Lunedì 6 febbraio 2006

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
06 febbraio 2006
Rassegna a cura dell’Ufficio stampa e web
Segnalato 1 articolo della testata: La Nuova Sardegna.

 
1 – La Nuova Sardegna
Pagina 4 - Sardegna
Quando la ricerca scientifica si trasferisce in campagna
Antesignano della storia agraria dell’isola il professor Antonio Vodret
A lui si devono le nostre eccellenze alimentari
 
La storia agraria della Sardegna ha il suo sancta sanctorum a Sassari, via Enrico De Nicola, primo piano del Dipartimento di scienze ambientali e biotecnologie agro-alimentari. Qui ogni mattina ritorna a passi lenti il professor Antonello Vodret, barbetta bianca rada sotto il mento, 77 anni portati benissimo dopo mezzo secolo di insegnamento e di ricerche nelle poche eccellenze delle nostre campagne: vino, formaggio e olio.
 Vino e acqua: la maggior parte delle nostre acque minerali prima di finire nei nostri bicchieri hanno l’imprimatur Vodret. Ma torniamo a vini, olio e formaggi. Se questi tre prodotti viaggiano per il mondo il merito parte da queste aule perché la ricerca scientifica e la tecnologia sono uscite dai laboratori dell’Università e mano a mano sono approdate negli ovili, nei vigneti e negli oliveti. «Dal dopoguerra la Sardegna dei campi è uscita dalla preistoria e sa competere nei Continenti», dice soddisfatto Vodret indossando il suo camice bianco appeso a un attaccapanni della stanzetta monastica dove sta ultimando di scrivere «Le industrie agrarie nella storia millenaria della Sardegna». Il testo dovrebbe uscire tra pochi mesi per festeggiare i sessant’anni di una facoltà che ha dato lustro a Sassari e all’Isola. Un’opera utile e attesa. Perché ha la firma di un innovatore, di un chimico diventato professore-mito, schivo, riservato, modesto come i veri grandi. Qualche tempo fa, su questo giornale, Manlio Brigaglia aveva spiegato le ragioni del mito: «Vodret sta al moderno vino di Sardegna come Bacco e Sardus Pater stavano a quello antico». Il titolo al pezzo di Brigaglia: «Dall’era della melassa ai grandi vini sardi di oggi».
 Era molto arretrata la viticoltura. Non è quella degli Argiolas e di Santadi, di Sella & Mosca di Alghero, dei Meloni di Selargius e delle cantine private e sociali che hanno saputo innovare. Era viticoltura preistorica, non poteva competere. I nostri vini erano usati da taglio e finivano oltretirreno a crear reddito altrove. Dice Vodret: «I grappoli d’uva toccavano per terra, ancora all’inizio degli anni ’60 era in vigore un sistema di allevamento di tipo catalano. I ceppi erano legati in alto con un tripode di canne, lo si chiamava sistema alla sardisca, l’alberello era basso, i grappoli sorbivano non solo il calore del sole ma anche quello radiante del terreno surriscaldato. Avevano perciò una combustione metabolica dell’acido malico e l’acido risultante era prevalentemente tartarico. Dovevamo convincere gli agricoltori a cambiare sistema di allevamento anticipando la vendemmia, non più alla fine di ottobre ma dopo il 20-25 agosto. Ciò consentiva di ottenere un’uva con minor contenuto zuccherino e un miglior equilibrio acidico».

Sembra di vedere missionari laici della vite: «Si andava dai viticoltori, si facevano conferenze, un’azione importante l’ha svolta il consorzio per la frutticoltura, facciamo capire che andava premiata la qualità, non la quantità. Da tre milioni di ettolitri all’anno siamo passati a meno di un milione. E oggi i vini sardi sono di prima grandezza».
 Si formano enologi sardi, Vodret è uno dei maestri ma gli piacciono gli innesti: «La presenza nell’isola del dottor Giacomo Tachis è stata decisiva perché oltre a essere un ottimo tecnico di caratura mondiale sa valorizzare i vini economicamente. Tachis ha fatto scuola, la Sardegna gli deve essere grata». In una pubblicazione dal titolo «L’Istituto di industrie agrarie della facoltà di Agraria» ha ricordato le varie tappe di questo processo: prima un’indagine per verificare la percentuale di metalli pesanti - rame, zinco, mercurio - nelle bevande, difesa della genuinità dei vini, concessione dei certificati per l’export, indagine sulla composizione dei mostri sardi «con particolare riguardo alla componente acidica e alle differenze supportate dalle diverse forme di allevamento». Dice Vodret: «Dovevamo far capire che occorreva tener conto delle esigenze del consumatore, non più il vino del contadino certo genuino ma non perfetto, il vino doveva essere quello della buona terra sarda e dell’enologo, della scienza. Questo è stato il fatto rivoluzionario nelle nostre vigne». E poi la caratterizzazione dei vini speciali, i consigli per l’invecchiamento di vernaccia e malvasia, ricerche sui sottoprodotti dell’industria enologica, la miglior utilizzazione possibile del sughero per evitare che il tappo difettoso danneggiasse la bevanda. «In questo sforzo è stato importante l’apporto della Stazione sperimentale di Tempio». Per saperne di più è utile la lettura dell’ultimo libro del professore edito da Unione vini italiani. Titolo: «Storia regionale della vite e del vino in Italia, Sardegna». Sono 342 pagine piacevoli di scienza agraria.

Stessa trafila per il formaggio. Ovili polifemaici, sporchi, non era pulito il latte, non poteva essere pulito e perfetto il formaggio, nemmeno quello da esportare negli Stati Uniti. E spesso rientravano intere partite di “pecorino romano” igienicamente improponibili. Occorrevano i missionari: non solo i veterinari ma anche gli agronomi. «Abbiamo iniziato col fissare gli standard qualitativi sul latte, sui formaggi, sulla ricotta. Nascono i formaggi molli di pecora. Con i colleghi delle università di Bari, Napoli, Perugia e Milano è stata impostata una ricerca pluriennale sulle variazioni genetiche della caseina per verificare il riflesso tecnologico sulle caratteristiche della cagliata e sui relativi processi di maturazione. Oggi possiamo dare a ogni formaggio una carta d’identità, con garanzie totali per il consumatore».
 Oggi formaggio vuol dire anche prezzo del latte, qualità del latte, il suo parere professore?
 «Senza standard elevati di qualità non si va da nessuna parte soprattutto oggi con la concorrenza scatenata sui mercati. Ancora oggi, spesso, la materia prima è scadente e gli industriali non hanno tutti i torti, il mercato detta legge e il mercato si chiama dollaro. Ma anche il pastore fidato va remunerato, è sua la materia prima senza la quale nulla si fa».
 - Ancora e solo pecorino romano?
 
«No. Ma il pecorino romano ha fatto salti da gigante. Oggi è eccellente, lo si deve agli studi di questo nostro ateneo, in particolare al microbiologo Pietrino Deiana. L’università è stata affianco dell’ovile e dell’industria. Oggi si vendono anche i formaggi molli dove la competitività è agguerrita. Con questi problemi occorre confrontarsi, la demonizzazione non serve».
 Stesse considerazioni sull’olio. Che oggi ha veri capitani di industria, da San Giuliano di Alghero ai Cosseddu di Seneghe, da Chieddà di Siniscola all’olio del Parteolla, e così a Ittiri, Dorgali, Orosei e chissà quante aziende d’eccellenza non vengono citate. Nel processo di modernizzazione dei nostri oliveti l’opera di Agraria è fondamentale. È l’Istituto di Vodret che partecipa al piano olivicolo regionale. «Abbiamo creato un piccolo impianto di molitura a Oristano nell’Istituto delle coltivazioni arboree e servirà a migliorare i nostri oli che viaggiano per tutta l’Europa».

Quello dei Vodret è stato un innesto, salutare come tutti gli innesti. La storia di questa famiglia di origini savoiarde muove i suoi primi passi alla fine del 1700 quando Bartolomeo, uno dei capostipite di una famiglia di Casal Monferrato, sbarca a Cagliari come «ufficiale dell’armata piemontesa». Il cognome era scritto alla francese, Vaudret, poi fu italianizzato «e io accentuo ancora la T per evitare che dopo il dittongo si perda anche quella caratteristica T finale. Mi resta anche l’erre moscia d’Oltralpe e ne vado orgoglioso».
 Orgoglio che poi si sardizza al massimo. La famiglia mette radici a Cagliari, con Francesco il commerciante, Ignazio che diventerà canonico, comprano terreni a San Gregorio e nascono i matrimoni con la borghesia cagliaritana dei Palomba, dei Siotto Pintor, dei Marini. Il padre di Antonello è Francesco Vodret noto Ciccio che sposa una romana, Teresa Moretti, figlia del proprietario del ristorante Ulpia in piazza Foro Traiano. La casa è nel cuore di Stampace, a «Su Cunduttu». Nascono cinque figli, Antonello è il terzo dopo Angela che morirà da piccola, Gaetano che diventerà direttore delle Strade Ferrate Sarde a Sassari e due sorelle - Giancarla e Giuseppina - che abitano a Cagliari.
 Antonello respira in casa aria chimica. Ma gli piace la fotografia. Fa amicizia con i Cosentino, gli ottici di Cagliari. Conosce Lorenzo Del Piano che affida i suoi scatti a una Rolley, frequenta Aldo Pizzi il più grande fotografo che abbia avuto il quotidiano di Cagliari L’Unione Sarda nel dopoguerra. Antonello ha una Leica. Con Del Piano viaggia per la Sardegna a fare anche i documentari della neonata Regione autonoma. Servizi per Il Corriere dello Sport («spedivamo le foto a Roma fuorisacco»). Crea “con Giraldi” una società di fotoreportage, la Cifra.

Lavoro, hobby dello scatto e anche lo studio. Ritorna la chimica. Il padre dirige il laboratorio chimico della scuola di Enologia creata a Cagliari da Sante Cettolini, poi diventa preside dell’Istituto agrario e infine docente di chimica agraria alla facoltà di Chimica e poi di Chimica generale a Medicina e Chirurgia. Sono gli anni del fascismo, Ciccio Vodret è amico e collaboratore di un gerarca potente, Enrico Endrich, avvocato fra i più popolari. Cade il Regime e prende cattedra all’Università.
 Antonello segue le orme paterne. Si laurea in Chimica a novembre del 1952. Dopo due mesi trova lavoro a Sassari. È il direttore dell’Istituto di chimica agraria Valentino Morani a proporglielo. Morani è collega del padre di Antonello, una cena al ristorante del Moderno in via Roma e contratto concluso. «Professor Morani aveva detto a mio padre: ho bisogno di un chimico, Antonello è nato in laboratorio, dammelo». Dal primo gennaio 1953 Antonello è a Sassari come responsabile del laboratorio della giovane facoltà. Preside Ottone Servazzi, «asburgico tutto d’un pezzo». Antonello inizia col rilevamento pedologico del Campidano per predisporre l’irrigazione, nel 1952 si festeggia la prima laurea in Agraria, neodottore è Giorgio Muscas di Giba. Dal Campidano alla Sardegna settentrionale, «ci guidava un grande, Michele Vitaliano che arrivava dalla scuola di Portici». Antonello è già ricercatore, studia vino, olio e formaggi «perché erano i settori da valorizzare della nostra agricoltura». Nasce un feeling politico con Paolo Dettori. Decolla lo stabilimento dei Pinna di Thiesi, nei formaggi era già all’avanguardia alla fine degli anni ’50. C’è Antonino Pinna, genio agrario e industriale, l’imprenditore del Meilogu che vende tecnologia casearia agli olandesi. Tappe firmate Università e Vodret. «Prima il pecorino romano si salava solo a secco, siamo noi con i Pinna a sperimentare la prova in salamoia, ed è la metamorfosi».
 Vodret è gettonato. Guadagna. «Nel 1961 avevo 719mila lire di stipendio, 169 di indennità di ricerca, 382 per l’insegnamento. E mi sposo». Sposa a Pisa, in una chiesa sul LungArno, Emma Cavallini nota Memi, nascono tre figlie, Teresa, farmacista, Carlotta indegna fotografia all’istituto d’arte di Alghero, Simona francese e spagnolo.
 Ogni mattina Vodret ritorna in facoltà. Perché tra queste mura c’è la vita di uno scienziato vissuto tra i campi. Soddisfatto? «Sì, vedo una Sardegna modernizzata anche da noi, dai docenti in camice bianco di Agraria». Teoria e pratica. Membro dell’accamedia italiana della vite e del vino, docente all’Università della terza età. Ha anche un suo terreno, a Serra Longa di Sorso «dietro la fascia dunale di Platamona, c’era un vigneto filosserato. Ora ho un orto e gli agrumi. Ottimi i miei mandaranci».

Questionario e social

Condividi su:
Impostazioni cookie