Press review

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
21 April 2008
Rassegna a cura dell’ufficio stampa e web
Segnalati 3 articoli delle testate giornalistiche L’Unione Sarda e La Nuova Sardegna  

1 – L’Unione Sarda
Cronaca Regionale Pagina 6
Splendori e miserie di una precaria
Camilla Reali, 37 anni, e la ricerca italiana vista da Londra
 Il viaggio nella Carta prosegue con l’articolo 9. Una ricercatrice spiega quant’è lunga la strada per tradurlo in realtà.
di Paolo Paolini
 
«L’Italia ha tanto capitale umano e, se non si finanzia la ricerca, il Paese affonda. Noi siamo poveri di materia prima, ma ricchissimi di capitale umano. E la ricerca è il vero motore di una nazione moderna, sia per le ricadute a livello sociale sia per quella a livello economico». Così parlò (nel 2006) il premio nobel Rita Levi Montalcini e tutti a fare cenni di assenso col capo: l’analisi era quella giusta, corroborata dall’articolo 9 della Costituzione. Perché se è vero che da un lato «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica», dall’altro centellina i fondi limitando il campo di azione dei ricercatori. Camilla Reali è un caso di scuola. Cagliaritana, trentasette anni, è un’ assegnista di ricerca, pseudonimo di borsista. Nonostante undici anni di onorata professione nel dipartimento di Citomorfologia di Cagliari, laboratorio di neurobiologia e colture cellulari, non è mai andata oltre un assegno biennale, rinnovabile, anche se non si lamenta: «Ha trascorso due periodi in Germania, due mesi per volta, e un mese e mezzo negli Stati Uniti. Ci sono andata grazie a progetti di collaborazione voluti dall’Università e, negli Usa, con un finanziamento della Fondazione Banco di Sardegna. Avrei potuto chiedere il master and back regionale, ma il limite è 36 anni non compiuti. Adesso sto frequentando un master in Neuroscienze sperimentali all’imperial college di Londra».
Quanto guadagna?
«Nella mia busta paga ci sono millecinquecento euro. Devo pagare l’assicurazione, la gestione separata Inps, altrimenti il netto sarebbe più alto. Ai fini di legge è considerato come una borsa di studio e quindi sono esentata dall’Irpef e non prendo tredicesima e cose di questo genere. L’assegno è prorogabile sino a un massimo di otto anni se non si è usufruito della borsa di dottorato, altrimenti si riduce a quattro».
Impossibile ottenere un contratto a tempo indeterminato?
«Ci vuole tanta fortuna, in dieci anni ci sono stati solo due concorsi per ricercatore».
Altri nella sua situazione?
«Ho amiche che sono riuscite a superare l’esame e oggi sono ricercatrici, ma dipende dal ramo in cui lavori. In alcuni i concorsi sono più frequenti, in altri meno».
In Sardegna ha tentato da altre parti?
«Avevo fatto la domanda al Cnr, è andata bene ma ho scelto di restare a Cagliari. Da tempo sono iscritta alla graduatoria per docenti, ma non mi hanno mai chiamata».
Quanto pesa la politica?
«Non mi sono mai accorta dell’influenza, forse perché al mio livello non è possibile percepirla. Può darsi che nel Senato accademico sia più presente, ma è solo un’ipotesi. Di sicuro molto dipende dal professore, dalla sua autorevolezza, dal numero di pubblicazioni».
Il padrino è indispensabile?
«Se arrivi come un perfetto sconosciuto forse hai meno possibilità, ma questo vale dappertutto. In Sardegna il lato brutto è la scarsa mobilità».
Solo spiccioli alla ricerca?
«Sì, soprattutto se si fa il confronto con altri Paesi europei. Penso che si potrebbe fare di più, anche se a volte c’è un evidente spreco di soldi. Ci sono persone che vengono pagate e se ne potrebbe fare tranquillamente a meno. Non va sottovalutato neppure il criterio di assegnazione dei fondi: non sempre vanno a progetti validi, anche tanti professori se ne lamentano».
Mai sentita umiliata?
«Faccio un lavoro bellissimo, mi dà la possibilità di stare all’estero, di confrontarmi con i colleghi durante i congressi. Il problema è che guadagni poco, mette nelle condizioni di resistere solo chi ha le possibilità economiche per affrontare un lungo periodo difficile. Il punto è che dopo otto anni il contratto non si può rinnovare e il mio gruppo di ricerca non ha i soldi per assumermi».
Tornando indietro sceglierebbe di fare la bancaria?
«Assolutamente no, sono contenta di quello che faccio e disposta ad accettare i sacrifici».
Vorrebbe tornare in Sardegna?
«Da settembre riprenderò il mio lavoro a Cagliari.
La ricerca italiana vista dall’Inghilterra?
«Arrivo dal campo delle neuroscienze, che è tenuto in grande considerazione, e vorrei spezzare una lancia a favore della ricerca italiana: tenendo presente che nel nostro Paese i finanziamenti sono risicati, va detto che i risultati sono considerevoli. A Londra però organizzano un’infinità di seminari, non lesinano abbonamenti a riviste costose e utili per tenersi aggiornati, il confronto con ricercatori di tutto il mondo è la regola. E tutte queste possibilità sono il vero valore aggiunto della ricerca fatta all’estero».
 
2 – L’Unione Sarda
Cultura Pagina 57
«Io, ex bambino soldato cresciuto nell’orrore»
 
 Abito blu scuro, cravatta, portamento elegante, voce ferma. Niente, dell’aspetto attuale di John Baptist Onama, tradisce il suo passato di ex bambino-soldato. A vederlo così, seduto dietro una cattedra, mentre racconta la sua drammatica storia, quest’ugandese di 41 anni sembra solo ciò che è diventato: un docente universitario affermato e stimato che insegna programmazione europea all’Università di Padova. Eppure questo stesso uomo 28 anni fa era un bambino-soldato che vagava nella savana ugandese. Malvestito e denutrito, ma armato fino ai denti. Indossava un’uniforme inglese rabberciata che gli stava larghissima e un paio di vecchie scarpe di fabbricazione italiana. Marciava Onama, sotto l’effetto di droghe. Imbracciava un fucile mitragliatore Ak-47, modello ceko, più comunemente conosciuto come kalashnikov: un’arma micidiale, caricata con cartucce di fabbricazione jugoslava. Sparava a vista Onama, contro tutto e contro tutti. Sparava per uccidere. Gli avevano insegnato ad odiare e a massacrare senza sentimenti e senza pietà. E questo lui aveva imparato a fare. Da allora è passato molto tempo. Oggi John Baptist Onama vive in Italia, insegna ai giovani il rispetto dei diritti umani e collabora con l’Unicef nelle vesti di uomo-simbolo della lotta contro il fenomeno dei bambini-soldati. Nel suo lungo tour di conferenze è approdato anche a Cagliari, non una ma due volte. Venerdì scorso è stato l’ospite d’onore della conferenza Unicef sui diritti dei bambini, dal titolo "L’istruzione... la speranza dei bambini soldati", che si è tenuta in una sala affollata della Facoltà di Economia. L’incontro, inserito nel programma del Corso universitario di educazione allo sviluppo, è stato introdotto da Laura Zedda (docente dell’Università di Cagliari) e dalla responsabile provinciale dell’Unicef Rosella Onnis. Onama ha raccontato la sua drammatica esperienza di vita in un italiano perfetto. Di fronte a lui duecento studenti impietriti, scioccati.
«Era il 1980 e in Uganda infuriava la guerra civile - racconta Onama. - Io ero uno dei tanti bambini sottratti improvvisamente all’affetto della propria famiglia e ai giochi d’infanzia per diventare soldati o più precisamente killer a comando». In un clima di feroce odio razziale, con le truppe governative intente a dare la caccia ai ribelli, il quattordicenne John Baptist (proveniente da una famiglia colta e benestante) venne catturato insieme a un fratello dalle milizie regolari. «Fummo risparmiati solo perché eravamo utili (data la nostra perfetta conoscenza del territorio) ma fummo costretti per diversi mesi a combattere in prima linea contro i dissidenti che si nascondevano nella boscaglia, al confine con il Sudan».
Riaprire le vecchie ferite fa male. Gli occhi di Onama diventano lucidi quando racconta di un’anziana donna assassinata senza un perché dal suo plotone. «Figlio mio perché mi uccidi? Che male ti ho fatto io?», continuava a ripetere l’anziana a chi le puntava addosso il fucile. Ma quel soldato, a differenza del piccolo Onama e di suo fratello, non conosceva quella lingua: era di un’altra etnia e dunque non capiva una sola parola. Così premette il grilletto.
Sono passati tanti anni ma Onama non ha dimenticato. Ha ancora davanti agli occhi tutti i quei cadaveri insepolti, disseminati per le strade. E sente ancora l’odore di morte che aleggiava tra i villaggi di capanne. Nella sua testa riecheggiano le urla disperate di una ragazzina di 13 anni strappata ai genitori, stuprata dal plotone e accoltellata a morte per farla smettere di urlare. Onama ha assistito ad atrocità inenarrabile e se ora ha iniziato a parlarne in pubblico è solo per un motivo: contribuire ad evitare che altri bambini si ritrovino costretti ad imbracciare un fucile e a dover uccidere per sopravvivere. Per il professor Onama l’unica speranza per i bambini-soldati (sono 300 mila oggi nel mondo) è l’istruzione. «Dopo la liberazione io ho potuto completare gli studi - spiega agli studenti - e se oggi sono qui a parlare con voi il merito è della scuola. L’istruzione è fondamentale perchè consente di educare le nuove generazioni al rispetto della vita umana. Solo con l’istruzione un paese lacerato dalla guerra può risollevarsi».
Paolo Loche

 
1 – La Nuova Sardegna
Pagina 6 - Sardegna
Il pane fatto col lievito naturale
Ecco l’ideale per i diabetici 
 
SASSARI. La vostra glicemia fa i capricci? Volete una vita più sana? Abbandonate le baguette e il classico panino, preferite senza esitazione il pane fatto con il lievito tradizionale. Occhio, però, la forma non conta. In questo caso non è l’abito che fa il monaco. L’importante per la salute e per il gusto, infatti, è mangiare pane fatto con lievito naturale (in sardo «madrighe» o «fremmentalzu»).
 Quel pane, insomma, che mangiavano i nostri nonni: lo inzuppavano nel latte al mattino, lo accompagnavano a un pezzo di ricotta mustia o formaggio per un pranzo frugale o semplicemente insieme a un po’ di erbe di campo di stagione.
 Qualcuno penserà che si tratti della solita trovata new-age o del salutismo chic da salotto televisivo o della copertina acciappacitrulli di qualche rivista dedicata alle diete di primavera. Ma che questa non sia una dichiarazione basata genericamente sul buon senso, lo dimostra un interessante articolo scientifico appena pubblicato sulla rivista «Acta Diabetologica». Ne sono autori alcuni ricercatori dell’università di Sassari (istituto di Medicina interna, Unità metabolica; dipartimento di Scienze Biomediche, Dipartimento di Scienze e Biotecnologie agrarie e ambientali della Facoltà di Agraria).
 L’articolo è firmato da Mario Maioli, Giovanni Maria Pes, Manuela Sanna, Sara Cherchi, Mariella Dettori, Elena Manca e Giovanni Antonio Farris.
 Ma vediamo di capire il motivo per cui, per la nostra salute, è meglio mangiare il pane preparato con il lievito naturale piuttosto che col lievito di birra. Quest’ultimo, come si sa, è il lievito abbondantemente usato durante la panificazione industriale in mezzo mondo, grazie al fatto che chi lo usa conta su tempi di lievitazione molto bassi con risparmio di tempo e notevole guadagno economico.
 Chi vuole usare il lievito naturale per fare il pane, invece, deve mettere nel conto che il processo di lievitazione dura più di cinque-sette ore. In cambio, chi usa questo secondo metodo, potrà avere un pane più appetitoso, fragrante, che si mantiene fresco più a lungo. E soprattutto più sano.
 Fino a poco tempo fa, in molte case della Sardegna, c’era una organizzazione familiare che mobilitava le donne di casa e del vicinato già dal mattino prestissimo e perfino dalla sera prima perchè dopo che si era fatto l’impasto occorreva attendere i tempi lunghi di lievitazione prima di infornare il pane.
 La lavorazione era complessa (si preparavano le provviste di pane per dieci-quindici giorni) e, a parte la fatica sovrumana alla quale erano sottoposte le donne, aveva indubbi, affascinanti aspetti di poesia (quanti racconti, quante leggende, quante confidenze tra le comari...).
 Perchè tempi così lunghi di lievitazione?
 «Perchè nella pasta acida - dice il microbiologo professor Giovanni Antonio Farris - prima agisce il lievito e poi i batteri. E i lavoro sul piano microbiologico è lungo e porta a risutati che sono evidenziati sul piano della salutre ma anche dei sapori».
 Nel lievito di birra, invece, è presente solo un agente della fermentazione, il saccharomyces cerevisiae, la sua azione è ‘semplicemente’ la creazione dell’anidride carbonica che promuove la fermentazione dell’amido della farina. E alla fin fine la composizione del pane non è molto divers da quellA delle farine del quale è fatto. Nella pasta acida, al contrario, sono presenti molti lieviti. A fare la differenza sono i batteri lattici: è la loro azione che rende il pane di «madrighe» radicalmente diverso da uno fatto col lievito di birra.
 E il secondo (a parte profumi e conservabilità migliori) ha un Indice glicemico più alto di quello fatto col lievito naturale. Nel senso che l’aumento di glicemia che si determina nel sangue con il pane di madrighe è inferiore a quello di pane di lievito di birra.
 «Per la nostra ricerca - dice Farris - abbiamo selezionato lieviti naturali in tutta la Sardegna. Selezione che ha portato a mettere a punto il lievito che abbiamo usato nella panificazione da impiegare nella prova clinica».
 «Se analizziamo il comportamento di individui sani alimentati con pane di madrighe e di lievito di birra non notiamo differenze significative - dice il professor Maioli - La differenza la vediamo, però, nei soggetti con ridotta tolleranza agli zuccheri, i cosiddetti prediabetici. Ed è proprio su un tale campione di 9 soggetti maschi e 7 donne che abbiamo condotto la nostra prova clinica. Ai due gruppi abbiamo fatto mangiare esattamente gli stessi alimenti (latte, marmellata senza zucchero) e pane, uno fatto col lievito di birra e l’altro con pane di madrighe. Il risultato è stato sorprendente, almeno per me che ero scettico. Lo stesso soggetto che aveva mangiato il pane normale, ha avuto glicemia più bassa e una minore produzione di insulina se il pane con cui si è alimentato era quello di madrighe».
 Qual è la spiegazione?
 I ricercatori hanno analizzato la struttura dei due tipi di pane al microscopio elettronico: differenze impercettibili o nulle. Il segreto della diversità tra i due tipi di pane era, invece, nel contenuto di zuccheri semplici. Il pane da pasta acida aveva meno glucosio e meno maltosio poichè, lo abbiamo accertato dopo, erano stati metabolizzati dai batteri. E inoltre il pane di madrighe viene aggredito con maggiore difficoltà dalle amilasi riducendo, dunque, i tempi di assorbimento con conseguente rallentamento nello svuotamento dello stomaco con importante benefici per la salute dell’individuo.
 «Mi sembra superfluo raccomandare - dice il professor Maioli - che i diabetici non devono comunque abusare nel consumo del pane anche se si tratta di quello di madrighe».
 Effetti positivi, il pane di madrighe, pare possa averlo anche nella dieta dei pazienti celiaci. Ma gli studi dei ricercatori sassaresi sono ancora top secret.
Pasquale Porcu
 
 

Questionnaire and social

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