Pisano a pagina7
Vincenti. Il vincente si vede dall’auto che guida, dai ristoranti che frequenta, dalla professione che esercita con una non modica dose di ariette. Peccato che questa febbre generi mal di testa (lei dice cefalee), senso di stanchezza a volte insopportabile (lei dice depressione), irritabilità perfino sulle piccole cose quotidiane (lei dice nevrosi). Maria Del Zompo, ordinario di Farmacologia all’Università di Cagliari, ama il mare. Ma solo nel tempo libero. Il resto della sua vita, quasi fosse una vestale, l’ha dedicato alla sperimentazione. A vederla sul bus che arranca dalla Cittadella di Monserrato verso il centro, potrebbe sembrare: a) una madre di famiglia soprapensiero. b) un’impiegata immersa in una chiacchierata con se stessa. c) una passeggera senza storia e senza curiosità. Cinquantacinque anni, tailleur blu da combattimento, capelli candidi, viso da ragazzina invecchiata, è prorettore dell’ateneo. Ma, soprattutto, è uno dei ricercatori più impegnati e autorevoli, nome noto e affidabile nella comunità scientifica internazionale. Specializzata in Neurologia, rodaggio scientifico negli Stati Uniti, è al fotofinish di un’avventura cominciata nel 1990: capire cosa succede nella nostra testa quando si manifesta un disturbo che gli addetti ai lavori definiscono "bipolare" e che per gli altri, gente comune, dilettanti allo sbaraglio, sono soltanto bruschi cambiamenti d’umore, passaggi-lampo dalla serenità alla tristezza, e un feroce desiderio ricorrente di andare al tappeto quando il circo della vita gira troppo in fretta e non ce la fai più a rimetterti in pista: magari perché non hai la macchina giusta, la professione giusta e nemmeno buoni indirizzi per una cena. In pratica (ma lei non lo ammetterebbe mai), Maria Del Zompo si occupa di infelicità. Nel dipartimento di Neuroscienze, dirige una sezione che è una specie di pronto soccorso riservato ai medici: offre notizie sulla interazione dei farmaci nelle malattie che ne prevedono somministrazioni massicce, spiega effetti collaterali che non troverete mai nei bugiardini, suggerisce percorsi alternativi. A spaventarla è uso e abuso di pillole, bibite non meglio identificate, sostanze che si comprano a occhi chiusi solo perché a venderle è l’erborista. Dietro tutto questo, c’è uno scienziato del cervello, un esploratore che non ha mai finito di frugare, di interrogarsi. A ottobre inaugurerà a Cagliari il convegno mondiale di genetica psichiatrica. Che studia, casomai non fosse chiaro, le radici biologiche della malattia mentale. Non si diventa matti soltanto perché in famiglia c’è una maledizione ereditaria o perché l’aria che si respira in ufficio è infame. Nossignore: si diventa matti anche e semplicemente perché il cervello si ammala. Né più né meno del fegato, del cuore e di tutto il resto. Gli incontri-chiave nella vita di Maria sono stati almeno tre: suo padre (che soffriva di morbo di Parkinson e che lei, da adolescente, aveva deciso di guarire), Robert Post (che negli Usa le ha insegnato come fare ricerca), Gianluigi Gessa (che ha importato dagli Stati Uniti qualità e rigore nella sperimentazione). In questo ritratto c’è una sola ombra: la professoressa Del Zompo detesta comparire. Per intervistarla bisogna ricorrere ad amici comuni, a un ricatto degli affetti che la costringe, in una mattina di sole accecante, a subire domande mentre stringe tra le mani una pallina anti-stress. Manco fosse sotto interrogatorio in Procura. Dove punta la sua ricerca? «A capire quale sia il danno biologico che si nasconde dietro una malattia psichica». Come si schiera: pro o contro l’elettrochoc? «In terapia e in medicina non bisogna sposare l’ideologia. Hai un paziente di fronte: bene, devi cercare gli strumenti per risolvere il suo problema». Ma l’elettrochoc può essere una strada? «Certo. Nei casi di depressione grave, parlo di quelle a rischio suicidio, può risolvere». Eppure c’è chi dice che sia uno strumento criminale. «Anche questa è ideologia. Il fatto è che non siamo ancora riusciti a capire quale sia il meccanismo dell’elettrochoc. E questo genera un dissenso che poggia su niente di scientifico». Quanto ha contato la malattia di suo padre? «Nelle scelte che ho fatto, moltissimo. Ha deviato i miei interessi giovanili verso un obiettivo preciso: capire le basi del morbo di Parkinson. Mi sono buttata a corpo morto sulla ricerca». Risultato? «La mia tesi di laurea, che aveva dietro scienziati di calibro, è stata pubblicata su Lancet, rivista di grande autorevolezza. Quel lavoro è, ancora oggi, una radice importante della ricerca più avanzata». È stata lei a fornire il fluido dell’eternità al rettore Mistretta? «Pasquale Mistretta è un uomo che ha la mia stima e la mia considerazione». Scusi, ma l’università non è una fossa di serpenti? «Come qualunque altro posto di lavoro. Fatta salva una caratteristica importante». Sarebbe? «Ci sono spazi e mezzi per fare ricerca. Parlare male dell’università e lamentarsi non costa niente». E invece? «Invece questa intervista si sta svolgendo nella Cittadella universitaria, che è una grande realtà». Lei dirige il centro per le cefalee. «Sì, negli ambulatori del San Giovanni di Dio a Cagliari. Vediamo migliaia pazienti l’anno. Soprattutto stabiliamo se una cefalea è primitiva oppure no». Traduciamo? «La cefalea primitiva è quella che si chiama comunemente emicrania. Non è, insomma, il sintomo di una malattia». Che genere di malattia? «Problemi della vista, dell’equilibrio, tumori e altre patologie». Di cosa si sta occupando adesso? «Delle cause genetiche nel disturbo bipolare». Uomini o topi? «Studio sugli uomini. Ho centinaia di pazienti che seguono una terapia a base di litio. Vorrei comunque far presente che quelli normalmente chiamati cavie, cioè i volontari, esistono in tutti i Paesi civili». Volontari disposti... «Disposti a testare su se stessi un farmaco. Cosa c’è di scandaloso?» Sperimentazione clandestina mai? «È contro l’etica della ricerca. Credo che nessun ricercatore serio abbia mai rifilato al paziente farmaci a sua insaputa». All’estero è meglio? «Dipende. Avessi un figlio, gli farei fare esperienza all’estero per acquisire conoscenze e imparare l’inglese. Ma la ricerca si può fare tranquillamente qui, a Cagliari». Fretta e ansia ci stanno avvelenando la vita? «Mi spaventa l’ossessione che regola il nostro tempo: l’ossessione da vincente. Correre, correre sempre, può sicuramente causare una danno biologico». Il cervello va in tilt? «La questione è più complessa. Abbiamo fabbricato criteri di felicità standard legati al danaro, agli status symbol, al mestiere». E questo fa ammalare? «Non direttamente ma provoca danni senza alcun dubbio. D’altra parte dobbiamo considerare che la velocità è già una costante molto impegnativa della nostra vita». E allora? «Negli ultimi cinquant’anni ci sono state più scoperte scientifiche che nei mille precedenti. Dunque c’è una quantità enorme di informazioni da immagazzinare». E con questo? «Sentiamo il bisogno di sapere sempre di più ma nel frattempo ci imponiamo ritmi di vita vertiginosi. Essere o apparire, antico dilemma, è tutt’altro che superato». Chi non appare non esiste. «Certo, ed è proprio questo che ci crea disagio, ansia, stress. E molto altro. La chiave della felicità, o della sopravvivenza se preferite, è tutta nell’armonia del rapporto tra mente e corpo». Accettarsi, insomma? «Accettarsi ed educarsi. Sono favorevole al bisturi per combattere le grandi obesità, mi lascia perplessa servirsene per perfezionare dettagli estetici». Vale anche per i giovani? «Per loro siamo noi il modello di riferimento. E dunque imparano a correre e sgomitare da subito». Quando non ce la fanno più, si stonano. Giusto? «Mettendo da parte le droghe (materia nella quale non sono competente), penso a certe bibite. In qualche caso si tratta di autentiche bombe, eccitanti poderosi, concentrati di caffeina che svegliano un morto». Caffè sì caffè no, vino sì vino no: quante ne avete sparato a vuoto? «La scienza, almeno quella seria, non ne spara. Spesso è un problema di comunicazione: la difficoltà a semplificare concetti complessi genera confusione». Vale anche per i prodotti naturali? «Io so che un farmaco, prima di entrare in commercio, deve superare numerose verifiche. E questo, come tutti sanno, non è sempre sufficiente a farci star tranquilli». Tra farmaco e natura c’è una differenza. «C’è senz’altro. Penso però ai prodotti di erboristeria per tirarsi su. Ce n’è uno, usatissimo, che ha un’azione anticoagulante. Sapete che vuol dire? Vuol dire che se per caso prendete anche un’aspirina rischiate l’emorragia». Cosa consiglia, allora, per tirarsi su? «Un libro, un concerto, una passeggiata. Solita ricetta: corpo e mente in armonia. Senza trucchi».
Alessia Orbana
Tira un sospirone e fa: «Pensare che qui sopra hanno camminato Ottavia Piccolo, Albertazzi, Gabriele Lavia...», e col palmo della destra batte sullo scaffale scuro, fitto di classici greci. Prima ipotesi: Marino è impazzito, oppure ha bevuto. Perché mai i grandi del teatro italiano avrebbero dovuto passeggiare sulla sua libreria? Per soldi? Per scommessa? Per il gusto di dire: io c’ero, su quello scaffale? E invece no. Marino è lucido e sobrio come pochi altri in città, e anzi da qualche tempo va presto a letto la sera e si leva all’alba, studia Platone e lavora duro, fuma sempre meno e tra un po’ smetterà. Insomma, un teatrante genio e regolatezza. Tra un paio d’anni ne avrà cinquanta e ne festeggerà trenta d’amore col palcoscenico come attore e regista. Una storia che comincia in uno scantinato della Marina e si gonfia d’applausi e recensioni laudative per anni, finché un taglio inopinato a un contributo, con conseguente capitombolo amministrativo, nel ’97 sgonfia bruscamente il soufflé di Isolateatro. Da Quartu, come uno stormo in fuga, migrano Pirandello, Feydeau, Tennessee Williams, Cechov, Max Aub. Per Marino è tempo di fare una cosa in cui eccelle: voltare pagina. Lo farà più volte, ne sfoglierà tante. Su una stanno scritti i suoi tre anni di autoesilio in Spagna. Su un’altra pagina è annotata la scoperta entusiasta, senza retorica etnica né piagnistei identitari, degli autori isolani, da Angioni ad Atzeni passando per Salvatore Satta. C’è anche la paginetta con la più stramba delle sperimentazioni: dopo i materassi in platea per un pubblico che ascolta supino, dopo l’uso spregiudicato della musica elettronica (quasi antisindacale, visto che la tastiera a tratti ruba il posto alle voci degli attori), ecco il Teatro a Corte, con gli spettacoli rappresentati a domicilio. Poi via, nuova pagina ed ecco Marino all’Università. Aristofane, Sofocle, Eschilo: va in scena il dipartimento di letteratura greca. Con la severità dell’autodidatta, Marino si imbeve di commedie e tragedie per restituirle sul palco agli studenti, per fargliele vivere, assaporare, interpretare. Quando finisce di cannibalizzare un testo lo rimette a posto, nella libreria che ha costruito con le assi del vecchio palcoscenico di Isolateatro calcate da Lavia e Albertazzi, e passa a un altro vecchio ateniese. Un ritorno alle origini, quelle del teatro ma anche le sue, quelle geografiche, visto che è nato in Magna Grecia: «Valguarnera, provincia di Enna». Che ci fa in Sardegna? «È una vita che lo chiedo a mio padre. Comunque gliene sono grato: poteva scegliere Torino, Milano. Mi è andata bene». Sicuro? «Sicuro. Ci sono tutte quelle cose, tutti quei luoghi comuni che si sentono su quest’isola: il mal di Sardegna, la nostalgia, il fatto che si piange quando ci si arriva ma anche quando la si lascia... beh, sono tutte vere. Quando ero in Spagna la domenica andavo in aeroporto: c’era un volo per Alghero sempre pieno di sassaresi, io mi piazzavo al check-in e me ne stavo lì ad ascoltarli, con quelle esce piene, sonore. Ascoltavo i sciasciaresi e poi me ne tornavo a casa». Cos’altro faceva? «Recitavo». Che cosa? «Tutto, bastava che parlassi in italiano e il pubblico apprezzava. Noi non ci rendiamo conto di quanto piaccia la nostra lingua, di quanto suoni musicale. Declamavo l’elenco del telefono, i bugiardini delle medicine, tutto: applausi». Come ha cominciato? «Quando avevo 13 anni giravo con mio padre per i mercati. È un’ottima scuola. Devi inventare le parole, farti ascoltare, improvvisare. Altrimenti non mangi. Lo dico sempre ai miei allievi: guardate i venditori di pentole in tv, sono gli eredi della commedia dell’arte». Poi che succede? «Succede che vado a una recita parrocchiale, in Sicilia, e mi prendo il virus del teatro». Destino. «Veramente credevo che il mio destino fosse diventare un grande pianista». Invece. «Invece mi prendo il virus e una volta arrivato a Cagliari, in una cripta di via San Lucifero, mi ritrovo a provare Uomo e galantuomo di De Filippo». Attore. «Regista. Per farmi dar retta dagli altri le avevo sparate un po’ grosse: "Ho lavorato con Strehler, ho lavorato con questo e anche con quello". Mi hanno dato retta e siamo andati avanti. Sono stati gli anni più belli, più goliardici, gli anni senza tempo. Era l’inizio di un’avventura ma sembrava tutto facilissimo». Poi sono arrivati i problemi. «I primi due: l’ignoranza e l’insularità». Qual è il peggiore? «Vivere in un’isola è un limite vero: chi abita a Cremona starà pure nella periferia d’Italia, ma in mezz’ora è a Milano. In un ambiente chiuso hai difficoltà a trovare una guida, qualcuno che ti indichi i confini entro i quali muoverti. Sei in balìa della tua ignoranza, che a sua volta è la madre della presunzione». Quando l’ha capito? «A trent’anni. Firmo un contratto che mi porta a Bologna e lì ho modo di ascoltare, vedere e capire: se ti dedichi al teatro, che è la summa di tutte le arti, non puoi essere ignorante. Torno a casa e comincio a leggere voracemente, disperatamente: più vado avanti e più so di non sapere, socraticamente. E lì entro in crisi». Come ne esce? «Grazie a Calvino: ha scritto lui che leggere Delitto e castigo a quarant’anni è un esperienza molto più intensa che leggerlo a 18». Sollievo? «Enorme. Mi assolvo e mi rimetto a leggere, senza dimenticare il monito di una cara amica: ogni libro che leggi non è una cosa in più di cui vantarti, ma una figuraccia in meno da temere». Si era fatto un programmino? «Leggevo a soggetto: russi, francesi, Tolkien, Topolino». Tolkien lo dipingono di destra. «Vabbé, allora era di destra anche Platone, visto che per lui la vera democrazia è irraggiungibile. E se Platone era di destra che facciamo, non lo leggiamo?». Legga pure. «E certo, non si può fare teatro senza leggere: a un certo punto ti accorgi che ti manca l’intelaiatura, la struttura per diventare...» Un professionista. «Professionista non mi piace. Diciamo artigiano, in fondo anche in teatro la differenza la fanno le rifiniture». Si impara a bottega? «Si impara a scuola. Non necessariamente all’accademia, basta che sia una scuola vera. Può andare bene anche un teatro di provincia che fa piccoli laboratori, non è quello il punto. L’importante è che ti insegni il rigore». Andiamo avanti: Marino legge, legge, legge... «E lavora. Il Canovaccio, la compagnia a cui avevo raccontato di aver lavorato con Strehler, diventa Isolateatro e cresce. Le produzioni si moltiplicano, arriviamo a un bilancio da un miliardo di lire, trecento giorni di spettacolo, quindici dipendenti, raddoppiamo il teatro. Poi, patapùnfete». Che cosa succede? «Scriviamo così: incomprensioni». Incomprensioni? «Sì, ma lo scriva tra virgolette. E aggiunga che mentre pronuncio la parola incomprensioni inarco il sopracciglio». Inutile chiederle che cosa pensa dei tagli al Fondo Unico per lo Spettacolo, incubo di tutti i teatranti d’Italia. «Non è quello che uccide il teatro». No? «Il teatro si fa anche con una candela e una bottiglia, basta guardare Ascanio Celestini. Anzi, più tolgo e più stimolo il muscoletto dell’immaginazione. No, il teatro sta morendo perché è giusto che sia così, è tempo che sia così». Allegria. «È morto il re, viva il re: il teatro muore nel senso che ogni crisi lo costringe a rigenerarsi, a trovare nuove strade, a reinventarsi». Suona autobiografico. Che cosa ha scoperto in Spagna? «Che Madrid è una città affascinante, con una tolleranza, un’apertura e una curiosità nei confronti del prossimo, del forestiero, che da noi sono inimmaginabili». Poi ha ritrovato la strada di casa. «E qui ho avuto un’altra crisi». Delusioni? «Al contrario. Torno in Sardegna, leggo Atzeni e lo porto in scena con tre angeli caduti dal cielo: Caterina Scalas, Lilli Fois e Roberta Perra». E la crisi dove sta? «Presto detto: in un attore volontario come Francesco Grecu, contadino settantenne di Sanluri, trovo una naturalezza, una potenza tali che a me, dopo anni e anni di lavoro d’analisi, di sottrazione, di affinamento, non resta che una scelta: mi ritiro dalle scene». E si infila in biblioteca. «Letteralmente. La collaborazione con l’Università è cominciata così, qualche studente in seguito mi ha confessato che mi avevano preso per un matto: quest’uomo grande sempre lì a studiare, studiare otto ore al giorno. Mi stavo preparando». Valeva la pena? «Altroché. Trasmettere non tanto l’amore per il teatro, ma la consapevolezza che il teatro si occupa di te, della tua esistenza: questo è esaltante. E poi lavorare con un dipartimento, una facoltà, un’università alle spalle... meraviglioso, è come avere una biblioteca vivente a disposizione. Credo che possa essere il mio destino». Sofocle, Euripide. Non è che si occupi di attualità scottante. «Dice? Uno dei laboratori è su un testo di Aristofane. Racconta di Atene in crisi, che non sa da chi farsi governare finché si fa avanti un ignorante, un venditore di salsicce imparentato con dei lestofanti, e tutti gli dicono: "Bravo, sei l’uomo giusto!". Si intitola I Cavalieri».
«La prevenzione contro i trapianti»
L’importanza della ricerca sarà al centro di due incontri
Esperti a confronto domani all’Università, il 16 al Teatro Verdi in programma una raccolta di fondi
In linea con questo intento, l’associazione sassarese “Love for Liver for Life”, consociata con la federazione nazionale Liverpool, ha organizzato per la prossima settimana due incontri che hanno lo scopo di far conoscere l’associazione in città e soprattutto di investire sulla prevenzione in Sardegna. Nell’isola, infatti, la percentuale di persone colpite da varie forme di epatite è molto elevata.
Domani, nell’aula magna dell’Università, alle ore 10,30, si terrà una tavola rotonda tesa ad approfondire il tema della prevenzione delle malattie virali e dei trapianti. Il dibattito, moderato da Andrea Fraghì, coinvolgerà tutti i sindaci dei comuni della provincia, i medici e i professori specializzati nel settore che affronteranno l’argomento da diversi punti di vista. «Abbiamo cercato di coinvolgere il maggior numero di esperti che potessero affrontare l’argomento - spiega Ica Cerchi, presidente di “Love for Liver for Life” - perché ci sembra fondamentale investire sullo studio e sulla ricerca per evitare il più possibile il ricorso ai trapianti».
Tra gli ospiti, l’epatologo Patrizia Farci, docente di medicina interna al Policlinico universitario di Cagliari e il virologo Paolo La Colla, docente di microbiologia all’Università di Cagliari. Alla giornata prenderà parte anche Giampiero Maccioni, presidente di “Vita Nuova” Onlus associazione sarda trapianti “Alessandro Ricchi”.
A chiusura della “Settimana nazionale trapianti e ricerca”, il 16 maggio al Teatro Verdi alle 20, si esibirà l’Orchestra Filarmonica della Sardegna, composta da docenti e allievi del Conservatorio e diretta dal maestro Antonio Puglia. L’Orchestra eseguirà diverse elaborazioni di musiche popolari sarde (Canzone di Cerchi e Tre danze sarde di Porrino), nazionali (Concerto in do maggiore per due trombe, archi e clavicembalo di Vivaldi) e internazionali (Concerto in fa minore BWV 1056 per cembalo e orchestra d’archi di Bach e Ricordando, Oblivion e Ave Maria di Piazzolla).
Durante la serata ci sarà anche una raccolta fondi per sostenere l’associazione “Love for Liver for Life”.
Valentina Careddu