Press review

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
01 September 2008
Rassegna quotidiani locali
 
L’UNIONE SARDA
1 - Docenti e stipendi da rivalutare, un editoriale di Gaetano Di Chiara
 
LA NUOVA SARDEGNA

 
1 – L’Unione Sarda
Prima pagina
Il dibattito sulla scuola
Docenti e stipendi da rivalutare
di Gaetano Di Chiara  
 
Tra gli argomenti che hanno tenuto e tuttora tengono banco durante queste ferie estive, orfane dei lavori parlamentari, vi è quello sulla scuola. Che nella scuola le cose non vadano bene è noto ma lo si tocca letteralmente con mano nei test di ammissione ai corsi universitari, nei quali molti studenti non sono in grado di rispondere alle più semplici domande di matematica e scienze e dimostrano serie difficoltà nell’uso dell’italiano.
Non c’è dubbio che alla base del basso rendimento dei nostri studenti universitari e dell’elevata percentuale di abbandoni dopo un anno (circa il 30%) vi sia una carente preparazione scolastica. Bisogna dire, peraltro, che gli studenti che accedono all’Università sono la creme de la creme , se è vero che nel Sud la percentuale di abbandono degli studi dopo la scuola dell’obbligo è del 25% (dati Bankitalia).
La condizione di forte disagio della scuola ha fornito ampio materiale di dibattito e di polemica politica. Un aspetto positivo di questa polemica è di aver fatto emergere una serie di dati sul livello di istruzione dei nostri studenti a paragone con quelli dei paesi dell’Ocse e dell’Ue. Sulla base di questi dati si calcola che gli studenti del Sud dell’Italia sono indietro di due anni rispetto ai loro coetanei dei paesi dell’Ocse mentre gli studenti del Nord-Ovest e soprattutto del Nord-Est sono addirittura avanti. Tuttavia, l’interpretazione di questi dati non è univoca. Il fatto che il livello degli studenti del Nord sia persino superiore a quello dei paesi più avanzati sarebbe confortante, indicando che il nostro ordinamento scolastico non ha carenze strutturali insormontabili. Ma potrebbe anche significare che la scuola incide solo parzialmente sul livello di istruzione dei giovani e che la differenza tra il Sud e il Nord è dovuta a fattori extrascolastici.
Alcuni problemi della scuola sono per certi versi simili a quelli dell’università: si tratta di mastodontici salarifici che spendono quasi tutto il loro budget in stipendi per il personale: il 97% nel caso della scuola, fino al 90% nel caso dell’università. Il risultato di questo è l’impossibilità di qualsiasi altro impegno che non sia la tutela del posto di lavoro che diventa così prioritaria rispetto alla loro funzione istituzionale che, è bene ricordarlo, è la formazione e l’istruzione delle giovani generazioni.
Esistono due modelli di organizzazione e di sviluppo della scuola, così come dell’università: quello burocratico, nel quale i salari sono determinati dall’anzianità e l’organizzazione degli studi rigidamente uguale per tutti, e quello meritocratico, dove i salari dipendono dai risultati conseguiti e i programmi sono flessibili in funzione delle diverse realtà ed esigenze. In Italia siamo riusciti a fare un improbabile cocktail dei due sistemi in cui la flessibilità in mancanza di un meccanismo meritocratico è diventata inefficenza e anarchia.
Il ministro Gelmini sembra avviato sulla buona strada, se è vero che intende utilizzare strumentalmente a scopo premiale, e non semplicemente a titolo informativo, come si è fatto finora, la valutazione dell’efficienza dell’insegnamento. Valutare, per rivalutare la scuola e la professionalità dei docenti e, si spera, anche i loro stipendi.
2 – L’Unione Sarda
Cronaca di Cagliari – pagina 11
Nei giorni scorsi è stata depositata un’interpellanza
Villa Asquer conquistata dai tossici, Rifondazione attacca la Regione
   
Villa Asquer, diventata proprietà privata dei tossicodipendenti e dei senza tetto, solleva un polverone politico in Regione. Per il gruppo di Rifondazione Comunista, che ha presentato un’interpellanza, si tratta di un doppio enorme problema: manifesta la difficoltà dell’amministrazione regionale nel controllare i suoi beni e mette in rilievo gli ostacoli nel portare avanti le politiche abitative.
Nell’interpellanza Rifondazione chiede all’assessore regionale degli Enti locali «quali iniziative intenda adottare per riacquistare il possesso dell’immobile», dando inoltre «dignitosa soluzione ai problemi dei cittadini senza tetto che attualmente occupano l’edificio».
La situazione di abbandono di Villa Asquer, divenuta proprietà regionale per un lascito testamentario di Giuseppe (Peppino) Asquer (vice presidente del Consiglio per due legislature negli anni 50), per farne sede di un convitto per gli studi superiori di giovani sardi poveri e meritevoli, è «inaccettabile» perché la villa, così come altre proprietà Asquer, «sono state lasciate in abbandono o utilizzate impropriamente rispetto allo spirito e ai vincoli posti da Asquer, per negligenza dell’amministrazione regionale».
Rifondazione ricorda che, dopo una battaglia civile tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, la villa era stata recuperata, attribuita alla gestione del comune di Cagliari e poi all’Università. «La giunta», conclude l’interpellanza, «deve far sapere come intende procedere in futuro, nel rispetto dei valori di civiltà e di solidarietà espressi da Asquer, perché queste situazioni non si ripetano».

 
3 – La Nuova Sardegna
Pagina 1 - Prima Pagina
Ricerca dell’Università di Sassari sugli oneri sociali del crimine 
L’indulto è costato 3 miliardi di euro 
E in Sardegna furti e rapine crescono con la disoccupazione 
 
 SASSARI. Lo studio di un’équipe di economisti sassaresi permette di calcolare l’ammontare preciso degli oneri sociali della criminalità. E quindi di sommare per ogni blitz ricadute ed effetti mettendoli in rapporto fra loro e con altri raid. È stato così fatto il conto di quanto si è speso in Italia per l’indulto: circa 3 miliardi di euro. Si è poi osservato che il costo dei reati cresce con l’aumento della disoccupazione. Dalla ricerca emergono nuove armi efficaci per le politiche di contrasto.
 
Pagina 7 - Sardegna
«Il costo dei reati sale con la disoccupazione» 
Nuove armi per le politiche di contrasto da uno studio dell’università di Sassari 
«Per alcuni crimini si può calcolare una spesa aggiuntiva di un miliardo all’anno ogni 100mila abitanti» 
di Pier Giorgio Pinna 
 
 SASSARI. In ferie vi hanno scippato o svaligiato la casa? Beh, certo l’unica speranza è che trovino i colpevoli e vi restituiscano tutto. Ma intanto sappiate che oggi contro ladri e rapinatori gli analisti hanno uno strumento in più. È lo studio realizzato dall’ateneo di Sassari che consente di valutare con esattezza i costi della criminalità. Meglio: di calcolare l’ammontare preciso degli oneri per l’intera comunità. E quindi di sommare per ogni blitz ricadute ed effetti - diretti come indiretti - mettendoli in rapporto con altri raid. Quali i benefici, alla fine? «Calibrare i risarcimenti e mettere a fuoco i vantaggi delle politiche di contrasto», afferma Marco Vannini, coordinatore della ricerca e direttore del dipartimento universitario di economia, impresa e regolamentazione.
 Un esempio in chiave sociale evidenzia gli obiettivi pratici. A farlo è lo stesso Vannini: «Prendiamo come base la stima dell’andamento dei reati rispetto al numero dei senza lavoro. Con l’aumento di un punto percentuale della disoccupazione, da uno studio che abbiamo fatto col collega Riccardo Marselli risulta una crescita media di 18 furti, 12 rapine e 0,2 omicidi ogni centomila abitanti». Il che in tutt’Italia comporta un costo aggiuntivo annuale, legato a questi tre soli reati, pari pressappoco a un miliardo di euro.
 «Rapportato alla situazione dell’isola il quadro è semplice da definire - aggiunge il docente - Il caso precedente si attaglia approssimativamente a una situazione come quella di Sassari, che ha una popolazione di residenti di poco inferiore. Ma più nel complesso sembra evidente un onere aggiuntivo per la realtà sarda all’incirca di 50 milioni in un paio di anni».
 Tradotto dal linguaggio delle statistiche, tutto ciò appare particolarmente significativo. Nel primo trimestre 2006 il tasso di disoccupazione era pari all’11.9%. Al primo trimestre di quest’anno, ultimo periodo di paragone disponibile, si è arrivati al 13.5. Così in Sardegna, dall’inizio del 2006 sino alla fine dello scorso marzo, ci sarebbero stati in più grosso modo 400 furti e 270 rapine.
 Con procedure analoghe gli economisti sassaresi sono riusciti a calcolare il peso sociale dell’indulto. Chiarisce infatti Marco Vannini: «Abbiamo combinato le nostre stime sul costo medio dei reati con quelle di Giovanni Mastrobuoni, ricercatore di Princeton ora in forza al Collegio Carlo Alberto di Torino. Poi abbiamo preso in considerazione l’aumento dei reati associato alla riduzione della popolazione carceraria. E alla fine possiamo dire che il provvedimento del luglio 2006 nel nostro Paese ha avuto un costo totale di circa 3 miliardi di euro».
 - Quali traguardi vi prefiggete, più in generale, con questa ricerca?
 «Quando si discute di criminalità, come ha fatto di recente il ministro degli Interni Roberto Maroni a Ferragosto parlando dello schieramento dell’esercito nelle città, si dà per scontato che l’informazione-chiave sia rappresentata dal numero dei reati e dalla loro diffusione territoriale».
 - E invece?
 «Crediamo sia altrettanto importante, soprattutto alla luce degli elevati oneri delle politiche di contrasto, sapere quanto costa ciascun tipo di crimine e quali siano le voci di uscita più rilevanti».
 - Per quali ragioni?
 «Senza queste ultime notizie è impossibile valutare costi e benefici dei diversi programmi di contrasto/riduzione della criminalità. Se poi si considera che gli interventi in materia sono spesso dettati da sdegno, paura, demagogia, pregiudizi e così via, si capisce l’importanza di un riferimento più oggettivo».
 - Quali risultati avete ottenuto finora?
 «Lo studio si concluderà fra cinque mesi. Ma siamo sulla buona strada. Abbiamo stimato il costo complessivo delle componenti essenziali di un buon numero di reati (circa il 60% di quelli denunciati), adattando al contesto italiano una metodologia sviluppata da Samuel Brand e Richard Price, dell’Home Office britannico».
 - In che cosa consiste la procedura?
 «Idealmente, per ogni tipo di reato, si dovrebbe calcolare il costo sostenuto in previsione, come conseguenza e in risposta al reato stesso».
 - Ovvero?
 «Prendiamo in considerazione il furto in appartamento. Intanto dobbiamo esaminare le spese per sistemi di allarme, sorveglianza, intermediazione assicurativa. E quindi il valore di elementi intangibili come l’ansia e lo stress. Entrano tutti nella componente dei costi in previsione».
 - E poi?
 «L’entità del “colpo” più la valutazione di tutti i danni materiali e immateriali subiti dalle vittime confluiscono nella componente in conseguenza del crimine: Infine, le spese sostenute per individuare e perseguire gli autori di reato, che coincidono in gran parte con il costo per i servizi del sistema giustizia, compongono la voce in risposta».
 - Quale, allora, l’obiettivo conclusivo?
 «Una volta calcolato il valore aggregato di queste voci per i reati considerati, è possibile stabilire la loro incidenza in termini di costo sociale e fornire così una misura dell’onere medio complessivo. Come indicano le nostre stime preliminari, riguardanti i soli aspetti materiali, il confronto fra le quote espresse in valore (vedere la tabella allegata) con le stesse in termini di frequenza mostra una significativa variazione del peso relativo dei crimini».
 - Può fare un esempio?
 «Certo. Frode e contraffazione, come frequenza toccano a malapena l’8%. Invece pesano come valore per circa il 30».
 - Tutto qui?
 «Ovviamente, no. Oltre a graduare in maniera diversa il peso degli episodi delinquenziali, su questa base possiamo fare una serie di considerazioni utili per il controllo della criminalità. È il caso della scomposizione per voci dell’importo totale: per alcuni reati le spese difensive sono molto più importanti del costo diretto (cioè in conseguenza) oppure di quello necessario a perseguire i responsabili».
 - Quale il significato ultimo?
 «Evidentemente, una riduzione di queste spese richiede interventi molto differenziati. Inoltre, conoscendo il costo medio dei reati, è immediato confrontare e fare riferimento a programmi alternativi, incentrati per esempio su modalità diverse di rieducazione dei recidivi. In ogni caso, per il momento parliamo sempre di stime conservative».
 - Sarebbe a dire?
 «Si tratta di valori che omettono una componente importante: le ulteriori distorsioni del tessuto economico e sociale nell’area colpita dalla criminalità. È questo l’aspetto che attualmente il nostro gruppo di ricerca, formato da Gianfranco Atzeni, Claudio Detotto, Riccardo Marselli, Marta Meleddu, Edoardo Otranto e Manuela Pulina, sta curando con la maggiore attenzione possibile».
 - Perché?
 «Perché proprio da questo punto attendiamo i risultati più originali. Non solo attraverso l’impiego di metodi econometrici già utilizzati con successo per studiare l’effetto del terrorismo sull’attività economica. Anche con analisi specifiche sullo spiazzamento delle attività legali da parte di crimini particolari quali il sequestro di persona e i delitti di stampo mafioso».
4 – La Nuova Sardegna
Pagina 4 - Sardegna
I segreti della maricoltura? Qualità, ambiente e business 
Dalle coste tra Alghero e Bosa e dall’Ogliastra due esempi di come cambia la mentalità imprenditoriale 
 
Con le pinne e gli occhiali. Ma niente fucile. Val meglio una bombola da quindici chili in spalla e al braccio sinistro un orologio-computer. Perché Daniele Busi, marcaurelio sub di 29 anni, le orate non le deve catturare con la fiocina. No, le deve far restare all’interno delle gabbie galleggianti su un fondale di quaranta metri al centro del golfo di Alghero. Un paradiso marino, da una parte Capo Caccia, e Bombarde, dall’altra Poglina di Villanova e Capo Marrargiu di Bosa. Niente scarichi industriali, acque sardonaturali, Gibilterra è a mille chilometri, mare più pulito e più blu non si può, i fondali radiografati dall’occhio umano. Al largo nuotano tre delfini. In un punto l’acqua ribolle, sembra più blu, quasi nera, vuol dire che lì sotto un branco di sardine si compatta davanti ai predatori. Nelle gabbie nuotano migliaia di pesci che vorrebbero acque più fresche. Per guadagnarsi la libertà e vagare in mare aperto rosicchiano le pareti nelle quali sono rinchiusi. Ed ecco la missione del Busi: «Sistemare queste fascette di plastica attorno ai buchi procurati nella rete di nylon dalle orate che, soprattutto d’estate, in giornate particolarmente calde, sono voraci». Poche mattine fa ha usato 97 fascette, per fortuna il mare era una tavola. Missione compiuta.
 
 
Siamo nel regno della Maricoltura Alghero, impianto pressoché unico in Sardegna con 100 tonnellate di orate all’anno. «È il migliore esistente nell’isola, ubicato in un punto dove l’idrodinamismo è molto efficiente, impatto ambientale pressoché nullo», dice Angelo Cau, una delle eccellenze degli atenei sardi, ordinario di Biologia marina a Cagliari, presidente della omonima società italiana dei biologi marini, fra i massimi esperti di itticoltura consultati periodicamente dall’Unione europea. Il segreto dell’impianto? «Aver capito che la bassa densità di pesci in gabbia esalta la qualità del prodotto».
 Che orate. Che occhi vivi. Che branchie rosa. Peso medio fra 250 e trecento grammi. Prelevate con gru o con coppi da una delle dodici gabbie, in ognuna una media oscillante fra 130 e 140mila pesci. Prima che sulle nostre tavole, finiscono nei mercati di Alghero, Sassari e Olbia, alcuni punti vendita a Cagliari. «Potremmo produrre molto di più», dice Mauro Manca, 37 anni, rappresentante legale di una cooperativa di giovani diplomati che non hanno voluto concludere gli studi universitari “pur di lavorare” utilizzando i vantaggi della ex legge regionale 28 sull’occupazione giovanile. Il fatturato è di circa 700mila euro all’anno. Ancora Mauro. «L’anno scorso siamo rimasti fermi tre mesi per mancanza di prodotto ma avevamo anche le spigole, quest’anno abbiamo lavorato un mese di più. Il nostro futuro è legato all’installazione di altre dieci gabbie, abbiamo ottenuto altri sette ettari in mare aperto, e così - con 22 gabbie sempre delle stesse dimensioni - pensiamo di raddoppiare la produzione». Perché la Sardegna - per citare quel grande giornalista milanese che è stato Franco Nasi - è ancora “un’isola senza mare”. Nove pesci su dieci vengono da fuori. I pesci sardi (grazie al lavoro dei giovani algheresi, grazie ad alcune peschiere, come quella di Arbatax di cui ci occuperemo fra qualche riga) sono l’eccezione. Nei mercati troviamo orate e spigole - quando va bene - in arrivo da San Benedetto del Tronto, saraghi dall’Oceano Indiano, triglie dai mari africani, anguille da Chioggia. E le aragoste di Alghero? Un’altra rarità, su cento, quelle prese al largo della Riviera del Corallo sono meno della metà. Ed è un calcolo ottimista.
 
Pesci sardi di Alghero, quindi. Pochi ma buoni. Ottimi, anzi. Allevati con tecnologie moderne da Mauro e dai suoi tre soci. Eccoli nei loro uffici nella zona industriale di San Marco, tra celle frigo, ghiaccio, computer, fatture e cassette di polistirolo. Massimo Caragliu, 36 anni, ex studente di Biologia, si occupa della gestione degli impianti. Luciano Solinas, 44 anni, bada alla commercializzazione, fa le consegne e vende. Giampietro Solinas, senatore del quartetto, 54 anni, è l’uomo dell’amministrazione e dei rapporti con le banche. Uffici e lavoro in mare aperto, tra gabbiani che se ne stanno appollaiati a bordo vasca e cormorani voraci come sempre. Qui - con i campanili di Fertilia da una parte e quello di San Francesco di Alghero dall’altra - Daniele il sub si diletta tra fondali e mute, Gianluca Pinna di 29 anni è addetto ai transfert tra mare e san Marco.
 E poi ci sono i “ristoratori”, quelli che eseguono i lavori nelle gabbie e si occupano soprattutto dell’alimentazione dei pesci. Sono Eros De Giorgio quarantenne e Antonio Lai di 42 anni. Volti cotti dal sole, sorridenti. In questi giorni c’è anche Luca Brocchetta, 23 anni, sta per laurearsi a Varese in Scienze ambientali (“analisi e gestione delle risorse naturali”). Dice: «Studiamo l’impatto ambientale di questo tipo di allevamento in mare aperto, acque limpide, esperienza esaltante». Non è il solo studente di questo impianto-laboratorio: ne arrivano anche da Cagliari, da Sassari, da altre università. Controllano ogni fase lavorativa: per esempio la marchiatura di ogni singola orata. Ancora Mauro Manca: «Sulla branchia di ogni pesce viene applicata una fascetta celeste col logo dell’azienda e il codice di tracciabilità col quale si risale alla data di pesca, la gabbia di prelievo, la provenienza del lotto, anche al tipo di alimentazione che hanno avuto e perfino chi l’ha somministrata. Insomma: il consumatore dei nostri pesci è garantito al cento per cento». Il mangime viene distribuito con pale e lanciato all’interno delle gabbie, composto da proteine di pesce e vegetali, grassi e integratori vitaminici. «È l’alimentazione migliore sui mercati internazionali». Prima di finire sui banchi-vendita le orate stanno in gabbia tra i 16 e i 18 mesi. «Arrivano come oratelle da preingrasso dalla Puglia, da Torrecanne di Fasano in provincia di Brindisi, pesano tre grammi e mezzo, poi prendono cittadinanza marina quattromori-catalana perché vivono e crescono al centro della Riviera del Corallo». E i pesci al naturale? «Sempre più rari, il pescato selvatico in mare aperto arriva a malapena al 25 per cento, i nostri mari sono mari di conquista da parte di imbarcazioni che arrivano da tutto il mondo».C’è da chiedersi - visto che viviamo in un’isola al centro del Mediterraneo - se non potremmo essere autosufficienti almeno per i pesci, senza doverli importare. Viene in soccorso il professor Cau: «In teoria sì. Ma da noi è assente la cultura della lavorazione del pesce, non mancano le risorse, manca la filiera. Il pescato mondiale, di 40 milioni di tonnellate nel 1960, è oggi salito a 120 milioni. Occorre - ripeto - cultura marinara, oceanografica. Da noi è l’eccezione, dovrebbe essere la regola».
 
In questa Sardegna delle eccezioni virtuose la Maricoltura di Alghero è uno dei nostri pochi fiori all’occhiello. Senza non potremmo gustare le orate, o le spigole che vivono nell’incanto del mare fra Capo Caccia e Marrargiu. Non sono gli unici. Basta cambiare costa, spostarsi ad Oriente e fermarsi ad Arbatax, alla storica cooperativa pescatori (50 soci, età media 38 anni). La presiede Fabrizio Selenu, 36 anni, diploma di chimico alimentarista, marito di Maria Antonietta e padre di Serena prossima studentessa in Medicina. In sei anni ha fatto cambiare pelle alla coop, salvandola dal crac. È il miracolo-Arbatax, 700 quintali di pescato, 2500 quintali tra cozze, ostriche e vongole dei mari e della laguna d’Ogliastra. Il fatturato è passato da un milione a un milione e 800mila euro. «Siamo in grado di farli noi i prezzi, non di farceli imporre dagli acquirenti», dice raggiante d’orgoglio Selenu. Che - circondato da una flotta di quindici barche di piccolo tonnellaggio - ha messo a segno un’altra goleada migliorando l’ittiturismo. Si mangia in peschiera, bandita la plastica, solo piatti di ceramica, bicchieri in vetro, posate inox, buon tovagliato, vini in caraffa della cantina di Tortolì. «La ristorazione - dice Selenu - incide tra il 20 e il 25 per cento sul nostro giro d’affari». Menu tutto-mare, agli arrosti il “senatore” Alfredo Cadeddu giunto da Giba negli anni cinquanta e Bruno Cozzi, junior, famiglia ponzese.
 All’ora di pranzo vedete le rocce bianche di Baunei spuntare da un oceano blu, il tacco di Perda Longa, pescatori vanno e vengono con spigole e orate guizzanti. Per la cena la lista d’attesa si ingolfa. Vedete le luci dei paesini-presepe, le lampare delle barche, la brezza del maestrale, sentite il canto dell’assiolo e dei gabbiani in volo. Entrée con ostriche e vermentino, zerri fritti, polpo in insalata con olio di Ilbono, bottarga di muggine, grigliate, zuppe, c’è anche l’aragosta. «Noi serviamo rigorosamente quelle pescate dai nostri soci che si avventurano in mare aperto», precisa Selenu. Un presidente nipote e figlio d’arte poiché - Giuseppe e Bruno, nonno e padre - furono soci insieme ad altri 12 pescatori sardi e ponzesi. Nata il 14 novembre 1944, primo presidente della coop fu Giuseppe Pagano. Oggi -dopo Stintino - è la seconda coop pescatori più antica dell’isola.
 
Una cooperativa che ha puntato sulla qualità anche nella cucina. Dice Selenu: «Cinque anni fa arrivavamo a settemila pasti all’anno, abbiamo chiuso il 2007 a quota 15 mila, il prezzo medio è tra i 22 e i 28 euro, la clientela è soddisfatta, il vero problema è la gestione delle prenotazioni, vogliamo coccolare i nostri ospiti». Un successo che ha le stesse ragioni della Maricoltura Alghero. «Il segreto è l’ambiente che ci circonda, la qualità e la purezza delle acque, la pastura naturale. E anche la professionalità dei soci, tutti motivati».
 Mercato soprattutto regionale: «Vendiamo anche ad alcune catene di supermercati e a pochi centri commerciali. Da alcuni mesi spediamo a Venezia, Ravenna, Trieste, Treviso e Bologna, due importanti ristoranti romani sono nostri clienti da sei anni. Dobbiamo gestire il prodotto senza forzare nei numeri». La qualità ha la firma della biologa marina Luisa Balzano. «I controlli sono costanti. Le maestranze sanno qual è l’importanza della qualità alimentare».
 
Qualità, ambiente ma anche occhio alla gestione che non si affida più ai finanziamenti-regalo della Regione. Dice Selenu: «I contributi sono stati utili a costruire questa struttura che da soli non saremmo riusciti a realizzare. Ma la vera fonte di successo è arrivata dalle persone, trovare un gruppo di uomini e donne che amano vivere questa vita, sono loro ad aver dato gambe alla nostra azienda. Siamo chiamati ai convegni internazionali, ad Ancona nel 2004, a Bruxelles nel 2005, a Cabras nel 2006, a Brindisi nel 2007. Siamo un sistema multifunzionale. Ciò che facciamo oggi l’abbiamo appreso vivendo giorno e notte questo luogo».
 Un’azienda-scuola. Nicola Pirina, facoltà di Scienze politiche di Cagliari, tutor di un master in tecnologie alimentari: «Qui si fa contemporaneamente teoria e pratica. È certamente un esempio positivo per una Sardegna che sta cambiando pelle».
 Gli studenti, come i turisti, ripartono col made in Tortolì: in primo luogo - quando c’è - con la bottarga, quella con le uova dei muggini pescati nelle acque sotto Bellavista.

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