi precedenti e un’intervista da parte di Kenner e del collega Daniel Karpowitz. «L’ammissione - ha detto Kenner - è la parte emotivamente più difficile del nostro lavoro. Le richieste arrivano anche a duecento per quindici posti. Oggi gli iscritti sono cinquanta, su una popolazione carceraria di oltre milleduecento persone».
Per parecchi anni ho insegnato a Bard. Quando ho accettato il contratto, lo scorso anno, Kenner mi ha detto che gli studenti sarebbero stati interessati alla cultura dell’Asia orientale. Così, con un certo stupore, mi sono trovato a tenere un corso di storia moderna sul Giappone. L’idea di parlare di ribellioni dei samurai, di imperialismo giapponese e dell’occupazione del generale MacArthur a uomini in carcere per traffico di droga, rapine e omicidi era certamente interessante ma allo stesso tempo intimidiva un po’. Quanto ne sapevano? Che approccio dare al materiale? Sarebbero stati tutti ricettivi? Sono entrato a Eastern in una fredda giornata di febbraio. Raffiche di nevischio rendevano la prigione, di per sé già simile a una fortezza, anche più cupa del solito. Passato dal metal detector e perquisito, ho sentito i cancelli di ferro chiudersi alle mie spalle con un tonfo. La mia «guida», responsabile dell’istruzione, era una donna cordiale di nome Teresa con l’aria sicura di un allenatore benvoluto.
La prima cosa che noti all’interno del carcere è la pulizia dei pavimenti, il che non stupisce dato che in giro ci sono uomini che lavano e lucidano tutto il giorno. Abbiamo attraversato uno stretto corridoio con righe gialle sul pavimento. Gli ospiti in divisa verde oliva salutavano Teresa con studiata cortesia. Parecchi ciechi erano accompagnati dai compagni detenuti. L’invalidità fisica ha i suoi vantaggi: le guardie mostrano un poco più di benevolenza, che è il motivo, mi ha spiegato Kenner, per cui alcuni detenuti fanno finta di essere ciechi o sordi, uno stratagemma che raramente funziona a lungo. Un giovane detenuto bianco mi ha salutato in tedesco. Ho mostrato sorpresa. «Ja - ha detto -. Sono l’unico». Poi ho sentito un odore particolare. Teresa deve aver notato i miei movimenti del naso. «Puzzole - mi ha spiegato -. Sono sotto i pavimenti».
La prima lezione l’ho tenuta negli spazi della sezione professionale, dove i detenuti sono impegnati nella lavorazione dei metalli e in altre occupazioni manuali. Il penitenziario di Eastern è molto noto perché produce collari per cani e insegne stradali. Poiché le regole del carcere vogliono che tutti gli uomini del professionale indossino scarpe da lavoro e passino dal metal detector, ai miei studenti venire lì non piaceva. Significava doversi togliere scarpe e cinture e sottoporsi a perquisizione fisica, una cosa sempre umiliante. La mia classe di nove era composta da un portoricano che era stato alla Bronx High School of Science, una delle più prestigiose scuole di New York che calamita studenti da tutti i quartieri; due veterani dell’esercito bianchi, un americano-vietnamita, quattro neri, di cui due musulmani, e un giovane bianco in carcere da quando ne aveva sedici.
Kenner e Karpowitz mi avevano assicurato che gli studenti sarebbero stati entusiasti. Era dir poco. Ma come ho avuto modo di capire nelle mie prime settimane di insegnamento, la differenza principale fra questi studenti e quelli del campus di Bard stava nella loro cortese formalità. Si rivolgevano a me chiamandomi «professore», non tanto per me, intuivo, quanto per un loro senso di amor proprio. Un po’ con condiscendenza, suppongo, mi ero aspettato che si parlasse di film di cappa e spada e di saggezza orientale. Invece, fin dall’inizio, sono piovute domande molto più sofisticate: sull’economia delle guerre dell’oppio in Cina, sulle attività criminali dei samurai disoccupati, sull’impatto delle idee occidentali sull’identità culturale giapponese. Uno dei neri musulmani, un duro newyorchese, ha citato Alexis de Tocqueville nel contesto della restaurazione Meiji. Gli studenti erano bravi, disinvolti e divertenti, e mi era impossibile non esserne affascinato. Erano anche chiaramente grati di essere in classe, dove venivano trattati da adulti intelligenti.
È facile provare un po’ di compiacimento per il fatto di trattare con queste persone, sentire solidarietà nei loro confronti contro le guardie e il resto del loro mondo che li opprime. Questo induce rapidamente al tipo di ipocrisia che qualsiasi detenuto percepisce all’istante. Una modalità osservata in prigione è che non chiedi per che cosa uno sia dentro, a meno che anche tu non sia dentro per qualcosa. Una risposta netta non ti viene data comunque. La vicedirettrice Sheryl Butler, una donna piena di brio sulla cinquantina, mi ha detto di fare a meno di sapere che crimini avessero compiuto gli studenti. «Se no, non puoi trattarli con obiettività». La stessa cosa mi ha detto Kenner. Ma non ho saputo tenere a freno la curiosità e ho guardato le sentenze sul sito web della prigione. Naturalmente, nemmeno Internet mi ha detto molto: assassino di secondo grado poteva significare rapina a mano armata, esecuzione malavitosa, omicidio della moglie. Ma mi ha aiutato a mantenere un certo senso delle proporzioni ogni volta che ero tentato di vedere i detenuti semplicemente come vittime, represse da guardie cattive.
Non sono mai stato testimone di gravi angherie, soltanto dell’imposizione di infinite regole futili. Gli studenti mantenevano una calma notevole, anche quando erano provocati. Sapevano di non avere scelta. Era sufficientemente difficile riuscire a entrare nel programma di istruzione. Una mossa falsa poteva costargli il posto nella classe. Anche a Happy Nap. È una situazione complicata. L'istruzione allarga il divario fra studenti e personale e può facilmente accrescere l’ostilità. Molti addetti non hanno avuto un’istruzione superiore e, probabilmente, neppure i loro figli l’avranno. I programmi di istruzione potrebbero però anche rendere più facile la vita del personale, perché i detenuti che ne usufruiscono sono più inclini a comportarsi come si deve.
La seconda lezione è stata sul fallimento della ribellione dei samurai negli anni 70 dell’Ottocento contro l’occidentalizzato governo Meiji, da cui prende spunto il film L’ultimo samurai . Ho citato un libro di Ivan Morris intitolato La nobiltà della sconfitta , e ho spiegato l’ammirazione che c’è in Giappone per i ribelli che muoiono per cause perse. Abbiamo discusso del raffronto fra questo ethos e la celebrazione americana del successo. Forse, ho detto un po’ scherzosamente, in America non esiste qualcosa come una sconfitta nobile. Uno dei miei studenti musulmani ha riso e ha detto: «Ce n’è piena la stanza».
Ciascuno aveva la propria storia, una storia che poteva rapidamente precipitare nella disperazione. In una calda giornata di aprile, dopo due mesi di insegnamento, ho partecipato ai festeggiamenti per l’anniversario della Bard Prison Initiative a Eastern. Un gruppo jazz di detenuti e volontari suonava in cortile mentre prigionieri in grembiule bianco servivano limonate e torte al cioccolato. Ci sono stati dei discorsi, da parte dei detenuti e del direttore Miller, che ha i modi indulgenti del direttore di banca di paese. Parole ed espressioni come «rispetto», «futuro», «miglioramento di sé» si affastellavano. Era una bella giornata di sole, ma colsi con lo sguardo uno dei miei studenti che sussurrava: «È penoso».
Le storie di sconfitta e di disperazione variano. Non puoi mai essere certo di quanto è vero e quanto no. La sua gli è uscita dalla bocca come un fiume in piena: regolarmente picchiato da un patrigno alcolizzato, buttato fuori di casa a quattordici anni, dato in adozione dove si era sentito protetto per la prima volta nella sua vita finché ha scoperto che il padre adottivo abusava sessualmente dei bambini in affidamento. Era così furibondo, diceva, che ha ucciso l’uomo con un coltello da cucina. Mi ha detto che ancora oggi diventa una furia al pensiero di uomini che abusano di donne e bambini innocenti. Da quando è in carcere, passa la maggior parte del tempo a leggere e scrivere. I libri sono la sua salvezza. Sogna di diventare un autore famoso. Ha ancora almeno dodici anni e mezzo da scontare.
Per me era ovvio, essendo un insegnante, quanto fosse preziosa l’istruzione per gli studenti: non soltanto perché sapevano ripetere praticamente qualsiasi frase dei libri e degli articoli che gli davo da leggere ma anche per il modo in cui si comportavano fra loro. La prigione alimenta il cinismo. La fiducia è spesso tradita e le amicizie si spezzano quando un prigioniero viene trasferito senza preavviso in un’altra struttura. La classe è un’eccezione. Parlavamo della storia giapponese ma anche di altre cose: un argomento tirava l’altro. Un giorno, un collega invitato a tenere una conferenza ha affrontato il tema del pan-asianismo negli anni Trenta - l’obiettivo giapponese di unire e dominare l’Asia sconfiggendo gli imperi occidentali. Il mio studente vietnamita ha fatto notare che lui era un pan-asianista «con la a minuscola» ma che in realtà era un «pan-umanista», perché «siamo tutti di un’unica razza, giusto?». Uno degli studenti neri ha sbuffato in modo bonario. Il vietnamita ha sorriso: «Lo so che abbiamo divergenze su questo».
Non ci sono molti luoghi - dentro la prigione o fuori - dove neri, asiatici, ispanici, musulmani e caucasici possano parlare di razza e di religione senza manifestare ostilità. Uno studente musulmano, un uomo grande e grosso del Bronx, ha affermato di aver incontrato poca animosità nei confronti dei musulmani in carcere. «Certo - ha commentato un altro studente -. Perché ci conosciamo uno con l’altro». L’ho trovato sorprendente: le prigioni non sono note per la tolleranza razziale o religiosa. Ma forse i miei allievi non si riferivano tanto al sistema carcerario in generale, e nemmeno agli stretti confini di Eastern, quanto semplicemente alla classe. Poi uno studente nero che era dentro per furto, è saltato su a dire: «Se non fossi stato in prigione non avrei mai incontrato dei tipi ebrei. Nella mia testa avevo tutti gli stereotipi, bassi e meschini. Ma adesso passo con un tipo ebreo la maggior parte del tempo».
Eastern è diversa. Ma perché? Perché Eastern è più ricettiva nei confronti della Bard Prison Initiative di altre prigioni dello Stato? Perché Eastern è «il posto dove stare?». Molti hanno fatto notare che «il tono viene dato dall’alto». Il direttore e la sua vice avevano iniziato la carriera come insegnanti. La vicedirettrice Butler ama parlare di Eastern come di una «comunità terapeutica». Ha passato qualche decina d’anni della sua vita in prigione. Suo figlio adesso lavora lì. Eastern è anche la sua di comunità. Un giorno che camminavamo per la prigione aveva un tono quasi nostalgico mentre mi raccontava dei fiori che aveva ricevuto dai detenuti quando era stata in ospedale per una malattia grave. Le ho chiesto delle difficoltà dei detenuti a farsi degli amici sapendo che potrebbero essere trasferiti in qualsiasi momento. Mi ha risposto che i detenuti si «attaccano molto anche ai dipendenti del carcere. Quando vanno via hanno le lacrime agli occhi. Noi li cresciamo come fossero nostri figli».
Non è il genere di cosa che ci si aspetterebbe da chi lavora nella maggior parte delle strutture di massima sicurezza. C’è una cosa che mi ha detto la vicedirettrice e che mi è rimasta in mente. Stava parlando dei benefici dell’istruzione per uomini che non usciranno mai di prigione. «Sa, se hai un cadavere - cioè un’accusa di omicidio - stai dentro a vita». E tornava continuamente su questo punto, nonostante che la maggior parte dei detenuti finisca per uscire. Era come se la Butler, in realtà, non volesse che chi le era stato affidato se ne andasse.
La Butler conosce alcuni prigionieri da molti anni. Io conoscevo i miei studenti da pochi mesi. Eppure, anche per me è stata dura andarmene. È difficile sapere che cosa pensino davvero i detenuti degli insegnanti. Noi non eravamo personale carcerario, certo, ma sempre gente dall’altra parte della barricata. Io so che cosa pensano di Max Kenner, che gli ha lanciato un’ancora quando il governo ha negato l’istruzione. È un eroe per uomini cui era rimasta poca fiducia nell’umanità, compresa la loro. Mantenere una persona in galera costa allo stato circa trentaduemila dollari l’anno. Dare a uno studente un anno di istruzione universitaria non costa alla Bard Prison Initiative più di duemila dollari.
Andando via, il mio ultimo giorno a Eastern, mi sono voltato a guardare la prigione. Lassù in alto riuscivo soltanto a intravedere una faccia, schiacciata contro le sbarre di una cella. Era il mio studente più giovane, quello che aveva ammazzato il padre adottivo. Allontanandomi, ho guardato nello specchietto dell’automobile. La sola cosa che si muoveva nella massa di mattoni e sbarre di ferro dietro di me era una pallida mano che salutava.
? Ian Buruma
(Traduzione di Monica Levy)
 
 
 
12 – Corriere della sera
LIBRI Ecco come
spiegare l’emozione
E’ arduo spiegare il libero arbitrio oppure che cosa sia l’arte. I cento miliardi di neuroni racchiusi nei nostri emisferi cerebrali offrono solo indizi alle molte domande che ci poniamo. Un nulla, però, di fronte alla ricchezza di sensazioni che ogni uomo può provare quando si innamora oppure davanti all’emozione di un ritratto. E la coscienza? Da dove arriva e come prende forma dopo alcuni nostri gesti, intenzioni o pensieri? Il cervello è davvero una macchina infernale che disarma gli scienziati dalle idee più ardite. Da troppo poco tempo, però, si studia e con mezzi ancora inadeguati. Ma un progresso c’è stato se pensiamo che in un passato anche non troppo remoto le facoltà della mente dipendevano da organi non tanto nobili come il cervello: pensieri e atteggiamenti si preferiva attribuirli alla bile piuttosto che al fegato. Oggi possiamo tracciare un bilancio interessante, anche se limitato, del funzionamento della mente e ce lo racconta Vilayanur S. Ramachandran neuroscienziato all’Università della California. (G.Cap.)
 

Questionario e social

Condividi su:
Impostazioni cookie