Lunedì 6 giugno 2005

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
06 giugno 2005
 Ufficio Stampa
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI

 
1 – L’UNIONE SARDA
Pagina III – Economia & Finanza
Artigianato e Pmi
Oggi e Domani
Biotecnologie, a Polaris conferenza internazionale
Oggi dalle 9.45 alle 17.30 e domani dalle 9.45 alle 13, nell'auditorium dell'edificio 2 di Polaris, il Parco scientifico e tecnologico della Sardegna, è in programma la conferenza sul tema "Biomedical Clusters and regional policy". Polaris è a Pula, in località Piscinamanna. L'iniziativa vedrà il coinvolgimento di numerosi ricercatori (europei e non), ma anche di rappresentanti di imprese e istituzioni, impegnati nello sviluppo dei distretti biotecnologici. Oggi sarà inaugurato il "bioincubatore" di Polaris, la struttura realizzata, su proposta della Regione Sardegna, nell'ambito del programma Riditt promosso dal ministero delle Attività produttive e dall'Istituto promozione industriale. Oggi interverranno ai lavori Giuliano Murgia (presidente Consorzio 21), Leonardo Vingiani (direttore di Assobiotec), Giuseppe Busia (presidente Sfirs) e Mauro Tuzzolino (ad Sviluppo Italia Sardegna). Domani gli interventi di Francesco Pigliaru (assessore regionale alla Programmazione), Elke Van Tendeloo e Thomas Heynisch (direzione generale Imprese della Commissione europea).
 
 

2 – LA NUOVA SARDEGNA
Pagina 7 - Attualità
Calcolo mentale fantascientifico 
Studente francese trova radice tredicesima di un numero a 200 cifre 
PARIGI. Alexis Lemaire, 24 anni, studente di informatica all’università di Reims, è l’unico essere umano al mondo capace, fino ad ora, di calcolare a mente la radice tredicesima di un numero a 200 cifre. Dopo aver stabilito il 6 aprile il record, nei giorni scorsi ha battuto il tempo che aveva impiegato la prima volta. Ma non è soddisfatto, voleva ridurlo a un terzo ma non ce l’ha fatta.
La guerra contro il tempo è una sfida nella sfida che impone ricerche sempre più complesse e sofisticate di memorizzazione, di metodi per organizzare la memoria, proprio come un programma per i computer, una sorta di software a base di cellule umane. L’ultimo tentativo di Alex, che ha alle spalle una lunga serie di primati, l’ha fatto nel comune del sesto arrondissement di Parigi venerdì scorso e il fatto viene ricordato da Le Monde. I numeri di 200 cifre vengono selezionati da un computer, e poi è lo sfidante che sceglie con quale sequenza confrontarsi. I tentativi a vuoto sono tanti, ma alla fine sia venerdì sia il 6 aprile, il risultato si è verificato.. E’ stato allora che dopo numerosi tentativi andati a vuoto Lemaire era riuscito in circa otto minuti a scrivere le 16 cifre corrette della risposta.
 
3 – LA NUOVA SARDEGNA
Pagina 4 - Regione
LE NOMINE 
Commissione farmaci, dieci membri 
CAGLIARI. E’ composta di dieci membri la commissione tecnica per l’assistenza farmaceutica che ha il compito, su incarico della giunta, di studiare la razionalizzazione del settore (come la riduzione della spesa). Ne fanno parte, oltre che il presidente Silvio Garattini, Antonio Addis (Agenzia del farmaco), Mauro Carai (farmacista di Nuoro), Maria Del Zompo (farmacologa di Cagliari), Elisabetta Fadda (farmacista Asl 8), Flavia Franconi (farmacologa di Sassari), Attilio Gabbas (medico nuorese), Nicola Magrini (Asl Modena), Bruno Palmas (medico oristanese) e Giuseppe Traversa (Istituto superiore di sanità).
Non risulta nell’elenco, quindi, il professor Sergio Del Giacco, immunologo, che era stato dato per certo anche perché proposto da Gianluigi Gessa, scienziato e consigliere regionale di Progetto Sardegna, che è risultato determinante anche per la scelta di Garattini. Al posto di Del Giacco i consulenti dell’assessore Nerina Dirindin hanno inserito all’ultimo momento il medico Gabbas.
I membri della commissione non percepiscono compensi (solo rimborsi spese per i non residenti in Sardegna).
 
 

4 – CORRIERE DELLA SERA
Pavia, elezioni del rettore: tre candidati firmano l’accordo
La proposta prevede la nomina dell’economista Velo
Isolato il fisico Stella. Mercoledì la seconda votazione
PAVIA - Di possibili accordi tra le parti si parlava da tempo ma il colpo di scena arriverà oggi, sui tavoli di docenti, ricercatori, rappresentanti degli studenti e personale tecnico-amministrativo chiamati a eleggere il nuovo rettore dell’Università di Pavia, sotto forma di un accordo elettorale a tre firme: l’economista Dario Velo, il chimico farmaceutico Gabriele Caccialanza, il medico Gianmario Frigo. Fino a ieri candidati tutti e tre alla carica di rettore (alla votazione di martedì hanno ottenuto rispettivamente 257, 151 e 131 voti contro i 397 di Angiolino Stella candidato che si dice appoggiato dalle sfere più alte), oggi firmatari di «un impegno a tre per il rinnovamento dell’ateneo». Uno dei punti: «Verificata l’esistenza nei nostri programmi di significativi punti di convergenza, abbiamo deciso di concordare un impegno comune per la loro realizzazione. Questa nostra proposta intende utilizzare al meglio, e con effetto sinergico, l’ampio spettro di competenze che ognuno di noi ha potuto acquisire sui problemi gestionali dell’Università». La proposta rivolta agli elettori è di votare Velo rettore per una gestione unitaria con prorettori operativi Caccialanza e Frigo, accomunati da una conoscenza della macchina amministrativa in grado di affrontare la «rivoluzione» del post-Schmid.
«Sono otto i punti che abbiamo indicato nella nostra lettera - dichiara Velo -. L’obiettivo è motivare le capacità presenti in Ateneo, restituendo desiderio di partecipare al rilancio. Il modello che vogliamo superare è quello del passato: manca totalmente managerialità alla macchina amministrativa dell’Ateneo». Poco interessa, a questo punto, se le appartenenze politiche sembrerebbero diverse. Un simile accordo è nuovo per l’ateneo di Pavia. «Chiaro e trasparente - specifica Velo -, sostenuto da un atteggiamento istituzionale. In università il richiamo è alla politica con la "p" maiuscola, nel rispetto della Costituzione e non a quella dei partiti. Mercoledì potrà essere la votazione decisiva».
Donatella Mele
 
5 – CORRIERE DELLA SERA
IL CAPITALE UNIVERSITA’
Le risorse per legare atenei e città
Il dibattito su Milano «città universitaria» ogni tanto si risveglia. Per la verità senza mai strutturarsi in «qualche cosa» (tavolo, osservatorio, comitato?) che svolga una relazione continuativa sullo stato dell’arte. Tutti sanno che il rapporto fra le università e le imprese non solo è genericamente importante per Milano, ma che è utile specificatamente per ambedue. In questo modo si incrementa la ricchezza economica, sociale ed il differenziale competitivo. Sinteticamente, il «capitale sociale e civile» di Milano aumenta. La raccolta di finanziamenti per le università si sostanzia in borse di studio, ricerche, donazioni, cattedre sponsorizzate ecc. Ed il dibattito diventerebbe più «ancorato» al sistema Milano se si facesse un censimento dei finanziamenti delle imprese a favore delle università. Magari stilando un ranking delle università milanesi basato sulla soddisfazione delle imprese. Riguardo alle donazioni, leggo sul Financial Times che la Harvard Business School ha ricevuto una donazione di 25 milioni di dollari da un ex alunno svizzero per lo sviluppo di dottorati ed a sostegno di ricerche e agevolazioni per dottorandi; ed ancora (sul Mattino di Napoli) che un ex bidello italiano dell’università americana di Great Falls ha effettuato una donazione di 100.000 dollari all’anno per finanziare borse di studio per studenti meritevoli.
Non sono solo notizie e cronaca, ma anche parte dei «sistemi paese» con cui ci confrontiamo ed in parte sono azioni già praticate per le università milanesi. Ricordo che la legge 80/2005(«decreto sulla competitività») offre alle imprese agevolazioni fiscali e deduzioni quasi senza limiti per le liberalità alle università. Ma si dovrebbero anche incrementare i segni di appartenenza e di coesione sociale fra le università e la città.
Ecco alcune proposte: a) una giornata all’anno dedicata alle «università aperte» con visite guidate non solo informative, ma di esposizione della cultura condivisibile con la città; b) conferenze dei docenti su temi che i milanesi possono giudicare utili per la loro vita quotidiana e per il loro welfare, ed in questa occasione si raccolgono fondi per le università; c) aprire un’agenzia comunale e provinciale (regionale?) per l’adozione di studenti meritevoli e stranieri non solo tramite borse di studio, ma anche agevolazioni per alloggi, sconti per servizi. Università straniere stanno agevolando la presenza di studenti cinesi (70.000 in Inghilterra, 40.000 in Germania, solo 600 in Italia) che nel futuro avranno una preferenza culturale ed economica per la nazione ove hanno svolto i corsi; d) creare una «borsa per la ricerca universitaria interdisciplinare» ove le imprese esprimono le loro offerte di ricerca; e) istituire un premio per il «mecenate dell’anno» a favore delle università. E tutto questo nello spirito anche delle donazioni che non sono carità e filantropia, ma investimenti per la ricerca&sviluppo di Milano.
giorgio.fiorentini@sdabocconi.it
 
6 – CORRIERE DELLA SERA
Ceccherini e i 5 anni dell’Osservatorio giovani-editori
«Pochi laureati, c’è un caso Italia Bisogna puntare sull’informazione»
Un numero di universitari e laureati inferiore alla metà della media Ocse: solo 7 italiani su 100 conquistano il titolo di «dottore» e poco più di un quarto (il 28%) è in possesso di un diploma di scuola superiore. Cifre che collocano l’Italia all’ultimo posto tra i Paesi sviluppati, quelle dell’ultimo rapporto Ocse sulla formazione delle nuove generazioni, e che preoccupano ancora di più se si considera che questi sono i due indici attraverso cui si «legge» la ricchezza di una classe dirigente. L’indagine non passa inosservata agli occhi di Andrea Ceccherini, presidente dell’Osservatorio Giovani-Editori, che proprio ieri, 5 giugno, festeggiava il suo quinto compleanno. Una ricorrenza positiva, anche se l’allarme dell’Ocse non fa che confermare le vostre preoccupazioni...
«Purtroppo i numeri documentano come esista oggi in Europa un "caso Italia", in cui la classe dirigente del futuro sembra essere più debole rispetto agli altri Paesi. Una riflessione che l’Osservatorio ha fatto propria fin dalla sua nascita, avvenuta il 5 giugno 2000 a Firenze, quando si trovarono davanti al notaio i tre soci fondatori: Cesare Romiti (Rcs), Andrea Riffeser Monti (Poligrafici Editoriale) e io, per il movimento Progetto Città. Noi credevamo, e crediamo tuttora, che in questo Paese ci sia un deficit di classe dirigente. E che sia dovere di tutti fare uno sforzo per permettere alle idee di farsi largo, investendo sulla formazione».
Il vostro progetto, il «Quotidiano in classe», ha coinvolto quest’anno oltre un milione di studenti (nel 2000 erano 96 mila). Che ruolo hanno i giornali in questa sfida?
«In tutte le società civili avanzate, il quotidiano è sempre stato lo strumento intorno a cui le classi dirigenti si sono formate. Da un lato aiuta a integrarsi nella società, combattendo tutte le forme di devianza ed emarginazione; dall’altro sviluppa un bene prezioso, lo spirito critico. Aspetti fondamentali per allargare la cerchia di candidati a diventare la classe dirigente del futuro: l’unico modo per innalzare la qualità dell’establishment e per dare al Paese la speranza di un futuro migliore».
Dopo 5 anni, qual è il bilancio?
«Ricerche indipendenti documentano come dopo 25 anni di "caduta libera" (tra 1996 e 2001 avevamo perso oltre il 49% dei lettori tra 14 e 17 anni), tra 2001 e 2005 ci sia stata un’inversione di tendenza, con una crescita del 25%. Anche grazie al nostro contributo, l’Italia può contare su una generazione che legge di più. L’Osservatorio è cresciuto, passando da due a 14 gruppi editoriali coinvolti; ci sono stati riconoscimenti importanti, come quello del Capo dello Stato. Abbiamo creato un progetto intorno al quale siamo riusciti a fare sistema, coinvolgendo tre soggetti: insegnanti (gli unici in grado di avvicinare due mondi lontani come quelli dei giovani e dei quotidiani), gruppi editoriali, fondazioni bancarie. Uniti per fare dei giovani di oggi i cittadini di domani».
Ga. Ja.
 
 

7 – LA REPUBBLICA
Affari & Finanza
La famiglia sempre più tecnologica ma il web non è ancora in ogni casa
Si ha un bel dire che nell’Ict l’Italia tiene il passo con il resto dell’Europa: se si analizzano i dati del rapporto presentato la scorsa settimana da FedercominAnie in collaborazione con Niche Consulting sull’Italia dell’efamily 2005 c’è da stare poco allegri. Per quasi un decennio e fino al 2003 la diffusione di tecnologie innovative in casa ha avuto ritmi sostenuti. Negli anni più recenti si era addirittura creata una forbice consistente tra il tasso di crescita (spesso a due cifre) del mercato home e quello del mercato business, caratterizzato da una crescita limitata. Invece ora il trend delle famiglie italiane è in fortissimo rallentamento. E’ vero che circa la metà delle famiglie italiane si è dotata negli anni passati di un computer e di una linea di accesso a Internet, per non parlare della diffusione del telefono cellulare, ma è anche vero che da una crescita di oltre il 62% tra il 1999 e il 2003 nei collegamenti a Internet si è passati ad una crescita del solo 3,7% nell’anno 20032004.
Altrettanto lenta la crescita per gli acquisti di personal computer e di telefoni cellulari mentre meglio (intorno al 16%) vanno le vendite di televisioni satellitari e di paytv. Questi dati portano a riflettere sul fatto che la crisi economica ha influenzato non poco le spese delle famiglie e che Internet e il computer, per circa la metà degli italiani, è considerato ancora un bene non essenziale. Nonostante si viva in un mondo globale dove la comunicazione veloce è indispensabile, la metà dei cittadini italiani è ad un livello di alfabetizzazione informatica molto basso e guarda al computer come ad un’entità aliena. La cultura della rete non è penetrata abbastanza e anche per quella metà della famiglie che pure hanno in casa un computer servizi come l’Internetbanking o l’ecommerce sono ancora lontani dall’essere diventati uno stile di vita. Anche le enormi potenzialità di Internet rimangono poco conosciute e pochissime sono le persone in grado di svolgere ricerche approfondite all’interno del web. A poco valgono anche le incentivazioni per la tv digitale che non si può proprio dire abbia avuto grande successo, perché la fotografia che si rileva dai dati del rapporto sull’efamily mostra che nonostante la paytv vada meglio di altre voci, siamo ancora a livelli lontanissimi dal resto dei paesi europei. Intervenendo al convegno di presentazione del rapporto che si è svolto a Roma la scorsa settimana, Alberto Tripi, presidente di Federcomin, ha voluto però rilanciare la sfida: «A dispetto delle classifiche e delle copertine come quella dell’Economist che definisce l’Italia ‘il malato d’Europa’, il nostro è un paese che ha scelto la modernità e il cambiamento come opzioni fondamentali per la crescita. Ma questa crescita deve attraversare tutta la società e l’intera economia. Deve toccare il costume e i comportamenti dei cittadini e modificare la qualità del sistema produttivo ancora troppo ancorato a un primato dell’industria manifatturiera, che in realtà rappresenta non più del 16% del pil. Modernità vuol dire efficienza, qualità di prodotto, servizi innovativi».
E allora come fare per rilanciare l’uso della tecnologia nelle famiglie italiane? C’è da considerare un fenomeno positivo, che già si era annunciato nel corso del 2003 e si è accentuato lo scorso anno, rappresentato dal raddoppio dei collegamenti in banda larga, che ha raggiunto il 10% delle famiglie, con una distribuzione abbastanza omogenea su tutto il territorio, fatta eccezione per il Sud e le Isole dove scende al 7,5%. Rimane però anche il dato che il 48% delle famiglie non ha un pc in casa e il 20% di quelle che possiedono un pc non dispone di un collegamento a Internet.
Il digital divide familiare si identifica soprattutto nelle famiglie dove non ci sono figli o dove il nucleo è composto da persone anziane. Ma c’è un dato che riguarda anche la scolarità e che dice che la probabilità che un laureato usi un pc è cinque volte superiore alla probabilità che lo usi una persona con la licenza elementare. Anche i giovani, pur essendo utilizzatori intensivi di tecnologie, nelle scuole non trovano certo un grande aiuto: solo il 18% degli studenti ha infatti accesso ad un pc nelle aule scolastiche. E non basta, il 39% degli studenti italiani non usa affatto il pc, né a casa né a scuola e il 70% di essi non accede a Internet. L’apprendimento è quasi sempre un ‘autoapprendimento’ non strutturato e non incentivato dalla scuola. Un dato positivo però c’è, anche se di magra consolazione: la famiglia italiana utilizza gli strumenti informatici meglio e più di quanto facciano la pubblica amministrazione, la scuola e il settore commerciale.
Alcuni segnali positivi vengono anche da un’indagine supplementare al rapporto di FedercominAnie su un campione di 2000 famiglie effettuato a febbraio 2005. E’ stata riscontrata una ripresa della diffusione della piattaforma informatica e si è rilevato un tasso in crescita nell’adozione del decoder digitale. Il volume della spesa per tecnologie digitali è cresciuto del 22% all’anno tra il 1995 e il 2004, diventando una componente strutturale importante della spesa complessiva della famiglia italiana, soprattutto riguardo alla telefonia mobile. Anche il numero degli utilizzatori di una o più piattaforme digitali è cresciuto a un tasso del 29% all’anno se si considerano gli ultimi 10 anni. Quello che ci si augura è di continuare ad allargare la dimensione della fruizione dei contenuti. Un altro dato che fa ben sperare in una ripresa è che a febbraio 2005, il numero di apparecchi cellulari UMTS presenti sul mercato home è divenuto pari a quasi il 10% del totale dei cellulari in uso su quel mercato. Ciò fa capire che, sia pure con qualche ritardo per quanto riguarda le innovazioni tecnicamente più complesse, la famiglia italiana partecipa e parteciperà in maniera robusta ai processi indotti dalla convergenza digitale. Gian Francesco Imperiali, presidente dell’Anie, riflette sui modelli di business e sulle barriere alla fruizione di econtent: «Oggi esistono ostacoli rilevanti che sono in particolare l’obbligo di emettere fattura per i micropagamenti e un regime Iva che discrimina i contenuti digitali contro libri e quotidiani. Vi sono poi problemi che derivano dal numero esiguo e dal peso dominante degli operatori che impongono logiche che spesso deprimono anziché incentivare i content provider». Conclude ancora Tripi, che oltre ad essere alla guida di Federcomin è stato designato presidente della Fita (Federazione italiana terziario avanzato): «Siamo entrati in un'economia nuova dove i servizi e i beni immateriali rappresentano il driver della crescita e della sfida competitiva. Nell'universo della famiglia italiana questa è già una realtà».
Laura Kiss
 
 

8 – IL MESSAGGERO
Statali, il boom dei precari 
Sempre più “contrattisti” pubblici. Baccini chiede una soluzione 
Esplode il fenomeno del lavoro flessibile: raddoppiati gli interinali, almeno 100 mila i co.co.co 
ROMA Il dipendente pubblico giovane è, molto spesso, un precario. Il ricorso al cosiddetto “lavoro flessibile” (contratti a termine, interinali, formazione lavoro, co.co.co) è uno dei fenomeni che stanno cambiando le amministrazioni italiane. I motivi sono almeno due. Da una parte le innovazioni legislative, che hanno consentito di adottare nel pubblico impiego rapporti di lavoro in precedenza conosciuti solo nelle imprese private. Dall’altra il blocco delle normali assunzioni a tempo indeterminato: per aggirare il vincolo imposto dalle ultime Finanziarie, si fa ricorso ai contratti flessibili.
Le cifre. I dati pubblica ti annualmente dal la Ragioneria generale dello Stato (pur se aggiornati al 2003) mostrano la recente moltiplicazione dei precari pubblici. Contare il numero dei precari non è semplice: nelle statistiche in genere si contano le “unità lavorative annue”, dunque quattro lavoratori con contratto di tre mesi valgono un’unità. Ebbene, con questa procedura, fra tempo determinato, interinali, formazione lavoro e lavoratori socialmente utili si calcolano ormai 150 mila “unità lavorative annue” (quindi le persone interessate sono sicuramente di più). A questi si devono aggiungere almeno 100 mila co.co.co, i contratti di collaborazione continuativa che vengono contati individualmente e perciò non si possono sommare agli altri.
Quali contratti . Il contratto più usato è quello a tempo determinato: il 55% della spesa complessiva per lavori flessibili è destinata ai contratti a termine. Come si è visto, sono ormai diffusissimi anche i co.co.co (33% della spesa). Il futuro però sembra essere degli interinali, che negli uffici pubblici sono arrivati tardi ma ora si stanno affermando rapidamente: fra il 2002 e il 2003 il numero dei lavoratori in affitto è cresciuto del 107%, dunque si è più che raddoppiato in un solo anno.
Chi li usa . Le amministrazioni in cui si fa il pi ù ampio ricorso agli strumenti della flessibilità sono le università e gli enti di ricerca. Anche gli enti locali non scherzano, soprattutto i comuni più piccoli. Una recente indagine curata da tre esperti di pubblica amministrazione (Sergio Gasparrini e Pierluigi Mastrogiuseppe dell’Aran, Stefano Tomasini della Ragioneria) solleva il dubbio di un possibile abuso di contratti interinali o co.co.co, formule che vengono utilizzate «ben oltre gli stretti limiti fissati dalle norme speciali vigenti per il lavoro pubblico».
I quarantenni. In teoria, i contratti a termine dovrebbero essere una cosa temporanea. Invece ci sono contrattisti che rimangono tali per anni, assunti e licenziati e riassunti più volte all’anno. Molti sono entrati che erano ancora ragazzi e ormai sono diventati quarantenni. Fra i casi più clamorosi, quello dei “giubilari”, assunti ai Beni culturali nel 1999 in vista del Giubileo: oltre 2 mila persone che da sei anni sognano un posto fisso. Situazioni simili si trovano all’Agenzia del Territorio (mille e 500 precari), al ministero della Giustizia (mille e 800), all’Istat (450). Solo un centinaio di contrattisti della Protezione civile ha ottenuto finalmente una sistemazione grazie a un recente decreto che ha destato un certo clamore.
La Funzione pubblica. Il dipartimento della Funzione pubblica ha posto la questione del precariato più volte negli ultimi anni. In particolare il ministro Mario Baccini ne ha parlato a fine maggio in Consiglio dei ministri. Trovare una soluzione per i precari di lunga data non è facile. Nel pubblico è impossibile trasformare automaticamente i contratti flessibili in contratti a tempo indeterminato: l’articolo 97 della Costituzione dice che per essere assunti da un’amministrazione bisogna superare un concorso pubblico. La Corte costituzionale ammette qualche deroga al principio, ma solo in casi del tutto eccezionali.
Pietro Piovani
 
 

Questionario e social

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