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ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
31 October 2010
ufficio stampa e redazione web
RASSEGNA QUOTIDIANI LOCALI
 
 
L’UNIONE SARDA
1 - Maratona di un bisturi. Fuga a New York, sola andata
2 - Master and back, la tassazione è illegittima

LA NUOVA SARDEGNA
3 - Sassari, lettera dell’avvocato all’Aou. Manca batte cassa: chiesti 47milioni 
4 - Intellettuali e call center. Laureati: realizzarsi è un’impresa
5 - Iglesias. Scuola civica di politica, si parla di fiducia
   
QUOTIDIANI NAZIONALI
Link: rassegna stampa CRUI
Link: rassegna stampa MIUR
    
  
L’UNIONE SARDA
 
1 - L’Unione Sarda / Cronaca Regionale - Pagina 9
Fuga a New York, sola andata
Marcovalerio Melis, la maratona di un bisturi
 di GIORGIO PISANO
Negli ospedali esiste una strana specie di schiavo. Indossa il camice bianco, tiene lo stetoscopio appeso al collo e un campionario di penne nel taschino. Segue il capo (primario o direttore di clinica che chiama ossequiosamente professore) con la stessa composta devozione delle pie donne a Sant’Efisio. Se interrogato, risponde muovendo la testolina come un giocattolo a molle, le mani preferibilmente dietro la schiena perché dà un tocco di autorevolezza. Aria assorta, sorrisetto distaccato. E una speranza: conquistare la libertà.
Marcovalerio Melis, 40 anni, chirurgo oncologo alla New York University School of Medicine, conosce bene quel tipo di vita perché l’ha sperimentato subito dopo la laurea, 1994 a Cagliari. «Gli specializzandi vengono usati quasi esclusivamente come scribacchini in reparto o come divaricatori in sala operatoria. L’insegnamento di fatto non esiste. Qualunque forma di crescita professionale è ostacolata a tutti i livelli». Dopo quattro anni di questo tran tran si è accorto di «andare incontro a un processo semi-irreversibile di atrofia cerebrale». Ed è stato allora che ha cercato un’uscita d’emergenza, la via di fuga. «Lasciare la mia città non era una scelta pianificata, voluta. Non m’interessava raggiungere chissà quale posizione accademica od ospedaliera. Volevo semplicemente diventare un buon chirurgo e mi vergognavo di farmi chiamare così visto che fino a quel momento non avevo mai operato in vita mia».
Prima alla University of Chicago, poi a Tampa (in Florida) e infine nella Grande Mela. «Ritmi pazzeschi. In una settimana imparavo quello che in Italia richiedeva un anno». Oggi si occupa di chirurgia laparoscopica dei tumori dell’esofago, del fegato e del pancreas. Ha anche realizzato uno dei pochi centri americani per la chemioterapia ipertermica intraoperatoria. «Qui chi lavora viene premiato, chi non lavora viene allontanato oppure resta per sempre al primo gradino della carriera».
Abitare a New York, dove una scuola elementare privata di livello medio costa fino 2.500 dollari al mese, non è semplice. Per l’affitto di un appartamento a Manhattan serve il doppio. Quello di Marcovalerio Melis era un bilocale che una parete di cartongesso ha miracolosamente trasformato in trivano. Così c’è posto per tutta la famiglia: moglie e due figli. «A parte scuola e casa, la vita non è carissima. Si può risparmiare su alcune cose: l’automobile, per esempio, è assolutamente inutile in una città come questa».
C’è un’aggravante: Melis non vuol rientrare, non gli interessa. Dalla Sardegna gli hanno proposto un incarico di prestigio e lui ha risposto no. Sta meglio in un mondo che pure non è il suo, vuole crescere i figli in una società che ignora la «mentalità italiana di sentirsi sempre un po’ più furbi degli altri, oppure campare cercando scorciatoie». La conclusione, che stranamente non prevede le tradizionali lacrime d’emigrato, è disarmante: «Di sicuro è triste accorgersi d’essere felici in un’altra nazione ma mi consolo pensando che sarebbe ancora più triste essere infelici a Cagliari».
Non c’era neppure un briciolo di speranza?
«Dipende da cosa si vuole fare nella vita. In Italia, con una specializzazione di chirurgo in tasca non ci sono difficoltà ad avere uno stipendio magari non altissimo e la prospettiva di un’esistenza senza scosse. Però a me non interessava».
Invece lei?
«Io volevo fare il chirurgo sul serio. A Cagliari, strada tutta in salita. Non ci sono maestri e i pochi che sanno non insegnano. È un sistema, il nostro, che tarpa le ali anche ai più volenterosi».
Si rischia, secondo il suo parere, l’atrofia cerebrale.
«In Italia il compito degli specializzandi consiste solo nel compilare le cartelle cliniche o tenere i divaricatori in sala operatoria, mansioni che non richiedono una laurea e tantomeno una specializzazione. Io ambivo a qualcosa di più stimolante».
È vero che i medici italiani sono in qualche caso leggermente analfabeti?
«Nella sanità italiana ci sono alcuni centri di eccellenza che non hanno nulla da invidiare ai migliori ospedali americani, e anche a Cagliari ci sono degli ottimi professionisti. Ma si tratta di eccezioni, la regola è un’altra. Purtroppo. Gli avanzamenti di carriera sono legati ad anzianità di servizio o a clientelismo, dunque mancano gli stimoli a migliorarsi».
Negli Stati Uniti?
«L’amore per la professione ha un risvolto economico che spinge ad aggiornarsi continuamente. Il medico incompetente non ha scampo: viene bombardato di denunce, perde molto danaro e spesso anche il posto di lavoro. Quello competente ha più consulenze, più pazienti: essere bravi, da queste parti, è davvero un affare. Poi, ci sono gli esami».
Che esami?
«In Usa bisogna sottoporsi periodicamente a verifiche per confermare non solo la specializzazione ma addirittura l’abilitazione medica. Vale per tutti, capi inclusi. E si tratta di prove tutt’altro che formali».
Ha detto d’aver imparato in un giorno quello che in Sardegna...
«...mi insegnavano in un anno. Esatto. In Italia ho frequentato per cinque anni sempre lo stesso reparto senza mai fare nulla in prima persona. Ho osservato sempre lo stesso chirurgo fare sempre le stesse cose».
In Usa è diverso?
«Ogni mese cambiavo servizio chirurgico (chirurgia generale, toracica, pediatrica, cardiochirurgica, traumi, trapianti eccetera) e ad ogni rotazione mi trovavo di fronte a casi totalmente diversi. Come chirurgo italiano non avevo la più pallida idea di come interpretare un elettrocardiogramma, tantomeno come gestire un’aritmia. A Chicago, nel secondo mese di specializzazione, lavoravo di giorno in chirurgia vascolare e la notte facevo la guardia anche nella terapia intensiva di cardiochirurgia».
In caso di difficoltà?
«Potevo chiedere aiuto a un medico strutturato o a uno specializzando anziano. La differenza, rispetto all’Italia, è che in prima battuta dovevo cavarmela da solo e non stare a guardare quello che facevano altri».
O nuoti o affoghi: è questa la logica?
«Esattamente questa. Ma avevo la possibilità di imparare moltissimo, macinare ore e ore di lavoro che diventavano poi determinanti al momento delle selezioni».
Non c’è un pizzico di rancore in quel che dice?
«Non ho motivo di serbare rancore. In Italia non ho subìto torti o ingiustizie, nessuno mi ha costretto ad andarmene. Sappiamo tutti come funziona il nostro sistema sanitario: chi vuole restare deve anche accettarne le regole; l’unica alternativa è fare le valigie. Certo, resta il dispiacere di vedere premiare i mediocri e ignorare i meritevoli. Ma questo vale in molte professioni, non solo nella mia».
Gli esterni, in America, sono ben accetti?
«Che domanda: qui sono tutti outsider. Io ho lavorato con chirurghi italiani, australiani, camerunensi, canadesi, egiziani, indiani, kuwaitiani, tedeschi, per non parlare dei tantissimi con passaporto statunitense ma arrivati da immigrati».
Scintille, mai?
«Questo è un Paese aperto. Certo però che mi riesce difficile immaginare un australiano direttore della clinica chirurgica a Cagliari».
Cosa le piace della vita in Usa?
«Il dinamismo. Qui tutto è possibile, nulla è definitivo, qualsiasi cosa può migliorare. Mi piace l’etica del lavorare duro e onestamente, mi piace l’idea che ognuno sia artefice del proprio destino. C’è più tolleranza e più senso civico. L’amicizia non è mai così profonda come lo è per noi italiani. Gli americani sono più individualisti e cementano i rapporti personali con maggiore difficoltà».
Ha vissuto anche in quartieri malfamati, giusto?
«A Chicago. In Usa i confini fra quartieri sicuri e quartieri a rischio sono abbastanza netti. Noi abitavamo in una brutta zona, seppure vicinissimo alla University of Chicago. A volte si sentivano degli spari oppure vedevi un’ambulanza che portava via il tuo vicino in overdose. Ho visto colleghi stupirsi di trovarmi ogni giorno al lavoro tutto intero. Ho cambiato cinque case in dieci anni: anche questa è l’America».
Cosa rimpiange?
«Non mi piace guardarmi indietro. Vorrei condividere con la mia famiglia rimasta in Italia le tappe importanti e la quotidianità. Mi mancano le serate con gli amici di sempre, la pausa-pranzo al Poetto con caffè, sole e mirto».
La figura del capo.
«Negli Stati Uniti deve sfruttare al meglio le potenzialità dei suoi collaboratori, risponde di successi e insuccessi del suo staff. In Italia mi pare una figura più propensa a sfruttare il lavoro della sua squadra per tornaconto personale, tipo mettere la firma su relazioni fatte preparare a specializzandi e cose del genere. In sintesi: in Italia il compito del capo è rendere difficile la vita dei dipendenti, negli Stati Uniti è risolvere problemi creati dai sottoposti».
Cosa bisogna fare per conquistare la benevolenza del capo?
«In Italia non lo so. In America contano i risultati e quelli soltanto, contano le persone concrete e affidabili».
Sbagliato dire che in campo medico i rapporti gerarchici sono medievali?
«Perché sbagliato? Se consideriamo schiavo chi è sottoposto alla volontà altrui senza alcuna possibilità di affermare il proprio pensiero e la propria dignità, allora gli specializzandi sono da considerare assolutamente schiavi. Il problema è che in Italia a volte si rimane succubi del proprio primario per tutta una carriera».
Si sente realizzato?
«In un settore come il mio, chirurgia oncologica, non mancano i momenti di depressione. Altra faccia della medaglia sono le tante storie a lieto fine oppure accorgersi che per farsi vedere da te arrivano non solo da tutto lo Stato di New York ma anche dal New Jersey e dalla Pennsylvania».
Chirurgo per chirurgo, non era meglio ricostruire tette e chiappe?
«Tutti facciamo scelte sbagliate. Scherzo, ma francamente credo che alla lunga sia piuttosto noioso passare le giornate a impiantare protesi».
Le hanno proposto di rientrare: perché ha rifiutato?
«Devo ammettere che fino a poco tempo fa il mio sogno era proprio quello di tornare, magari aiutare a crescere colleghi più giovani. Alla lunga ci ho ragionato sopra e alla fine ho cambiato idea: mi intristisce la guerra sanitar-giudiziaria contro chirurghi che hanno la sola colpa di essere bravi ma non sardi. Mi intristisce l’idea di lavorare guardandomi sempre alle spalle. Mi intristisce l’obbligo di dover appartenere per forza a questa o quella conventicola altrimenti non ti fanno vivere».
Dunque è un no definitivo?
«Nella vita credo di essermi messo in gioco molte volte, saltando spesso senza rete. Oggi ho due figli, più precisamente due diavoletti mimetizzati da angeli di quattro e sei anni: insieme a mia moglie, alla quale debbo davvero tantissimo, sono loro la mia priorità assoluta».
Che c’entra, i suoi figli non possono crescere in Italia?
«Preferisco che stiano qui. Intanto perché un padre che svolge un lavoro appagante in un ambiente tranquillo è certamente un padre più presente e meno nevrotico. Poi, penso anche che in questo Paese possano avere una educazione più solida e, più in là, maggiori opportunità di lavoro. La mia è un’opinione del tutto personale ma ritengo che al giorno d’oggi la società americana sia più sana ed integra di quella italiana».
Avvilente scoprire la vita lontano dalle radici.
«Cagliari è una città bellissima. Ci sono nato e cresciuto, ci ho conosciuto mia moglie. La mia famiglia, i miei amici - che ritrovo ogni estate - sono lì. D’altra parte, a pensarci bene, la casa non è necessariamente quella in cui si nasce. Io, per esempio, l’ho trovata in una città fantastica che è diventata la mia vita».
pisano@unionesarda.it
 
 
2- L’Unione Sarda /
Cagliari e Provincia - Pagina 25
Le proteste di 4 mila borsisti sardi e giovani ricercatori: chiediamo il rimborso
«Master and back, la tassazione è illegittima»
«Quella tassazione è illegittima». I vincitori delle borse di studio “Master and back” e “Giovani ricercatori” scendono di nuovo in campo per chiedere il rimborso delle somme «indebitamente» trattenute dalla Regione. La battaglia - che coinvolge circa 4 mila borsisti (660 sono ricercatori impiegati per due anni in Sardegna presso Università, centri di ricerca e aziende) - ha aperto un contenzioso tra i giovani laureati e la Regione, rappresentata dall’Agenzia per il lavoro e dal Centro regionale di programmazione che gestiscono, rispettivamente, il programma Master and back (partito nel 2006) e il bando Giovani ricercatori del 2007.
LA TASSAZIONE Fino a oggi le due borse, cofinanziate dal Fondo sociale europeo assieme a risorse di Stato e Regione, sono state tassate come fossero redditi di lavoro dipendente: viene quindi applicata una ritenuta d’acconto sull’intero contributo, anziché solo su quello a carico dello Stato o della Regione come i beneficiari ritengono debba avvenire. «Noi chiediamo che sia applicata la normativa fiscale europea», spiega Manuel Floris, portavoce dei giovani ricercatori, primo ad aver denunciato il problema assieme a Davide Fara, borsista Master and back. «Il regolamento del Fse indica chiaramente che il contributo pubblico europeo non va tassato», specifica richiamando l’articolo 80 in cui si dice che i beneficiari devono ricevere l’intero importo senza nessuna detrazione o trattenuta. Convinzione rafforzata anche da ciò che avviene in Puglia con le stesse borse. «Purtroppo - ricordano i borsisti - la nostra Agenzia del lavoro non è dello stesso avviso e, considerando beneficiario dell’aiuto europeo non il borsista ma se stessa, ritiene giusta la tassazione». Posizione che - osserva Floris - risulta essere in contrasto con la delibera della Giunta regionale che individua l’Agenzia del lavoro come organismo intermedio per la gestione dei fondi Por-Fse 2007-2013. Il Centro regionale di programmazione, invece, sarebbe in attesa di un responso da parte dell’Agenzia delle entrate.
Se si dimostrerà che è illegittima la tassazione effettuata, ad esempio, su una borsa biennale di 70 mila euro lordi il borsista avrà diritto a un rimborso di circa 15 mila euro, più o meno quelli che gli sono stati prelevati con la super-tassazione (18 mila euro anziché tremila).
POLITICI Il deputato Giulio Calvisi ha denunciato «lo scandalo» in una lettera al ministro dell’Economia. Così anche il consigliere regionale Pd Giuseppe Cuccu che chiede alla Regione di far chiarezza. (c.ra.)
     
 
LA NUOVA SARDEGNA 
 
3 - La Nuova Sardegna / Pagina 23 - Sassari
Lettera dell’avvocato all’Aou 
Manca batte cassa: chiesti i 47milioni 
«Nessun intento ostile: è un atto dovuto che serve a tutelarmi» 
SASSARI. E’ un modo per coprirsi le spalle, ma senza intenti ostili. Però la lettera inviata dall’Asl 1 all’Azienda Ospedaliero Universitaria porta in calce la firma dell’avvocato Filippo Bassu, e in neretto una cifra pesante: 46milioni e 794mila euro. Insomma, la corrispondenza tra i due commissari Paolo Manca è Gianni Cavalieri suona come un «patti chiari e amicizia lunga». L’Asl nel 2007 ha anticipato i costi di avvio dell’Azienda Mista, e ora li rivorrebbe indietro. Ma il pressing legale, secondo Manca, è solo un atto dovuto. Infatti anche l’Asl è marcata stretta. In prima battuta dai revisori dei conti, poi dagli ispettori del ministero, e infine dalla Regione. «Da Cagliari, durante la fase di approvazione del nostro bilancio - spiega Manca - è stato mosso un rilievo: ci chiedevano di definire rapidamente i rapporti contabili con l’Aou». Inoltre l’Asl vanta crediti anche nei confronti del comune di Alghero: per la cessione del vecchio ospedale ha ricevuto 1 milione di euro, ma all’appello ne manca un altro. Con queste risorse in cassa, sarebbe più semplice pagare le fatture in arretrato.
 
 
4 - La Nuova Sardegna / Pagina 9 - Sardegna
Gli intellettuali? Nei call center 
Laureati e super preparati: realizzarsi è un’impresa 
La storia di Marcella, 30 anni «A febbraio finisco il master&back, poi non so che farò» 
SASSARI. In quella specie di centrifuga a molti watt prima o poi ci passano tutti. E se superi la prova, vuol dire che hai abbastanza fegato per cercare di fare altro. Marcella, 30 anni, in un call center ha resistito due mesi. C’è finita al rientro dal Master&back, in attesa che il back diventasse qualcosa di più di un’esperienza da aggiungere al già lungo curriculum. Luigi, 34 anni, in un call center lavora ancora. E, dice lui, non va poi così male. Peccato per i soldi e il sudore investiti all’Università, pazienza se laurea, master e tirocini vari poco contino quando l’unica cosa che devi fare è parlare al telefono. Anzi, come dice Loredana, specializzarsi e acquisire competenze spesso significa tagliarsi le gambe da soli.
Si chiamano disoccupati qualificati: fanno parte di quella generazione che sgobba sui libri, va all’estero, impara le lingue, si forma nei settori di nicchia e poi, al giro di boa dei 30 anni, non ha la più pallida idea di se e quando potrà permettersi un mutuo, una casa tutta sua, magari anche un figlio. E dire, finalmente, «ce l’ho fatta». Molti di questi trentenni sono presenze fisse nelle aule dell’Università. Fanno ricerca, collaborano a progetti, accumulano ore di stage e a fine mese ricevono un assegno che basta per l’affitto e poco più. Occupati sempre, soddisfatti quasi mai. A caccia con orgoglio e ostinazione di una realizzazione professionale che non c’è o arriva a sprazzi: giusto il tempo di un contratto, l’ennesimo, a tempo determinato. Sono loro il problema nel problema. Perché se preoccupa non poco il dato alle stelle sulla disoccupazione giovanile, il vero allarme arriva da chi combatte per anni contro un muro di gomma, resistente a titoli di studio e competenze certificate.
Marcella ha 30 anni, arriva dal Marghine e abita a Sassari da più di 10. Dopo la laurea in Scienze politiche (a 24 anni) ci ha messo un attimo a capire di essere appena all’inizio della salita. Niente paura, si è detta, bisogna resistere e resistere ancora, se necessario. Per due mesi ha vissuto in gabbia con altre 150 persone. Come Marta nel film di Virzì, era Marcella a consolare le ventenni in lacrime quando venivano cacciate dal call center: «Perché piangi? Sei giovane, hai tutta la vita davanti». Anche lei è stata mandata via, ma poco male, perché «quello è stato un periodo orribile. Fregare la gente è triste, i capi ci dicevano che il lavoro era questo. Poi quel posto ha chiuso, ha fallito, proprio come immaginavo». A ventisei anni, senza lavoro e senza gli 800 euro al mese che servivano per l’affitto (450 euro per 45 metri quadri), Marcella ricomincia. E parte per il master&back: destinazione Barcellona, Venezia, Montpellier. Impara tre lingue, inglese, francese e spagnolo, guadagna più o meno mille euro al mese e ne investe 2000 per seguire un corso di cooperazione allo sviluppo a Bruxelles. Nel 2008 rientra in Italia, a Sassari. E il fatidico back non arriva. Allora vai con una sfilza di contratti a termine, c’è tempo per fare pure la promoter. Poi, un anno e mezzo dopo, ecco il nuovo inizio: contratto a progetto di due anni all’università, Marcella si occupa di cooperazione internazionale. È il back appunto, che ora si avvia verso la conclusione. La data è febbraio 2011, dopo solo incognite. «Spero di essere ammessa al dottorato in Scienze sociali - racconta Marcella -, starei tranquilla per altri tre anni». Serenità a tempo, per quella definitiva bisogna aspettare e la stabilità resta un lusso.
Un ricatto bello e buono, quello del lavoro che ti prende e ti scarica, al quale Loredana, 34 anni, ha deciso di non cedere più. Anche lei vive a Sassari, dove si è laureata in Economia e Commercio nel 2003. Loredana ha un contratto di collaborazione occasionale con l’università (si occupa di anagrafe della ricerca) e oggi festeggierà il primo compleanno del figlio. «Ho detto basta, mi sono sposata, ho avuto un bambino - racconta -, ero stufa di essere precaria nella vita privata, oltre che in quella professionale». Anche Loredana ha un curriculum da fare invidia. Dopo la laurea si è specializzata in statistica, «un settore di nicchia, dove mancano le figure competenti. O almeno così mi avevano fatto credere». Il lavoro è arrivato quasi subito, sotto forma di tirocini in enti pubblici e aziende private: periodi importanti e formativi che però «quando partecipi a una selezione non danno punteggio perché non sono considerati esperienze lavorative». Poi, nel 2008, la chiamata che può cambiare la vita: Loredana lavora per Sardegna Ricerche, nel centro Polaris di Pula. Lei e il suo gruppo hanno il compito di fotografare lo stato dell’industria nell’isola e creare una rete di collegamento con il mondo della ricerca universitaria, per mettere la tecnologia al servizio delle imprese. Il lavoro è stato lasciato a metà «perché la Regione ha congelato i fondi: 60 milioni di euro bloccati». Loredana è rientrata a Sassari e ha ricominciato a partecipare a bandi e selezioni: niente da fare, scavalcata da persone con competenze generiche, altro che specialistiche.
È successo spesso anche a Luigi, 34 anni, una laurea in Lingue. «Ho collezionato quattro o cinque idoneità - racconta - che servono a un bel nulla. Soprattutto nei piccoli comuni, al momento delle assunzioni non attingono dalle graduatorie. Dopo un po’ ho capito perché ai concorsi trovavo sempre le stesse facce: gente preparatissima, puntualmente scartata».
Negli ultimi sei anni Luigi, oltre che master e tirocini, ha fatto un po’ di tutto. A insegnare ci ha rinunciato quasi subito, inutile immergersi in quell’immenso serbatoio di precari a vita. Ha sfruttato la sua laurea, ha lavorato in hotel e agenzie di viaggio. Per un breve periodo si è improvvisato rappresentante «ma meglio lasciar perdere». Poi l’ingresso nel caos puro dei call center, da due anni un impiego a tempo indeterminato part-time. A fine mese fa 950-1000 euro. E non è poi così male, perché «qui accade il contrario: siamo noi a ricevere le telefonate dei clienti». Finisce che dopo un po’ ti abitui e l’ambizione la parcheggi in un angolo. Anzi, «sai che ti dico? Se mi proponessero un contratto full-time firmerei ad occhi chiusi». (si. sa.)
 
 
5 - La Nuova Sardegna / Pagina 7 - Cagliari
SALA LEPORI 
Scuola civica di politica, si parla di fiducia 
IGLESIAS. Il primo appuntamento con la scuola civica di politica è per mercoledì. Dopo due mesi per organizzare gli incontri ad aprire la serie delle prime quattro lezioni sarà il tema della fiducia: l’incontro dibattito (ore 18 in sala Lepori) si intitola «Lo sviluppo della città: la fiducia crea la comunità», e interverrà come relatore Vittorio Pelligra, ricercatore di Economia politica all’Università di Cagliari, insegnante presso l’ateneo di Milano Bicocca e quello di Lugano. Pelligra si occupa di teoria dei giochi, economia sperimentale, neuroscienze sociali ed economia del welfare state. I temi degli altri tre appuntamenti sono «La carta della Terra», «Il lavoro» e «Il bilancio». Ancora non sono state fissate le date ma il secondo appuntamento dovrebbe essere dopo la tre giorni «Dalla terra e dalle mani» promossa dal Centro sperimentazione autosviluppo. Il progetto della Scuola civica di politica-la città in comune è nato a fine agosto, quando sono iniziati gli incontri del comitato organizzativo, formatosi durante un’assemblea pubblica. L’idea di partenza è stata quella delle Scuola civica di storia: un ciclo di incontri tematici a cadenza regolare, che non durino più di un’ora e mezzo-due, in cui gli argomenti saranno affrontati in modo da essere accessibili anche ai meno esperti. Alle lezioni si potrà partecipare come uditori o si potrà scegliere di entrare a tutti gli effetti nell’organizzazione della scuola proponendo temi e collaborando all’organizzazione degli incontri. «L’obiettivo è informarsi e formarsi - spiegano i promotori - per maturare senso civico e imparare a fare scelte consapevoli, e promuovere l’impegno nella gestione della cosa pubblica». (laura sanna)
 

 

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