Lunedì 9 maggio 2005

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
09 maggio 2005

 Ufficio Stampa
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI

 
1 – L’UNIONE SARDA
Cronaca Italiana - Pagina 6
Contratto
Blair fa litigare i Ds.
Il segretario Piero Fassino dice in un'intervista che «Blair è un socialista europeo e un socialdemocratico moderno che si è misurato, e con successo, con i problemi di una società moderna e flessibile». E poi: «Blair - spiega Fassino - non ha solo detto, ma ha fatto in Gran Bretagna delle cose di sinistra che io sarei felicissimo di riuscire a realizzare anche qui. Cito per tutte una riforma del mercato del lavoro che consente di governare la flessibilità, la riforma della sanità, i fortissimi finanziamenti all'università e alla scuola». Il Correntone dei Ds non è d'accordo: «È paradossale che mentre in Inghilterra si discute apertamente sui voti persi da Blair non solo sulla guerra ma anche sulla politica sociale, i dirigenti del più grande partito di sinistra in Italia, diventino paladini del blairismo al tramonto». Lo sostiene in una nota Gloria Buffo. «Blair ha un grande futuro ormai dietro alle spalle. Non vorrei che da noi ci si appresti alla prova elettorale e di governo - conclude Buffo - con idee e politiche che perdono consensi, oltre a rendere il mondo più pericoloso».
 
2 – L’UNIONE SARDA
Cronaca Italiana - Pagina 6
Contratto
Soluzione in vista per gli statali
Roma«Ora c'è la consapevolezza di non lasciare nell'incertezza milioni di persone». Luca Volontè, capogruppo dell'Udc alla Camera, vede un clima nuovo nella maggioranza, decisa a chiudere il contratto degli statali. «Questo non vuol dire fare dei contratti con aumenti di 150 euro. L'unica soluzione, vale a dire un accordo su una cifra non esorbitante che non faccia sballare i conti, si può trovare solo dentro un quadro ampio di intesa con i sindacati: dall'avvio dei fondi pensione alla riforma degli ammortizzatori sociali». Il segretario dei Ds, Piero Fassino, invita il governo a non limitarsi agli annunci sul rinnovo del contratto e sostiene che occorre «arrivare a una conclusione positiva per i lavoratori e coerente con le esigenze dei conti pubblici». Per il ministro per le Politiche agricole, Gianni Alemanno,«la rateizzazione degli aumenti può essere un'ipotesi percorribile». Il vicepresidente di An ha sottolineato che la trattativa sul rinnovo del contratto del pubblico impiego «deve partire questa settimana, altrimenti non ci arriveremo mai».
 

3 – LA NUOVA SARDEGNA
Pagina 16 - Cronaca
Architettura, di corsa verso la facoltà 
Manca soltanto la valutazione della commissione regionale 
Si discute se avviare l’iter per allestire i corsi nella ex manifattura 
CAGLIARI. Di corsa verso l’apertura della facoltà di architettura. La speranza è concludere l’iter burocratico entro due mesi perché i corsi per l’anno accademico 2005-2006 possano cominciare a ottobre. La facoltà non ha nessuno dei problemi organizzativi di chi comincia perché da qualche anno Ingegneria ha orientato alcuni corsi verso le materie dell’architettura e dispone anche di una sede, il dipartimento omonimo di Ingegneria. Resta però in piedi l’ipotesi di trovare un’altra sede, come l’ex manifattura tabacchi.
Che cosa manca ancora per inaugurare i corsi lo ha spiegato alcuni giorni fa il rettore Pasquale Mistretta all’inaugurazione della mostra su Carlo Aymonino considerato uno dei più interessanti architetti sulla scena internazionale. Nell’incontro pubblico, il rettore ha spiegato che il nucleo di valutazione ha quasi terminato il proprio compito, poi la pratica dovrà approdare al comitato regionale, composto dai rettori delle due Università sarde, da un rappresentante degli studenti e dal presidente della Regione. E’ l’ultimo parere obbligatorio e vincolante, dopodiché Cagliari avrà la sua facoltà di Architettura. Mistretta ha aggiunto che i locali saranno gli stessi in cui ora opera il dipartimento, in via Corte d’Appello a cui si aggiungerà la ristrutturazione di una parte del Portico degli Ebrei e un’altra struttura messa a disposizione nella Facoltà di Ingegneria. «Abbiamo espletato tutte le pratiche con il ministero per ciò che riguarda l’offerta formativa - ha detto ancora Mistretta - in modo da non trovarci impreparati nel momento in cui spero si dia il via libera alla nascita della nuova facoltà. Per questo sono stati già messi a punto l’offerta formativa, ed i requisiti di docenti e studenti». Il primo corso, quinquennale, si chiamerà Architettura delle costruzioni, mentre il secondo, triennale, con l’aggiunta dei due anni di specializzazione, sarà Edilizia, invece dell’attuale Ingegneria edile. Entrambi saranno a numero chiuso per centocinquanta studenti ciascuno. «Questa scelta - ha aggiunto il rettore - deriva nel primo caso da una quota stabilita in ambito nazionale ed europeo, mentre per il triennio è stata una scelta necessaria per definire i requisiti minimi (accettazione dei corsi e risorse statali)». L’idea di fermarsi nel cuore di Castello nella suggestiva sede del dipartimento di architettura nasce dal fatto che il sistema universitario è pronto per la facoltà, mentre per arrivare a ottenere la manifattura tabacchi la procedura è lunga. Ma non si tratta di un progetto abbandonato, dipende da come crescerà Architettura.
 
4 – LA NUOVA SARDEGNA
Pagina 10 - Attualità
LA SCHEDA 
Un esercito di oltre tre milioni di persone 
ROMA. Un esercito di oltre tre milioni e mezzo di persone. Sono i dipendenti pubblici italiani, concentrati in gran parte nella scuola, settore che da solo occupa circa un terzo degli statali. Nelle aule si contano infatti oltre un milione di insegnanti, per la netta maggioranza donne (oltre 850 mila).
In base ai dati diffusi in occasione della sedicesima edizione del Forum PA, che prenderà il via oggi a Roma, la sanità è il secondo più folto comparto pubblico: il numero di dipendenti assunti a tempo indeterminato nel servizio sanitario nazionale si aggira infatti sui 692 mila. Anche in questo caso, le donne rappresentano oltre la metà dei lavoratori, con più di 400 mila persone assunte.
Alto anche il numero degli impiegati nelle regioni e nelle autonomie locali, oltre 605 mila (di cui 276 mila donne).
Il rosa scarseggia decisamente invece nella polizia e nelle forze armate. In particolare tra gli oltre 336 mila dipendenti dei corpi di polizia, le donne sono meno di 20.000, una percentuale quasi irrisoria. E lo stesso vale per le forze armate: tra 219 mila dipendenti a tempo indeterminato, le donne sono in tutta Italia appena 1.335.
Il numero dei lavoratori è piuttosto folto anche nei ministeri: nei palazzi romani lavorano infatti circa 262 mila persone (le donne sono circa la metà). A seguire ci sono le Università con circa 113 mila dipendenti, mentre gli enti di ricerca occupano poco meno di 17 mila dipendenti.
Ben più esiguo il numero degli occupati nella magistratura (circa 10.000) e soprattutto nella diplomazia. Tra diplomatici e prefetti si contano infatti 2.574 persone.
 Sommando tutti i comparti si arriva ad un totale di 3,5 milioni di statali. Ma a questi, si legge tra i dati, occorre aggiungere 300 mila rapporti di lavoro’flessibili’ (tempo determinato, collaborazione, contratti di formazione lavoro) che soddisfano spesso esigenze permanenti di personale. Oltre 100.000 persone ricoprono infine i lavori’socialmente utili’ prestando funzione presso le pubbliche amministrazioni.
 
5 – LA NUOVA SARDEGNA
Pagina 15 - Sassari
VIVERE IN CITTÀ 
Seminario «Dalla dichiarazione di Schuman al trattato che adotta una Costituzione per l’Europa», è il tema del seminario che si terrà oggi, 9 maggio, alle 10,30 nell’aula Spagna del Quadrilatero in viale Mancini. L’iniziativa, nell’anniversario dell’Unione Europea, è delle facoltà di Giurisprudenza e Scienze politiche e del Centro di documentazione europea. Interverranno Silvia Sanna, Gabriella Ferranti e Paolo Fois.
 
6 – LA NUOVA SARDEGNA
Pagina 8 - Sardegna
Io sardo, testimone del mondo 
«Africa, Asia e Oriente, mi sposto ovunque c’è lavoro» 
«Guardiamo all’Irlanda: ha saputo tutelare l’ambiente» 
Egidio Addis è nato a Torpé e ha fatto i primi passi nel polo chimico di Ottana. Ora è dipendente dell’Eni senza fissa dimora 
La valigia è pronta, sto attendendo che mi chiamino, questione di giorni. Destinazione verso il Volga o il Mar Caspio, il Kazakhstan o l’Azerbaigian, forse anche la Nigeria. Dipende dall’Agip, l’azienda del gruppo Eni per la quale lavoro da globetrotter volontario fra Asia e il cuore dell’Africa. Avant’ieri sono tornato a Ottana a trovare Saverio Ara, Graziano Corda e Francesco Tolu, alcuni dei miei vecchi compagni cresciuti nella media valle del Tirso, ho rivisto la fabbrica dove in quindici anni ho imparato l’abc del lavoro di gruppo e dove ho visto la metamorfosi di una società che da primitiva è diventata industriale fra mille contraddizioni, inganni politici e imprenditoriali. Ora, con i miei sessant’anni, penso alla nuova avventura per il mondo dopo aver lavorato in Congo e nel Sahara, in Germania, in Somalia e in Iran. Lì, nella fascia costiera del Golfo Persico, mi occupavo della sicurezza nel più grande cantiere petrolifero del mondo, 50 chilometri di zona industriale, ventimila operai, 180 i tecnici italiani, progetto congiunto della giapponese Hyundai e della Snam. Diventerà il più grosso polo chimico integrato, dall’estrazione del petrolio alla raffinazione fino al più insignificante dei prodotti finiti. La prima tranche della commessa sfiora i seimila miliardi di dollari. In questo moto perpetuo c’è spazio anche per la Sardegna. A Teheran ho conosciuto un sacerdote di Bono, don Nicola Masedu, finito in galera sotto il regime dei khomeinisti e ora direttore dei salesiani a Betlemme. Gli incontri con i miei conterranei mi ridanno sempre la carica e rinfocolano la nostalgia, ma si va avanti, si riflette sulla globalizzazione, sul potere religioso che nell’Islam è anche un forte potere economico. E una certezza: l’Oriente è pronto a far tutto da solo. Quello che molti considerano terzo mondo sta facendo passi da gigante. Andate in Thailandia, in India, in Pakistan: in questi Paesi si studia, gli ingegneri sono di prima grandezza, ci sono professionalità locali reali, i saperi moderni si sono già sedimentati, tra poco il nostro aiuto non servirà più. Davanti a questa svolta epocale io sarò pronto per la pensione da godere in Sardegna e da turista nel mondo.
 Mi chiamo Egidio Addis, sono nato in Baronia, a Torpè. Nasco nel 1945 nel rione “Sas iscòlas”. Mio padre, Luca chiamato “ziu Lucheddu”, era contadino e guardia forestale, orto e vigna tra Ussèla e Tramuntàna, ha 89 anni, va a caccia grossa con una compagnia di ventenni. Mia madre, Lorenza Bacciu, era l’amministratrice di casa. Elementari in paese, maestra Luana veniva da Piombino. Come i miei coetanei ero alunno e chierichetto, suonare le campane e servire messa nella chiesa di Santa Maria. Dopo la quinta vado in seminario a Nuoro, ci resto un anno e mezzo, non mi piaceva vivere fuori dal mondo reale. Dopo le medie finisco a Cagliari, corso geometri al “Bacaredda”, diploma e lavoro. Piccoli impieghi, bigliettaio d’estate sul tram per il Poetto, frequento studi di progettazione. La svolta è del 1970. La Sardegna conosce le prime industrie a Sarroch e Macchiareddu, sta per sorgere Portotorres. Finisco a Busto Arsizio con un’altra specializzazione, perito chimico tessile. Faccio la domanda all’Eni e vengo assunto a San Donato Milanese, uffici di progettazione, preparavo lucidi per i centri direzionali. Dopo un po’ mi ritrovo con un direttore di qualità, l’ingegner Antonio Sernia, braccio destro dell’allora presidente Eni Raffaele Girotti, un nome che resterà nella storia della guerra chimica combattuta fra i Cefis e i Valerio, i Cuccia e i Merzagora, per finire con i Rovelli e i Cagliari, i Necci e i Ferruzzi e via elencando i nomi della razza padrona tra gli anni ’70 e ’80. Sernia era cresciuto alla scuola rigorosa di Enrico Mattei, credeva nell’industria, nel lavoro di squadra. Dopo due anni di pianura padana rientro in Sardegna, Ottana, di nuovo sotto Monte Gonàre e il Grìghine, sono tra gli assistenti degli ingegneri che disegnano e realizzano le fondazioni della chimica che verrà. Breve stage a Milano e poi destinazione definitiva Barbagia. C’era da inventare tutto: soprattutto l’aggregazione fra gli operai, dovevamo accompagnare il passaggio dal diffuso individualismo a momenti di azione collettiva, dovevamo preparare il trapasso fra i precari a vita e chi sarebbe dovuto diventare garantito, difeso dal sindacato. Nel 1972 mi sposo a Cagliari, chiesa di santa Lucia. La vera vita da “new deal” era vissuta a Ottana. Il consenso degli operai cresce, il sindacato diventa una forza, io ero Cgil, il consiglio di fabbrica crea una coscienza unitaria, molti vanno nella penisola per corsi di perfezionamento a Gela e San Donato, a Porto Marghera e Pisticci. Gli ex pastori ed ex operai rientrano tecnici “sorprendentemente capaci” commentò Sernia.
 Dopo alcuni anni si avvertono i primi scricchiolii che man mano diventeranno scosse sismiche. Il progetto industriale è zoppo, il sindacato organizza la prima conferenza di produzione, noi vedevamo i rischi e altri politici a promettere il raddoppio di Ottana con gli impianti Sir. Follie pure. In questa fase cresce la consapevolezza operaia, il consiglio di fabbrica alla fine degli anni settanta è una palestra di politica e di economia, si forma una classe dirigente locale capace, le amministrazioni comunali sono guidate da operai e tecnici, la Barbagia del malessere biblico comincia a cambiar volto. Mi candidano alla Camera, sarò il primo dei non eletti. Ma la politica nazionale langue, non si rende conto di quanto avviene nel mondo, i progetti sono di corto respiro, la tecnologia italiana finisce in Giappone e così a Ottana arriva il know-how giapponese appreso in Italia. Cecità industriale totale. Incapacità di leggere le cose dell’universo mondo. Incapacità di prevedere la rivoluzione tecnologica, la crescita dei Paesi produttori di petrolio. Con tutto ciò che segue e che sapete. Il fatto sta che nel 1986, tra scioperi e viaggi nei fatui ministeri romani, esco da Ottana e mi dimetto. Tento un’avventura industriale in proprio ma non mi va bene, ritardi burocratici, incompetenze. Meglio partire, meglio emigrare.
Il primo lavoro all’estero è in Somalia, dieci anni fa, sempre con società di servizio collegate all’Eni. A Gibuti sono tra i responsabili della costruzione di una centrale elettrica. Dall’Africa rientro in Europa, destinazione Germania. Il primo cantiere è a Berlino per la ricostruzione di abitazioni civili, poi Dresda, Lipsia, qui mi rendo conto di come i tedeschi applichino rigorosamente gli standard costruttivi. Nel passaggio continuo tra l’ex Ovest e l’ex Est vedo e conosco il ponte delle spie dove americani e russi si scambiavano gli informatori segreti nel periodo della guerra fredda. Lavoro a Potsdam, nella città dove tra luglio e agosto del 1945 Truman Churchill e Stalin firmarono il trattato che divise la Germania in quattro zone di occupazione. Qui vedo la ricostruzione tedesca. Un altro fatto epocale. Ero a pensione da alcuni ebrei russi fuggiti dall’Urss, sentivo i loro racconti strazianti, le tragedie dei campi di sterminio, soprattutto dei drammi di Buchenwald e Dachau.
 Dal cuore dell’Europa all’Africa. Destinazione il Congo francese per la costruzione di una raffineria sull’Atlantico per conto dell’Agip. L’Africa mi affascina, gli operai congolesi mi raccontano della guerra civile, delle loro famiglie sterminate, conosco alcuni sopravvissuti alla strage di Brazzaville, intere famiglie che si erano rifugiate sulle coste del lago Stanley Pool per sfuggire ai massacri. Poi è la volta del deserto del Sahara, in Algeria, isolati come non mai, il cantiere - dove ero responsabile della sicurezza nella costruzione di una centrale elettrica - distava 300 chilometri dal più vicino centro abitato. Qui, nella zona di Assiberkìn, c’è forse il più esteso giacimento di petrolio. Oggi ci sono quasi tutte le multinazionali, c’è un aeroporto internazionale, viavai continuo di canadesi e americani, giapponesi ed europei. Conosco i Tuareg, a molti di loro davamo ospitalità, il cantiere e l’accampamento era presidiato dall’esercito dello Stato algerino, erano anni di massacri e di una attività terroristica incessante. Anche qui incontro un sardo, Narciso Magrini muratore di Ozieri poliglotta, parla benissimo il tedesco, il francese, lo spagnolo, l’inglese. Ogni nuovo sardo incontrato accresce la nostalgia della Sardegna. Ma il lavoro è qui. In Africa.
 Rientro per qualche tempo in Italia. Divento responsabile della sicurezza alla cartiere Burgo di Cuneo in una centrale a ciclo combinato, poi a Massa Carrara dove vengono costruite le piattaforme per il Brunei e il Brasile per la compressione del gas e la produzione di energia elettrica. L’ultima esperienza, l’ho accennato, è iraniana, in un cantiere - a 300 chilometri dalla vecchia Persepoli - dove si è arrivati a gestire ventimila persone. Una esperienza dura, dieci ore di lavoro al giorno, d’estate 55 gradi all’ombra, l’umidità al 90 per cento. Il progetto è davvero ciclopico, diviso in 28 fasi, fino alla fase terza è stato assegnato alla Total francese. Sarà il polo chimico più imponente al mondo, mi sono occupato sempre della sicurezza con tecnici canadesi, inglesi, rumeni e pakistani. La raffineria, almeno quattro volte più estesa di quella di Sarroch, è già in esercizio, pompa il greggio dal golfo Persico di fronte al Qatar. L’Eni ne avrà la gestione per cinque anni, ora sta addestrando il personale, c’è una diffusa cultura del rispetto delle regole, si sta attenti a evitare incidenti. Anche in questi Paesi la manodopera si sta specializzando, direi che si è specializzata, hanno fatto passi da gigante. E ora, vi dicevo, sto aspettando un’altra chiamata: destinazione ancora l’Asia o forse l’Africa, a Port Arcourt dove pure pullulano le industrie metallurgiche e le raffinerie di petrolio, aziende meccaniche, tessili, petrolchimiche, fanno bene le cose che noi trent’anni fa volevamo produrre a Ottana.
E oggi, in Sardegna? È evidente che una fase industriale è al tramonto ma l’industria ha contribuito in modo determinante a cambiare la pelle dell’Isola. Oggi si è capito che occorre andare verso nuove direzioni perché le grandi fabbriche non sono né il nostro futuro né quello delle generazioni a venire. Tra l’altro ci muoviamo in un contesto nazionale devastante, assistiamo a quella che Luciano Gallino ha definito “la scomparsa dell’Italia industriale”. Siamo usciti dall’elettronica di consumo ed eravamo tra i primi al mondo, l’aeronautica civile è inesistente, non abbiamo saputo coltivare l’industria chimica, dell’auto vediamo i guai, idem per l’acciaio.
 E la Sardegna? Mi sembra di cogliere la consapevolezza della necessità di invertire rotta. Puntare a un turismo con turisti in tutti i mesi dell’anno non a un turismo di mattoni e cemento con case e alberghi vuoti, puntare alla innovazione tecnologica nell’elettronica, nell’informatica, per l’agroalimentare e l’artigianato salvando le nostre specificità, dare spazio alle due università perché creino centri d’eccellenza nella ricerca scientifica, insistere sul grande lavoro per il recupero ambientale dove tanto c’è da fare, il trattamento delle acque e dei rifiuti, la riqualificazione urbana delle città e dei paesi degradati. Ottana e Portotorres? Specializzazione spinta al massimo con aziende di successo e prodotti nuovi, di nicchia, per la massa ormai ci pensano i Paesi produttori. Ma soprattutto puntare a uno sviluppo diffuso in tutti i 377 Comuni dell’Isola. Nei nostri paesi un’azienda è l’eccezione, no, le imprese devono essere la regola, occorre farne sorgere dieci, trenta, cento, come avviene a Sassuolo. Piccolo non è bello, ma “tanti piccoli” possono creare anche il bello, possono far crescere la ricchezza, il Pil. Per fare ciò occorrono competenze politiche e nella pubblica amministrazione. Non mi sembra che si vogliano dar soldi a nuovi avventurieri. La Sardegna ha un ambiente da proteggere. Lo deve comunicare al resto del mondo. L’Irlanda lo ha saputo fare.
 

7 – CORRIERE DELLA  SERA
Il rettore: io non sono rimasto in silenzio
Ezio Pelizzetti: abbiamo condannato con forza l’accaduto, sbagliato parlare di acquiescenza
«Come rettore dell’università di Torino ho stigmatizzato subito e con forza l’accaduto, e ho espresso solidarietà alla professoressa Santus. Detto questo, bisogna fare attenzione a non "montare" casi: a quanto mi consta, quella lettera al Foglio non è mai stata mandata...». Ezio Pelizzetti preferisce ribaltare la prospettiva, «negli ultimi mesi l’ateneo ha accolto studenti palestinesi e israeliani, come sempre si è dimostrato un’arena di confronto. Il nostro ruolo è quello di trasmettere un messaggio di cultura, l’unico elemento che può far progredire il dialogo». Oggi, però, c’è un elemento in più su cui riflettere, la denuncia del giovane israeliano sulle pagine di Maariv ... «Ma è uno studente di Torino?», Pelizzetti chiede conferma, «a me ovviamente queste voci non sono arrivate, altrimenti sarei stato il primo a prendere posizione. Mi stupisce però che queste persone contattino i media invece di chiedere un incontro con le autorità accademiche. Tra l’altro mi risulta che l’incontro tra preside, docente e studenti si sia concluso in maniera positiva, nel segno del dialogo». L’allarme sul clima di «acquiescenza, se non compiacenza» che negli atenei avvolgerebbe gli episodi di antisemitismo, lanciato dal professor Giorgio Israel in un’intervista al Corriere , non è condiviso dai rettori. «Non so su cosa si basi questa affermazione, ma non credo corrisponda al vero». Piero Tosi , presidente della Crui (la conferenza dei rettori), è lapidario: «Ci sono stati episodi gravi, assolutamente da condannare. Ma non si tratta di un virus dilagante, né si può parlare di renitenza nell’affrontarli». «Da noi ha insegnato per alcuni anni il rabbino capo della comunità milanese (Giuseppe Laras, docente di Storia della filosofia ebraica, ndr ) e nessuno si è mai permesso di fare alcunché, scherziamo?», Enrico Decleva , rettore della Statale di Milano, è altrettanto netto e sicuro: «Nessun allarme. Se Israel ha elementi per sostenerlo, lo dica; ma non sono cose che si possono affermare così...». Della stessa opinione Augusto Martinelli : «A Firenze abbiamo avuto la contestazione all’ambasciatore Gol. Un fatto intollerabile, ma limitato a una decina di giovani facinorosi (che peraltro non ce l’avevano con gli ebrei, ma con la politica di Israele), completamente isolati dall’ateneo, dalla città, dai partiti». Isolare, condannare. E soprattutto lavorare per il dialogo, «a Pisa abbiamo subito stigmatizzato la contestazione al consigliere d’ambasciata Cohen - ricorda il rettore Marco Pasquali -. Possono sembrare solo parole, ma poi ci sono la collaborazione con l’istituto Yad Vashem, a Gerusalemme, il Centro studi per la pace... L’università è il luogo dove si manifestano di più i fermenti sociali, ed è una delle sue ricchezze: le situazioni non condivisibili vanno chiarite e combattute, ed è quello che cerchiamo di fare. Ogni giorno».
Gabriela Jacomella
 
8 – CORRIERE DELLA  SERA
«A Torino gli studenti ebrei nascondono la loro origine»
«Ho cercato di discutere con i contestatori, ma è stato inutile»
Peer, giovane universitario: hanno paura di diventare un obiettivo
«Da israeliano non puoi capire l’antisemitismo. Ho sempre pensato che fossero la paura e la paranoia degli ebrei che non vivono in Israele. E’ stato molto difficile scoprire che esiste ancora». A Torino, magari? Amit Peer, 27 anni, ha appena finito di vedere Milan-Juve e si appresta ad assistere a Maccabi-Tau (Eurolega basket). Alla domanda, risponde partendo da lontano. «Sono nato in Israele, in un kibbutz, da famiglia mitteleuropea. Da 3 anni vivo a Torino, dove frequento la facoltà di Veterinaria. Sono felice di essere qui e sono grato all’Italia per avermi dato la possibilità di studiare qui. Personalmente, non ho mai avuto nessun problema come ebreo e israeliano. Ma a Torino ho scoperto che ci sono ebrei che preferiscono che la gente non conosca la loro identità per paura di diventare un obiettivo. In particolare, tre compagni universitari mi hanno confidato che (uno fin dagli anni del liceo) celano il proprio nome di famiglia o fanno credere che il cognome non sia ebreo. Soltanto gli amici intimi conoscono la loro vera origine, non si fidano di rivelarla nemmeno agli insegnanti. A proposito, puoi non scrivere il mio, di cognome? Sai, non vorrei che all’università, magari durante qualche esame, o fuori, questa pubblicità non voluta venisse fraintesa e mi creasse qualche guaio...».
LE REAZIONI - Sarà pur vero, come sostiene il sindaco torinese Sergio Chiamparino, che «all’università di Torino non c’è il clima delle camicie brune». Sarà pur vero, come sostiene il capo della Digos Giuseppe Petronzi, che «nessuno studente ebreo ha mai denunciato di essere stato costretto a dare nomi falsi». «Sarà pur così - commenta Eyal Mizrahi, 46 anni, presidente dell’Associazione amici di Israele, con sede a Pioltello (Milano), nata nel 2000 per combattere i pregiudizi verso Israele - ma la testimonianza di Amit e tutto quello che sta succedendo negli ultimi tempi è inquietante: ci ha messo sul chi va là e spinto a darci una mossa. Il 15 maggio e a metà giugno saremo in piazza a Milano». «Certo non siamo alla vigilia della cacciata di studenti e docenti ebrei dagli atenei come 59 anni fa, né esiste un clima di antisemitismo tradizionale a Torino o in università. Ma è davvero strano - ironizza amaro il professor Ugo Volli, 57 anni, docente di Semiotica - che gruppetti minoritari, duri, e tollerati per calcolo politico, tentino di negare sistematicamente la parola a rappresentanti di Israele e mai a quelli della Russia, che devasta la Cecenia, o della Cina. Nel caso della collega Santus è poi mancata una sostanziale solidarietà del mondo accademico».
L’ALLARME - E’ stata proprio la denuncia del giovane Amit al giornale israeliano Maariv (e ribadita ieri al Corriere ) a far scattare l’allarme internazionale dopo la contestazione, avvenuta il 20 aprile e il 2 maggio, alla professoressa Daniela Santus (attaccata per aver invitato a una lezione il viceambasciatore Elazar Cohen) e quelle dei mesi scorsi a Pisa, Firenze, Bologna. Il giornale ebraico, per la verità, fa risaltare come il governo italiano si impegni nel combattere l’antisemitismo, ma, aggiunge, nelle università la sinistra militante cerca di impedire la libertà di espressione a chi venga identificato con Israele. «Non capisco questi gruppi - aggiunge Amit -: io stesso sono di sinistra e critico il mio governo, senza rinunciare a essere ebreo. Ho cercato di discutere con i più esagitati, impossibile: credono solo a una versione dei fatti e della storia. Mi dispiace non poter dialogare e soprattutto mi hanno fatto paura certe frasi contro la Santus. Ero lì, ho sentito quello che qualcuno le ha gridato: "Devi morire come i bimbi ebrei negli autobus, chi va in Israele deve pagarne le conseguenze". Sia chiaro: io starò qui. Ma come farò a dire queste cose a mio nonno, sopravvissuto all’Olocausto?».
L’INCONTRO - Per contrastare quelli che la «militante» triestina Deborah Fait definisce sprezzantemente «pidocchi dell’umanità figli di Hitler e di Stalin», ieri si sono incontrati a Torino, in occasione della tornata dedicata all’editoria israeliana della Fiera del Libro, Eyal Mizrhai, Angelo Pezzana, Shai Cohen, consigliere dell’ambasciata, e Andrea Jarach, presidente della federazione delle Associazioni amici Italia-Israele. Ci sarebbe dovuta essere anche la professoressa Santus. Non si è vista: per non alimentare le polemiche, è la sua versione. Perché ha paura, afferma invece Mizrhai, che lancia l’ultima frecciata: «Come mai il 25 aprile a Milano la Brigata ebraica era l’unica a essere scortata dalla polizia?».
Costantino Muscau
 

9 – LA REPUBBLICA – Affari e Finanza
ATTUALITA' - pag. 17
Sarà un chip impiantato nel cervello a “rivitalizzare” chi è paralizzato
Elaborata nel Massachusetts la ‘formula’ che permette di ‘recuperare’ il linguaggio e trasmetterlo ad un computer
Si chiama BrainGate ed è un microchip impiantato nel cervello delle persone paralizzate. Serve ad agire con la sola forza del pensiero, o meglio navigare in Internet, spegnere la luce, regolare la tv o comunicare su uno schermo. Realizzato dalla Cyberkinetics Neurotechnology Systems del Massachussets, in base alle ricerche della Brown University di Rhode Island, il microchip è in grado di captare i segnali provenienti dai neuroni e trasmetterli ai computer che trasformano i segnali in azioni. Per le persone paralizzate significa una nuova vita e la possibilità di rendersi autonomi e di comunicare attraverso il computer. Sistemi che permettono a chi ha perso l'uso degli arti, di interagire con un computer grazie al movimento degli occhi o della lingua già esistono, ma rispetto a questi BrainGate è rivoluzionario non coinvolgendo alcun tipo di movimento muscolare, ma soltanto il pensiero.
La ricerca nel settore prosegue a ritmi sempre più veloci. Quasi parallelmente all'esperimento del GateChip arriva lo studio di Andrew Schwartz dell'Università di Pittsburgh. Shwartz ha dimostrato che, grazie ad un sensore applicato al cervello, una scimmia è in grado di controllare un braccio meccanico che le dà da mangiare. La Food and Drug Administration ha dato il suo ok e la Cyberkinetics potrà condurre altri esperimenti utilizzando il chip BrainGate. Ma il microchip ha risvegliato l'interesse non solo della scienza medica. La Defence Advanced Research Projects Agency sta finanziando infatti la ricerca nel settore. E sogna un futuro non lontano in cui i piloti militari potranno controllare i loro aerei con la forza del pensiero.
Ma non basta: proprio in questi giorni alcuni ricercatori della State University of New York hanno sviluppato un'interfaccia non invasiva fra cervello e computer (Bci, o braincomputer interface) che consente a una persona di spostare un cursore sullo schermo soltanto con il pensiero. Le Bci traducono i segnali elettrici nel cervello in output fisici, e sono potenzialmente in grado di aiutare pazienti paralizzati per un colpo apoplettico, una lesione del midollo spinale, o una malattia come il morbo di Gehrig. Finora, si riteneva che soltanto le Bci invasive come il BrianGate potessero controllare movimenti complessi. Jonathan Wolpaw e Dennis McFarland hanno invece dimostrato che gli esseri umani possono controllare movimenti in due dimensioni grazie a una Bci non invasiva che analizza l'attività elettroencefalografica (Eeg) registrata dal cuoio capelluto. Nello studio, pubblicato sulla rivista Proceedings of the National academy of sciences, soggetti con o senza lesioni del midollo spinale hanno indossato un casco di elettrodi che trasmetteva le onde cerebrali direttamente a un computer. I partecipanti hanno imparato a usare il pensiero per dirigere un cursore sullo schermo, immaginando le azioni specifiche. Un programma analizzava l'attività Eeg, selezionava le onde cerebrali che il soggetto era capace di controllare meglio, e le traduceva nei movimenti del cursore. I pazienti con lesioni del midollo spinale sono risultati più bravi a gestire questo sistema di controllo, forse a causa di una maggiore motivazione o per cambiamenti cerebrali associati alle lesioni. I ricercatori prevedono che i futuri sviluppi di questa tecnica e delle Bci non invasive saranno incentrati sul controllo dei movimenti tridimensionali.
Laura Kiss
 

10 – LA SICILIA
università
«Incognite e sfide per l'Unione a 25»
Oggi «Giornata dell'Europa» a Scienze politiche
Catania. Oggi, nell'aula magna della Facoltà di Scienze politiche, con inizio alle 10 si terrà la "Giornata dell'Europa - Incognite e sfide per l'Unione a 25", promossa dal Consiglio italiano del movimento europeo (Cime), dalla Facoltà catanese, dal Movimento europeo internazionale, dalla Commissione europea, dall'Osservatorio per la cittadinanza europea e dalla Regione siciliana. Dopo i saluti del rettore Ferdinando Latteri, del preside Giuseppe Vecchio e di altre autorità cittadine, interverranno il presidente del Cime Giorgio Napolitano, il segretario generale del Cime Filadelfio Basile, il ministro per i Beni culturali Rocco Buttiglione, i senatori Alessandro Battisti e Alessandro Forlani, i docenti Raimondo Cagiano de Azevedo e Gian Piero Orsello (Roma - La Sapienza), Sergio Pistone (Università di Torino), Dario Velo, presidente dell'Associazione universitaria di studi europei (Ause). Nel pomeriggio, a partire dalle 14,30, si terrà il forum per la cittadinanza europea attiva, introdotto dal docente Dario Pettinato (Università di Catania) e moderato dal coordinatore dell'Osservatorio per la cittadinanza europea Francesco Tufarelli, con la partecipazione di rappresentanti della società civile e delle istituzioni locali.
 
 

Questionario e social

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