Parlando di “Performance sportiva e genetica molecolare”, si forniranno così i primi risultati di una ricerca che se appassiona a livello internazionale, da noi conta pochi adepti. ‹‹In Sardegna - dice Alberto Concu, docente di fisica dello sport - siamo forse i primi ad occuparci di questo aspetto della ricerca››. Ma si parlerà anche della valutazione funzionale dell’atleta, sotto i diversi profili, di “somatotipo e performance sportiva”, passando per alcuni temi di ricerca in psicologia applicata allo sport. I lavori cominceranno alle 9, con i saluti delle autorità, e andranno avanti per tutta la giornata. Nel pomeriggio sono previsti interventi da parte di giovani ricercatori, mentre ai giovani laureati è dedicata la sezione “poster”, una carrellata delle più brillanti tesi sperimentali discusse in questi pochi anni di vita di Scienze motorie, corso che offrendo una preparazione a 360 gradi, riesce oggi a proporre agli studenti un’ampia varietà di sbocchi occupazionali. (s.z.)
Questo a causa di un fenomeno non linguistico, ma sociolinguistico, che si chiama diglossia. Se, per esempio, le lingue in gioco sono due, facciamo l’italiano e il sardo, una delle due viene usata in tutte le situazioni, l’altra costretta, per la pressione diglottica, ad ambiti sempre meno ufficiali e sempre più ristretti, e a un ventaglio di argomenti sempre più limitati e privati: non a scuola, non in televisione, non col professore o con l’avvocato, ma solo con gli amici, per parlare di sport e via limitando.
Col tempo, quella lingua non solo continuerà a restringere progressivamente le sue funzioni o usi sociali, ma comincerà anche a impoverirsi nelle sue stesse strutture: la fonetica, il lessico (sempre più infarcito di termini tolti dalla lingua dominante), e alla fine la stessa grammatica.
Per quanto riguarda il sardo, il processo di degradazione delle strutture non è ancora molto evidente, mentre quello di ulteriore e rapidissima emarginazione dagli usi sociali è molto avanzato.
Sotto questo aspetto desta non poche preoccupazioni una singolare dimenticanza, quasi un lapsus freudiano, da parte di non pochi di coloro che si interessano del problema. Si dimentica che la dinamica delle lingue è determinata dagli usi sociali e dal mercato. Non si parla sotto vetro. Il codice lingua si inscrive in cornici più ampie, vale a dire in altri codici (sociali, culturali, ecc.), insomma in un determinato contesto di comunicazione sociale che mi piace definire «habitat segnico», dal momento che si tratta di un ecosistema.
Quando uno parla, infatti, produce significati con le parole; ma è anche vero che su quelle parole piovono altri significati dalla situazione, dai cosiddetti giochi linguistici e forme di vita (Wittgenstein) o orizzonte di sapere che dir si voglia (Habermas).
E allora? Allora - come mi è capitato di dire tante altre volte - occorre agire, oltre che sulla lingua, sul sistema politico, sociale e culturale relativo a quella lingua. Come dire che, se davvero si vuole salvare il sardo, occorre predisporre nuovi percorsi comunicativi, aprire nuovi ambiti d’uso che rendano utili e produttivi anche sul piano pratico quei percorsi, che restituiscano dignità e respiro sociale al sardo, che siano produttivi anche in termini economici: in una parola, che diano prestigio alla lingua e a chi la parla. Insomma, qualcosa che somiglia una vera e propria rivoluzione politica, economica e sociale.
È chiaro che se resta in piedi il sistema di variabili sociali, politiche e culturali che conosciamo, il destino del sardo è segnato. Ma poiché le previsioni in campo sociale si sono sempre rivelate sbagliate, credo che sia più produttivo non stracciarsi le vesti e darsi da fare per rivitalizzare la lingua restituendola a tutti gli usi sociali: che sarebbe anche il modo migliore, per la lingua e per i sardi, di ritrovare dignità e prestigio.
Ma abbiamo perso troppo tempo, e la situazione è diventata critica. Qualche dato serve a capire meglio.
In questo contesto, è utile richiamare l’impegno del presidente Soru (su queste pagine) per una ricerca sociolinguistica di ampio respiro. Cosa utilissima, che però non deve necessariamente precedere gli interventi a favore della lingua, che hanno ormai carattere di estrema urgenza.
A questo punto mi sento autorizzato a ricordare che un discorso di questo genere (non sistematico come quello annunciato) è stato già fatto a suo tempo.
Mi riferisco in particolare a una ricerca sociolinguistica fatta in tutte le classi di tutte le elementari e di tre scuole medie della provincia di Oristano negli anni 1981 e 1986, con una inchiesta di verifica nel 1988. Questa ricerca, condotta da chi scrive con l’aiuto (prezioso) delle autorità scolastiche, di tutti gli insegnanti e di tutti gli studenti, era a sua volta collegata a un corso biennale post-universitario per ricercatori sociolinguisti organizzato dall’università di Sassari e da me diretto nel biennio 1982-83 e 1983-84.
Al corso parteciparono docenti di chiara fama come Carlo Alberto Mastrelli, Corrado Grassi, Renzo Titone, Michel Contini, Giuseppe Francescato, Giovanni Freddi, Tullio Telmon, Massimo Pittau, e altri.
Qualcuno suggerì allora che la Regione avrebbe avuto bisogno non di quindici o venti, ma di cento ricercatori sociolinguisti. La verità è che, alla fine del biennio, nessuno di quei ricercatori venne mai chiamato a esercitare le sue funzioni di ricercatore dalla Regione, né da altri enti o strutture.
Una specializzazione non solo necessaria, ma preziosa, inutilmente sprecata.
In quanto alla ricerca sociolinguistica, mi permetto di riassumere brevemente alcuni dati, che già allora, proiettati nell’immediato futuro, apparivano drammatici.
Gli alunni che parteciparono all’inchiesta in questione furono 5.998. Mi limiterò a riportare, senza commento, alcuni dati, rimandando per il resto al mio «Lingua e cultura in Sardegna. La situazione sociolinguistica», Milano, Unicopli 1988.
Domanda: «Che lingua parla tuo padre?». Risposta degli alunni: sardo (l’85% nel 1981 e il 55,8% nel 1986) e italiano (il 13,2% nel 1981 e il 43,3% nel 1986).
Le percentuali calano di poco per la madre: sardo (l’82% nel 1981 e il 51% nel 1986) e italiano (il 16,3% nel nel 1981 e il 47% nel 1986).
«Tu che lingua parli?». La risposta è: sardo (47% nel 1981 e 12,5% nel 1986, con un calo sensibilissimo nel breve spazio di cinque anni) e italiano (51,7% nel 1981 e 87,5% nel 1986).
I genitori tra di loro alternavano le due lingue, sarda e italiana (solo sardo il 51,8% nel 1981 e il 23% nel 1986). Ma si rivolgevano ai figli preferibilmente in italiano o in italiano e sardo. Usavano solo il sardo coi figli nelle seguenti percentuali: 18,9% nel 1981 e 4,8% nel 1986. Il sardo a scuola era praticamente assente (se si eccettuano le poesie, i canti e le fiabe). Gli insegnanti, comunque, tendevano a usare solo l’italiano. Ma i ragazzi avrebbero voluto parlare il sardo a scuola nelle seguenti percentuali: il 68,9% nel 1981 e il 78.8% nel 1986.
A loro volta gli stessi alunni, avendo figli, avrebbero desiderato che parlassero in sardo (9,5% nel 1981 e 1,9% nel 1986), in italiano (31,4% nel 1981 e 22% nel 1986) e in italiano e sardo (53,8% nel 1981 e 60,6% nel 1986).
Alla domanda «Ti pare che il sardo sia una bella lingua?» la stragrande maggioranza dei ragazzi risponde sì (l’82,3% nel 1981 e il 76,9% nel 1986).
Sono dati che fanno riflettere. La competenza e l’uso del sardo calano ancora, sensibilmente, nella verifica (parziale) condotta nel 1988. Oggi la situazione appare in buona parte compromessa.
Che dire dello standard? C’è infine un altro punto sul quale bisognerebbe far chiarezza. Si tratta della curiosa contrapposizione tra la (possibile, ma allo stato attuale improbabile) elaborazione di una lingua unificata e le varietà locali.
C’è addirittura chi crede che il cosiddetto standard significhi la cancellazione delle varietà locali. Ma chi l’ha detto? I due aspetti vanno posti su piani differenti. Si dimentica che solo da poco tempo (e in pochi) gli italiani parlano davvero l’italiano standard. Tutti vogliono salvare il loro dialetto (e chi lo impedisce?), ma pochi si rendono conto che proprio questo atteggiamento (frutto di attaccamento viscerale e non di riflessione) impedisce di vedere il problema nei suoi giusti termini. E così contribuiscono ad affossare sia la lingua che i dialetti.
Non vorrei però insistere sulla questione, oscurata dai pregiudizi e dagli equivoci, del cosiddetto standard. Posso solo ripetere ciò che a suo tempo ho detto in altra sede.
Uno standard non si fa a tavolino, e se si fa a tavolino, si fa non solo coi linguisti, ma anche col sociolinguista, l’antropologo, il sociologo, gli specialisti delle diverse forme di comunicazione (comprese quelle via Internet), ecc., ciascuno col proprio livello di competenza. E non si fa d’autorità, imponendola dall’alto. Si fa con una proposta motivata e fortemente documentata (sull’analisi sistematica dei testi dell’oralità e della scrittura, che costituiscono un immenso patrimonio di cultura del popolo sardo), e si presenta la proposta alla gente, che può approvare o no. Se non approva, si fa una seconda proposta, poi una terza, ecc., sempre tenendo conto dei suggerimenti critici della gente, finché i parlanti (il popolo sardo), non la fanno propria.
Ci vorrà tempo? Molto, ma forse meno del tempo sprecato coi sì e coi ma.
Il vero problema, comunque, non è questo. Il problema è se, fatto lo standard, ci saranno ancora i parlanti.
In alcune facoltà, come ad Alghero, le liste concorrenti sono state quasi doppiate e si è sfiorato il plebiscito.
Al consiglio di amministrazione andranno Michele Solinas e Francesco Barraccu per il Forum che ha raccolto circa 2300 preferenze; Giovanna Pani per Nonsolonumeridimatricola ha ottenuto 1280 voti. Gli studenti all’Ersu saranno rappresentati da Simone Campus, uno dei leader dei “Credibili”, che è stato anche il più gettonato, per lui oltre 2200 preferenze.
Al Consiglio degli studenti il Forum piazza Gabriele Farina, Christian Piano, Cristofer Kamel Hassan, Anna Maria Coccollone e Chiara Strusi; per la lista Nonsolonumeridimatricola passano Christian Secchi e Roberto Demuro. Anche all’interno dei Consigli di facoltà il Forum prevale in quasi ovunque. Solo scienze naturali, lingue e lettere vengono conquistate di misura dai candidati di Nonsolonumeridimatricola.
La terza lista, Progetto lettere e filosofia, riesce a eleggere un solo rappresentante e proprio nella sua facoltà. In tutte le altre era rimasta fuori dai giochi e non era riuscita a presentare candidati. Per questo aveva preteso un rinvio delle elezioni. E sotto accusa era finita la data del voto, a lungo rimasta incerta. Prima delle elezioni il rappresentante degli studenti all’Ersu aveva chiesto che potessero andare ai seggi anche i ragazzi dell’accademia delle belle arti e del conservatorio. Ma la legge nazionale del 1990, che lo prevede, non è mai stata recepita dalla Regione. In attesa che l’assessore Elisabetta Pilia superasse l’empasse, le votazioni erano state bloccate. Ai primi di maggio il senato accademico aveva deciso di escludere accademia e conservatorio e di aprire le urne il 18. «Una vittoria importante per noi - spiega Simone Campus -, ma queste proporzioni un po’ ci sorprendono. È il risultato del lavoro che abbiamo fatto in questi anni. Le facoltà hanno dimostrato fiducia nel nostro programma». Il primo obiettivo per i rappresentanti del Forum affamati di risultati importanti sarà la riapertura della mensa di via Padre Manzella. Gli studenti sono pronti a un braccio di ferro con la Regione. «Ma inviteremo anche il sindaco Ganau a visitare la casa dello studente di via Verona - continua Campus -, dove da anni mancano i marciapiedi. In questi mesi affiancherò Omar Hassan, che resta in carica fino a settembre, lavoreremo insieme per dare continuità al progetto».
Luca Rojch
BOLOGNA - E dopo i filmati sul movimento del ’77, il dibattito «Settantasette, la rivoluzione che viene», naturalmente con Franco «Bifo» Berardi, la proiezione del documentario «Marzo ’77, immagini e suoni del movimento», nell’aula occupata «Francesco Lorusso», al secondo piano della facoltà di Filosofia, si parla della manifestazione di domani. C’è un ragazzo siciliano, barba e maglietta nera, che la prende da lontano, con parole che vengono da lontano: «Perché diciamolo, dietro alla democrazia rappresentativa di questa città si cela la stessa feroce bestia che è il capitalismo, una bestia che ci fa oggetto degli stessi attacchi frontali che subirono i compagni del ’77». Sul muro in fondo allo stanzone e alle finestre sventolano gli striscioni, «zona decofferatizzata», ed è soprattutto di lui che si parla, del sindaco «finto-rosso-vero-fascista».
Guazzaloca era troppo scontato, e in fondo «praticava la politica dell’immobilismo». Adesso la sinistra giovanile e universitaria di Bologna ha un nemico vero. «Uno che finge di essere un compagno - strilla Sara -. Ma che ha militarizzato piazza Verdi con le camionette della polizia». Solo verso sera i dirigenti cittadini di Rifondazione capiscono che si sta personalizzando troppo e «sfilano» il sindaco dagli obiettivi del corteo. Ma vai a spiegarlo a questi, che preparano fantocci con la barba bianca, e scrivono cartelli con l’equazione Cofferati-Zangheri, il sindaco comunista odiato dagli autonomi del ’77. Gli arresti dei tre studenti-Disobbedienti Carmine, Fabiano e Vittorio hanno provocato un cortocircuito. «Liberi subito liberi tutti» sarà il coro in manifestazione. Arriveranno le ex Tute bianche del Nord-Est, ci saranno i collettivi universitari, Rifondazione e Verdi. Per Luca Casarini sarà un trionfo se si arriva a 5.000 persone, in questura ne prevedono duemila.
Comincia tutto con la signora Germana che si presenta in questura a fare denuncia: «Ho sentito trambusto al pianterreno, ho pensato, vuoi vedere che sono i ladri?». Sono tre no global che le hanno occupato due locali in via del Guasto, piena cittadella universitaria. Vogliono farne una copisteria temporanea, per tre giorni. Le occupazioni sono frequenti, ma riguardano sempre immobili pubblici, case Acer, stanze dell’Università. Gli occupanti non si accorgono che questa è proprietà privata. La signora Germana denuncia, la polizia sgombera. Ci pensa l’ispettore capo Miolli, uno di quelli rispettati dalla controparte. Toni soft, fino a quando, in bici, arriva Vittorio Sergi, liderino Disobbediente che da quando è a Bologna ha messo in fila 13 denunce. Quella mattina, è il 27 aprile, si è svegliato storto. Ordina ai suoi compagni di rientrare nei locali. Parapiglia e botte, anche se le versioni divergono. Secondo i magistrati l’ispettore viene aggredito alle spalle, un altro agente si becca un calcione da Sergi. Rispettivamente, 20 e 7 giorni di prognosi.
Va bene la proverbiale tolleranza bolognese, ma menare gli agenti è troppo, non procedere significa delegittimare la questura. E quindi, due giorni fa, gli arresti per i tre aggressori. La Procura contesta anche il reato di eversione. «Lo sviluppo dell’azione criminosa - dice l’ordinanza - rappresenta la materiale concretizzazione dell’impianto ideologico che costituisce la ragione identitaria del gruppo dei "Disobbedienti"». Passaggio un po’ impervio, ma il senso viene ribadito dal procuratore capo Enrico De Nicola: «Le idee, gli slogan, si può tollerare tutto. Ma la violenza no, va stroncata, prima che diventi pericolosa». L’accusa di eversione crea titoli e proteste, ma in Tribunale viene spiegata con la ripetitività di certi episodi, «atti continuati a imporre una regola generale», quella delle occupazioni. E’ un’inversione di tendenza, della quale viene ritenuto responsabile Cofferati, «reo» di avere ordinato lo sgombero di una famiglia nomade e di governare a colpi di ordinanze.
Coincidenze, solo coincidenze, questo dibattito sul ’77 che si sovrappone alla protesta contro il sindaco e a una manifestazione che rischia di diventare faccenda complicata da gestire. L’occupazione dell’aula intitolata allo studente di Lotta Continua ucciso nel ’76 a cento metri da qui è roba di tre giorni fa, come gli inviti a Bifo. Andrea, terzo anno di Filosofia: «Cofferati ha deluso chi credeva in lui. Prometteva di chiudere il centro di permanenza temporanea, ora caccia i nomadi». Giacomo, 21 anni, maglietta nera «No al Ponte sullo Stretto»: «In questa città si gioca una partita importante per le libertà individuali, oggi come ieri». Sia Andrea che Giacomo in quel ’77 non erano ancora nati. Però ne hanno respirato il culto diffuso nell’estrema sinistra bolognese e credono di vederne i riflessi nella situazione attuale. Sarà sicuramente un fuoco di paglia, Casarini che invita i negozianti a tenere le serrande abbassate fa parte del solito copione, il ’77 e le sue tensioni sono passato remoto che si intravede solo nel Cofferati scritto con la «K» sugli striscioni. Però, qui a Bologna, che brutta aria.
Marco Imarisio
SU MISURA - Due le particolarità. La pubblicazione del lavoro su Science-express. E, soprattutto, il fatto che la clonazione terapeutica ha riguardato pazienti colpiti da malattie gravi e attualmente senza cura, diabete giovanile, lesioni del midollo e immunodeficienze. Se l’esperimento continuasse (ma per ora le nuove linee resteranno nel chiuso dei laboratori) le cellule madri, pluripotenti, capaci di differenziarsi nei tessuti che compongono l’organismo umano, potrebbero essere trapiantate nel paziente dal quale sono state generate per andare in teoria a moltiplicarsi e ricostituire le parti distrutte. In pratica per la prima volta si sono create cellule staminali tagliate su misura e pronte ad essere trapiantate in pazienti malati. Prospettiva lontana per l’Italia che si appresta a sottoporre al giudizio dei cittadini, con il referendum, la legge sulla fecondazione artificiale dove tutte le tecniche concernenti la manipolazione dell’embrione, e tanto più la clonazione per fini terapeutici, sono vietate.
WOO SUK HWANG - Primo autore dello studio di Science il coreano ormai abbonato alle scoperte rivoluzionarie, Woo Suk Hwang, veterinario all’università di Seul. Già nel 2004 aveva clonato l’embrione, facendolo fino allo stadio di blastocisti, ma a donare cellule e ovociti erano state donne sane. Tra i firmatari, dopo numerosi nomi coreani, chiude la lista l’americano Gerald Schatten, dipartimento di ginecologia e riproduzione a Pittsburgh. La clonazione è avvenuta col metodo utilizzato in Scozia da Ian Wilmut per duplicare la pecora Dolly nel ’97. In questi anni la tecnica si è raffinata, ha raggiunto un’efficienza maggiore.
I ricercatori hanno prelevato cellule adulte dalla pelle di malati tra 2 e 56 anni. Il nucleo è stato trasferito in ovociti, 185 in tutto, donati da 18 volontarie, a loro volta svuotati. In coltura l’ovocita, rimaneggiato ma non fecondato, ha dato vita a blastocisti, embrioni di poche cellule che sono risultate «pluripotenti, normali dal punto di vista cromosomico e conformi al Dna» dei rispettivi proprietari oltre che istocompatibili. Acrobazie simili in Europa sarebbero possibili solo in Inghilterra dove lo stesso Wilmut ha chiesto e ottenuto l’autorizzazione di procedere alla clonazione terapeutica.
COMMENTI - Una vera svolta? Sta diventando sul serio realtà il sogno di curare molte di quelle malattie che assillano l’uomo come Parkinson e Alzheimer? Non tutti sono d’accordo. Commenti ottimisti si alternano a prese di posizione più caute. «Nulla di nuovo, la ricerca ha un valore simbolico perché è la somma di esperimenti già fatti», la sminuisce Claudio Bordignon, direttore scientifico del San Raffaele di Milano.
Entusiasta invece Carlo Alberto Redi, direttore del laboratorio Biologia dello sviluppo all’università di Pavia: «Lavoro fondamentale: è la prima volta che si ottengono staminali così pulite, ora bisognerà vedere come differenziarle per arrivare alla terapia». Marco Cappato, presidente dell’Associazione Luca Coscioni, non perde occasione per denunciare l’«arretratezza» dell’Italia «dove i coreani finirebbero in carcere. Invece c’è da felicitarsi».
CAUTELA - Veronesi commenta favorevolmente ma avverte: «Una strada da battere, però occorre usare cautela». Angelo Vescovi, San Raffaele, esprime scetticismo sulla clonazione terapeutica: «Un progresso che lascia ancora molti dubbi etici. Per ottenere questo risultato sono stati distrutti blastocisti».
Margherita De Bac
E non a caso, sottolinea Sgreccia, anche questo esperimento è avvenuto in Corea e non negli Usa: «Quel che hanno fatto è una cosa che l’Onu ha dichiarato illecita da tempo e con grande fermezza. Purtroppo quella dell’Onu resta, da un punto di vista concreto, solo una dichiarazione di principio. Il che è già importantissimo, ci mancherebbe: quel che manca sono le sanzioni per i trasgressori, e la conseguenza è che chi vuol fare esperimenti di questo tipo li fa».
Roberto Colombo, direttore del Laboratorio di Biologia Molecolare e Genetica Umana dell'Università Cattolica di Milano, è ancora più duro: «L'esperimento condotto a Seul in collaborazione con ricercatori americani di Pittsburgh è umanamente abominevole, e nessuna ragione scientifica o clinica può giustificarlo». Spiega perché: «Sono stati sacrificati oltre un centinaio di embrioni umani, ottenuti intenzionalmente per questo scopo da 185 ovociti di donna, al fine di produrre 11 linee di cellule staminali embrionali da destinare alla sperimentazione». E conclude: «L'uomo all'inizio della sua vita è stato strumentalizzato e distrutto sull'altare di certa scienza biomedica che pretende di possedere e manipolare la vita umana. Come anche altri e numerosi studiosi di genetica e di biologia molecolare non mi riconosco in questo modo irresponsabile e disumano di fare ricerca, e mi auguro che nel nostro Paese ciò non sia mai consentito».
Come rispondere però ai malati che anche da ricerche come questa si attendono comunque una speranza? «Per esempio Dicendo loro con chiarezza - afferma Luigi Bobba, presidente delle Acli - che una speranza vera qui non c’è. Questo è lo stesso gruppo che un anno fa aveva clonato l’uomo: ma il fatto è che allo stato, con le staminali embrionali, gli scienziati non sono in grado di far niente. diverso il discorso per le staminali adulte, o tratte dai cordoni ombelicali, con cui si possono già curare decine di malattie: perché non investire tutto su questo? La scienza ha come obiettivo di proteggere la vita, se decide di farne a pezzi una per salvarne altre non è scienza ma scientismo. E infine: siamo già diffidenti sugli Ogm per un chicco di grano, possibile che si ritenga accettabile toccare un embrione?».
Francesco D’Agostino, presidente del Comitato nazionale di Bioetica, ribadisce che «sulla clonazione terapeutica il Comitato ha già espresso la sua contrarietà. L'unico paese in Europa che ha autorizzato questa pratica e che, conseguentemente non ha firmato la convenzione, è l'Inghilterra di Tony Blair».
Paolo Foschini
La manifestazione si è svolta in tutta Italia, ma è soprattutto in Sicilia che i tagli decisi dal governo hanno provocato la riduzione degli investimenti nel settore: nel 2002 le spese per ricerca e sviluppo hanno sfiorato lo 0,9 % contro l'1,2 % speso in Italia. Due terzi dell'attività di ricerca nell'isola viene svolta dall'Università, solo un quinto dalle imprese e il 14% dall'amministrazione pubblica. «La ricerca è un diritto dei cittadini – dice Elena Giunta, segretario Cgil Università e ricerca – ma la scelta di campo fatta dal governo è un'altra, quella di farla morire. E l'unica ricerca da sovvenzionare è la ricerca dei privati che ormai operano sempre più a stretto contatto con le Università». «Serve un processo diverso – conclude Antonio Ferro, segretario Uil Palermo – si deve investire sulla ricerca e sulle nuove tecnologie se non vogliamo che la Sicilia e tutta l'Italia rimangano al palo».
Infine, il prossimo 24 maggio a Roma davanti al Ministero dell'economia si svolgerà un presidio nazionale .
Alessandra Galioto