UniCa UniCa News Rassegna stampa Mercoledì 24 agosto 2005

Mercoledì 24 agosto 2005

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
24 agosto 2005
 Ufficio Stampa
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI
 
1 – L’Unione Sarda
Pagina 33 – Cultura
Trent'anni fa nasceva "La grotta della vipera"
Correva l'anno 1975 quando apparve il primo numero di una rivista trimestrale di cultura, il cui direttore responsabile era lo scrittore Antonio Cossu. Perché fu scelto il nome La grotta della vipera? Lo stesso Cossu nel suo editoriale, dal titolo Una provocazione, un invito, spiegò i motivi per i quali questo periodico si richiamava a un monumento funerario d'epoca romana situato nel rione di Sant'Avendrace a Cagliari. Dopo varie chiavi di lettura di questo abbinamento, tutte valide e suggestive, finiva per ammettere: "è un titolo e basta, come altri che avremmo potuto scegliere". Del comitato promotore della rivista facevano parte, tra gli altri, Ignazio De Magistris e Giovanni Lilliu, Pinuccio Sciola e Gian Mario Selis. Il primo fascicolo della "Grotta della vipera" si presentò al pubblico con contributi firmati da nomi di primo piano della cultura isolana: c'era un breve saggio di Michelangelo Pira, un intervento di Francesco Alziator, una ricerca di Antonio Romagnino. Ampio il numero di pagine dedicate alla poesia, con testi in italiano, in catalano e in sardo (caratteristica che sarà mantenuta nei numeri successivi, dove sarà concesso ampio spazio alle lingue di minoranza). Il pezzo forte della sezione narrativa è un racconto autobiografico di Giuseppe Dessì, dal titolo Come sono diventato scrittore. Tra le altre cose l'autore di Paese d'ombre scrive: "Credo che il fatto di aver vissuto in campagna da bambino abbia contribuito a rendere la realtà più accessibile alla mia conoscenza". La parte finale della rivista era dedicata a ricerche e proposte, a recensioni di libri e a documenti. Quanto alle illustrazioni, c'erano disegni di Pinuccio Sciola sparsi tra le varie sezioni. La copertina e la grafica erano di Nanni Pes e il prezzo si aggirava sulle mille lire. Quando la rivista festeggiò i venticinque anni, questa impostazione di partenza non subì radicali ritocchi. Accanto a Cossu c'era un condirettore (Giuseppe Marci) e in redazione Paolo Lusci, Mauro Pala e Stefano Salis. In copertina figurava il marchio della Cuec editrice e il prezzo era di ottomila lire. Si può dire che col passare degli anni "La grotta della vipera" ha tenuto fede a una serie di istanze forti dalle quali non si è mai discostata. La filosofia di questa rivista era tesa alla valorizzazione e allo studio della cultura sarda (in particolare della letteratura), alla proposta di poesie e racconti di autori di diverse latitudini, al dibattito su temi come l'identità e l'autonomia. Senza pregiudiziali ideologiche, condizionamenti politici di nessun genere. Tra i collaboratori, molti i docenti delle due università isolane. I cui contributi sono particolarmente determinanti nei numeri monografici della rivista, incentrati su un tema o un settore culturale di spicco. In questa rivista hanno pubblicato racconti quasi tutti gli scrittori sardi affermatisi nelle ultime stagioni letterarie. Insomma non c'è questione (compresi i nodi della grafia della lingua sarda) che non sia stato affrontato nelle pagine della "Grotta della vipera". In certi momenti Antonio Cossu annunciava la fine della rivista, specie quando faceva tutto da solo, nel suo appartamento di via Istria a Cagliari. Correggeva le bozze, affrancava le buste contenenti le riviste destinate agli abbonati. Ma poi andava avanti, numero dopo numero, rimettendoci di tasca quando non bastavano i soldi per la stampa. Ma il vero miracolo della "Grotta della vipera" è un altro: nessuno fra le centinaia di collaboratori italiani e stranieri ha mai avuto una lira di compenso. Da qualche anno questa rivista non esce più. Dopo la scomparsa di Antonio Cossu (avvenuta a Santu Lussurgiu nel 2002), uno dei suoi sogni si è realizzato. I narratori giovani e anziani sono stati fatti conoscere grazie alla sua rivista, con racconti, interviste, recensioni, dibattiti. Chi si occupa di Salvatore Mannuzzu, Giulio Angioni, Sergio Atzeni, Flavio Soriga, Marcello Fois e altri non può fare a meno di consultare i fascicoli della "Grotta della vipera", lungo un ampio arco di anni.
Giovanni Mameli
  
2 – L’Unione Sarda
Pagina 22 -. Provincia di Cagliari
Tesi di un'agronoma sassarese
Terre e Sole, la coop modello
Una cooperativa agricola di Pula, la Terre e Sole di Santa Margherita, come emblema della rinascita dell'agricoltura nel Sud della Sardegna. Lo afferma Lucia Aresu, 24 anni, neo-dottoressa in Agraria all'Università di Sassari, nella sua tesi di laurea discussa il 22 luglio. A corredo della sua analisi tecnica ed economica ci sono dati, indagini di mercato e interviste ai protagonisti di questo piccolo miracolo, gli agricoltori di Pula. "Origini, evoluzione tecnica ed economica della cooperativa Santa Margherita Terra e Sole" è il titolo della tesi di laurea che ha meritato un sonante 110 e lode. La neo dottoressa ha tracciato un percorso sul mondo rurale della zona di Santa Margherita e mostrato l'evoluzione della tecnologia della cooperativa di "Santa Margherita Terra e Sole". La tesiUn lavoro di cento pagine, realizzato con la supervisione dei relatori, i professori Salvino Leoni e Francesco Nuvoli, ricco di fotografie, tabelle e grafici. La tesi ha illustrato gli aspetti climatici dell'area di Pula, ripercorrendo la storia di questa florida zona agricola, dalla riforma agraria che ha sancito l'arrivo dei tunisini negli anni '60, e presentando uno studio attento sulle origini e evoluzioni tecniche della cooperativa. La tesi si conclude con uno studio sui mercati e un'analisi sui bilanci dell'azienda, che nel 2004 ha prodotto 110 mila quintali di pomodori per un fatturato pari a 12 milioni di euro. Il conteNell'opera che è costata alla giovane macomerese mesi di lavoro, emergono notizie storiche interessanti: come la storia del conte Pietro Nieddu, avvocato e ricco proprietario terriero che agli inizi dell'800, insignito del titolo nobiliare per aver piantato 4.500 olivi nella sua tenuta di "Cussorgia di Santa Margarita". Parecchi anni dopo, era il 1952, la zona conobbe l'esproprio da parte dell'Etfas (Ente per la trasformazione fondiaria e agraria in Sardegna). Lucia Aresu dopo aver conseguito la specializzazione in culture protette e ornamentali, comincia a pensare al proprio futuro. Sul campo«Scegliere la cooperativa "Santa Margherita Terra e Sole" è stato un consiglio prezioso suggeritomi dal professor Salvino Leoni», ammette Lucia Aresu, «è stato un lavoro duro ma che mi ha dato tante soddisfazioni. Il loro lavoro è un esempio: sono all'avanguardia sia con i macchinari, sia con la scelta dei semi, sia con la sperimentazione che non trascura neanche i prodotti che altri coltivatori hanno abbandonato come alcuni pomodori altrove scomparsi». Per la giovane prezioso è stato il contributo dell'Ersat che ha contribuito a fornirle tutto il materiale storico necessario, e quello di Nino Siclari, presidente della cooperativa che le ha consigliato di consultare alcune pubblicazioni. «Mi preparerò per l'esame di Stato», annuncia, «e più avanti, se arriveranno offerte di impiego, le analizzerò con cura, ma non escludo di lavorare in proprio come libera professionista». Fa molto piacere a Nino Siclari essere preso ad esempio come modello di gestione ed essere diventato elemento di discussione nelle sale di un Ateneo: «Siamo orgogliosi di essere stati argomento di una tesi di laurea», dice il presidente della cooperativa, «se poi consideriamo che lo studio è stato condotto da una giovane che non è del posto e che ha quindi richiesto ancora più impegno, ci fa ancora più piacere».
Ivan Morgana
 
 
 
 
3 – Corriere della Sera
Ala Fakhory frequenta la facoltà di Ingegneria elettronica nell’ateneo di Ariel, nei Territori: «Siamo in 350 arabi. Qui non c’è razzismo»
E i palestinesi studiano all’università dei coloni
DAL NOSTRO INVIATO
ARIEL - Ancora prima di superare il test d’ammissione, cancellare i dubbi e trovare i soldi per la retta, Ala Fakhory ha dovuto affrontare il no dei genitori. Che si opponevano non tanto per ideologia (un palestinese che va all’università dei coloni), quanto per paura: «Non è che nel campus scorrazzano uomini armati?» gli hanno chiesto.
Ala, 24 anni, è uno dei trecentocinquanta studenti arabo-israeliani che hanno scelto di frequentare i corsi ad Ariel, insediamento di oltre ventimila abitanti sulle colline della Cisgiordania. Una vera e propria città con palazzi di dieci piani, che Ariel Sharon ha assicurato non abbandonerà mai. Tre volte la settimana arriva quassù da Gerusalemme Est per seguire le lezioni, se tutto va bene fra un anno si laurea in ingegneria elettronica, poi vuole continuare con il master. «Mio padre e mia madre credevano fosse un avamposto pieno di estremisti, dicevano che avrei subito attacchi razzisti. Non immaginavano ci potesse essere un college».
In maggio l’associazione dei docenti britannici aveva lanciato una campagna di boicottaggio dell’università Bar-Ilan di Tel Aviv perché i suoi professori insegnano ad Ariel. La politica non interessa ad Ala. Si considera palestinese, ma non crede di legittimare gli insediamenti pagando tasse universitarie che vengono reinvestite qua e non teme che i vicini di casa lo accusino di essere un collaborazionista. «Il mio futuro è più importante. Non avrei potuto scegliere il politecnico di Haifa perché i test di ammissione sono troppo alti. Ho bisogno di guadagnare per la retta, a Gerusalemme lavoro in un’azienda che produce componenti elettronici».
Rfaat Sweidan (un master in sociologia alla Bar-Ilan) è il coordinatore per gli studenti arabo-israeliani. Arrivano per la maggior parte dai villaggi attorno ad Hadera, nel nord del Paese, ottanta di loro restano a dormire ad Ariel. «Il 25-30% del totale sono ragazze, girano tranquillamente per il campus indossando il velo. Non c’è razzismo». Spiega che il college offre programmi speciali per preparare ai corsi di livello superiore. «Per molti questa università è l’unica alternativa, non potrebbero mai permettersi altri atenei».
Tutt’e due hanno visto la notizia sui giornali: i coloni evacuati lunedì da Netzarim hanno trovato un accordo per installarsi nei dormitori del college. Almeno per l’estate, quando non ci sono lezioni. Sorridono imbarazzati, leggendo le parole del leader della comunità sgomberata da Gaza: «Non sappiamo se rimarremo in Cisgiordania. Siamo un gruppo con una forte motivazione ideologica e stiamo cercando una missione da compiere».
D. F.
 
 
 
4 – Corriere della Sera
bestseller di ieri tutti da rileggere
di ERMANNO PACCAGNINI
Nel muoverci nella storia della letteratura siamo un po’ tutti vittime dei luoghi comuni. E dell’insegnamento scolastico: come programmi; e come docenti, considerando quella suddivisione che nel corso del triennio delle superiori a ogni inizio d’anno pone alunni e docenti di fronte alla scalata delle classiche tre «Cime di Lavaredo»: Dante-Petrarca-Boccaccio; Ariosto-Machiavelli-Guicciardini (o Tasso a scelta); Foscolo-Manzoni-Leopardi, senza ovviamente dimenticare i classici inquadramenti (Provenzali-Dolce stil novo; Umanesimo-Rinascimento; Neoclassicismo-Romanticismo); ad affrontare i quali si finisce, inevitabilmente, nel migliore dei casi a metà anno. Conseguenza: una faticosa corsa a ostacoli contro il tempo per cercare di fare il più possibile delle restanti parti. Di qui, inevitabili, veri e profondi orridi nelle conoscenze letterarie. Per converso, c’è invece poi in ambito universitario il culto dei minimi: quel viaggio alla scoperta e al recupero dei minori che porta spesso ad apprezzare maggiormente la perizia della ricostruzione filologica che il testo stesso, e ove si finisce non di rado per elevare quei nomi a un rango che francamente loro non compete. Con questo non voglio dire che si tratta di studi inutili. Tutt’altro. Anche perché i vuoti negli studi della nostra letteratura «devono» essere riempiti; ma lo devono in un’ottica di diacronia letteraria. In quell’ottica che sappia distinguere l’apprezzamento di valore da quello di importanza. Si pensi a Giovanni Prati, per esempio: un autore le cui poesie per gran parte fanno davvero venire il latte alle ginocchia. È un dimenticato, eppure con la sua musicalità ha condizionato moltissima poesia dell’Ottocento (anche di chi lo disconosceva). È un rimosso: eppure nel bel mezzo della fortuna del romanzo storico scrive un poema in cinque canti, Edmenegarda , prendendo come spunto uno scandalistico fatto di cronaca accaduto poco prima e crea un bestseller che - oggi francamente illeggibile - non solo diviene fonte prima delle lacrime di tutte le lettrici dell’epoca, ma condiziona anche un certo modo di far letteratura, che passa dal tema storico al tema contemporaneo. E il bello è che poi, quando arrivi alle sue ultime poesie, quando cioè è un fuori-tempo dominando la Scapigliatura, scopri, per dirla con Baldacci, che può talora far pensare a d’Annunzio e a certo gusto conviviale di Pascoli.
È il discorso della storicizzazione degli studi letterari. Che significa poi anche studio delle fonti. Perché, insomma: anche in letteratura nulla nasce dal nulla. E l’atteggiamento può essere esemplificato in quanto Pascoli scrive a proposito di Emilio Praga, un altro autore che a metà Ottocento frantuma i canoni letterari sia in poesia che in prosa: «Vero poeta, Emilio Praga! Un po’ duro, certo, un po’ trascurato. Qualcosa c’è, sempre, nelle sue cose che tu vorresti non ci fosse; ma quante ce n’è poi che non sono che di lui e in lui». Ed è a queste che Pascoli guarda; e attinge. Perché proprio il grande autore è spesso - anzi, quasi sempre - colui che conosce perfettamente quanto è già avvenuto: sapendosene alimentare. E intendo «alimento», non «plagio», come spesso anche stupidamente si è detto. Il che significa soprattutto la capacità di trovare la pietra caduta per via e di farla divenire elemento importante della propria costruzione. Dandole un significato diverso. Riempiendola di sé. Personalizzandola.
Anche nel caso del grande «copiatore» d’Annunzio quando in I pastori (Alcyone ) riprende dal primo canto del Purgatorio il «tremolar de la marina». Basterebbe pensare a quale diverso significato assume in Leopardi quel «vaghe stelle dell’Orsa» che ripropone un’espressione, «vaghe stelle», di grande fortuna poetica dalle origini al Monti; ma diventa tutta sua perché lì dentro ci sta tutta la sua poetica: della vaghezza, del peregrino, del ricordo e così via.
O ancora, per riprendere un’altra citazione regalata alla nostra memoria dalla scuola: la «pargoletta mano» del Carducci, che con lui sale a vertici espressivi dopo aver attraversato in varie forme la poesia italiana; e per la quale Carducci ha un referente ben preciso: Torquato Tasso; il quale, non contento di giocare quella espressione in tutte le possibili varianti, la cala specificatamente in un sonetto, Al signor Cesare Logorio , anche lì, guarda caso, steso in occasione d’un lutto, nel quale si rammemora «che solo e poco / la pargoletta mano in lui s’accese... pura innocenza». Ma proprio Tasso dice anche d’un altro aspetto del sommerso letterario. E ce lo dice soprattutto con le sue 1708 rime, schiacciate nella conoscenza generale dalla Gerusalemme liberata , e che invece, da quell’immenso laboratorio della poesia italiana che sono state (e sono), hanno fornito materiali sotterranei a tutti i poeti venuti dopo di lui. C’è, voglio dire, il sommerso di alcune opere anche di grandi autori, messe in un angolo. Si pensi alla Storia della colonna infame di Manzoni, per oltre un secolo dimenticata e non apprezzata (se non da Tenca e Rovani), quindi fonte della rivisitazione del romanzo storico del dopoguerra, e comunque regolarmente ignorata nelle ristampe di quei Promessi sposi di cui è parte integrante: tanto da obbligarli a rileggerli sotto altra luce.
Ma il catalogo delle rimozioni porterebbe assai lontano. Perché, anche quando si scoprono gli «irregolari» delle lettere, quante volte ci si ricorda che certe irregolarità di vita non lo sono di opere, mentre lo sono, e sommerse, quelle di paciosi autori? E insomma: quanto son letti a scuola le Confessioni di un Italiano del Nievo o I Vice ré di De Roberto? Quanto sono rilevate le spie di quanto sta accadendo se poi non si guarda, che so, a Vortice di Oriani o a quel Decadenza dello scapigliato-decadente Gualdo che esce nel 1892, anno di Una vita di Svevo? E, per il Novecento, che dire del buon Tozzi? E dei dialettali: dimenticando che un Porta è in assoluto uno dei massimi dell’Ottocento e Delio Tessa del Novecento? E di quella poesia religiosa che andrebbe studiata nella sostanza e non certo nella esteriore retorica dei contenuti? Perché qui, ad esempio, davvero con Manzoni troveremmo forse solo Rebora. Quel Rebora così ricco di stimoli inizialmente con le sue poesie espressionistiche (e ne hanno tratto frutto in diversi, a partire da Montale). E così semplice e al tempo stesso profondo con le ultime. Quelle in cui la è la Grazia stessa a farsi parola.
 
 
5 – Corriere della Sera
Il manager del Policlinico Umberto I
«Nessun favore, né a destra né a sinistra»
Montaguti e la sfida del rinnovamento: niente bacchetta magica, intesa con i sindacati
Roma. «Ho trovato forti conflitti tra sindacati, tra personale universitario e ospedaliero e all’interno della stessa direzione... ho visto che ci sono ancora nei reparti stanze con 6 letti, l’esubero di personale è macroscopico e c’è un grande progetto di ristrutturazione, ma ho l’impressione che sia in alto mare». Ubaldo Montaguti, direttore generale del Policlinico Umberto I dal primo agosto, fotografa così la situazione attuale di uno dei più grandi, antichi e tormentati ospedali di Roma e d’Italia. È in grado di tracciare una sorta di «road map»?
«Il problema più urgente è quello di ricucire le relazioni interne, cancellare i contrasti e i rapporti conflittuali che ci sono stati in passato tra la facoltà di Medicina e l’ospedale. Non ho la bacchetta magica e sul passato non voglio dare giudizi, ma quando i progetti sono il frutto di mediazioni e sono condivisi dalla maggioranza degli operatori, allora vanno in porto».
Lei quindi cercherà consensi?
«Con l’appoggio totale dei vertici dell’università "La Sapienza" e della Regione cercherò i consensi della maggioranza, senza fare favori a destra e a sinistra per ottenerli. Qualche scontento ci sarà sempre».
Da dove comincerà?
«Ho detto al direttore sanitario che deve assolutamente cominciare a lavorare sul pronto soccorso, sul dipartimento di emergenza: qui manca un grande reparto di osservazione breve intensiva e reparti "cuscinetto" tra il pronto soccorso e le divisioni ordinarie per curare malati non gravi con rapidità. Bisogna lavorare anche sul Centro unico di prenotazione, ma in ospedale mancano molte altre cose...».
Ci fa qualche esempio?
«Manca un sistema informativo, si lavora ancora troppo sulla carta. Entro la fine dell’anno presenterò un progetto di riorganizzazione partendo dalla pianta organica che non esiste: così potremo capire quanti infermieri, medici, tecnici e amministrativi ci sono, quanti ne servono e poi preparerò un piano di rientro . Siamo abbondantemente in esubero: 6.400 dipendenti per meno di 1.500 letti...».
E forse anche avere 49 sale operatorie è esagerato.
«Forse sono troppe, ma anche le liste d’attesa per operarsi nel Policlinico non sono brevi: il problema è che ogni sala operatoria non lavora 8-12 ore al giorno».
I rapporti con i sindacati?
«Vorrei stipulare con loro al più presto un protocollo d’intesa per superare vecchie divisioni e lavorare insieme al futuro. Questi scontri hanno generato spesso immobilità e pesanti disagi: la conflittualità patologica uccide l’ospedale».
A quanto ammonta il deficit?
«Nel 2005 il buco previsto dovrebbe aggirarsi sui 103 milioni, ma io ho chiesto che venga certificato il bilancio a partire dal 1° agosto. Voglio capire bene quali sono le voci principali di spesa. E vorrei confrontare questi dati con quelli di altri policlinici».
Nell’Umberto I si dice che ci sono grandi eccellenze, dalla pediatria alla neurochirurgia, dal centro trapianti all’ematologia , ma non si riesce mai a decollare: perchè?
«È indispensabile responsabilizzare tutti i professionisti: dai capi dipartimento in giù, infermieri compresi. Tutti devono conoscere il loro ruolo preciso e quali regole devono rispettare, ma la logica della difesa degli orticelli deve finire...».
Cosa pensa del mega progetto di ristrutturazione, approvato dalla Regione alla fine del 2004?
«Non lo conosco bene, ma aprire un grande cantiere dentro un ospedale potrebbe causare pesanti disagi per tutti: prima vorrei preparare un piano per riorganizzare le degenze e renderle più accoglienti: basta stanze a 6 letti. E poi vorrei rifare la segnaletica, vecchia di decenni. Le cucine e la centrale termica le metterei fuori dall’ospedale: l’odore di brodino tra i padiglioni non è il massimo».
Come si fa a tagliare gli sprechi senza ridurre servizi?
«I malati devono essere trattati con prestazioni essenziali e indispensabili, colmando le carenze che ci possono essere. Nostro compito è ridurre le prestazioni inappropriate e tagliare gli sprechi: del resto i malati curati male si riammalano».
Ma lo sa che nel Lazio, di fatto, non esistono controlli di appropriatezza?
«Lo so, ma questa è l’unica strada da percorrere: se ci riuscirò, lo vedremo».
Direttore, c’è stata una interrogazione sul contratto stipulato dal Policlinico con sua moglie, la dottoressa Celin.
«Non commento e non voglio fare polemiche. Tutto è stato fatto alla luce del sole, mia moglie lavora con me da trent’anni».
Francesco Di Frischia
 
 

Questionario e social

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