1 - L’Unione Sarda
L’intervista. Il neuroscienziato Marco Diana e gli studi sulle nuove terapie
LO SCIROPPO NON SERVE, ECCO LA CURA PER L’ALCOLISMO
Marco Diana è un neuroscienziato che, insieme a un gruppo di ricercatori dell’università di Sassari, ha rivoluzionato le conoscenze sull’alcol. Con un articolo su un’importante rivista internazionale, ha spazzato via numerose certezze scientifiche mettendo in discussione le terapie seguite finora. La questione, alcolismo e dintorni, riguarda almeno centotrentamila sardi. L’occasione diventa eccellente per parlare di cantonate della Scienza, affidabilità dei medici, pentimenti sulla pelle dei malati.
Cronaca Regionale -Pagina 7
Ecco l’antidoto alla sbronza
Marco Diana e le nuove terapie contro l’alcolismo
Si chiama acetaldeide il dio segreto e sconosciuto di chi si attacca alla bottiglia. È una sostanza contenuta nell’alcol e finora ritenuta responsabile degli effetti collaterali: mal di testa, nausea, rintronamento da sbronza del giorno dopo. Contro l’acetaldeide l’industria farmaceutica ha sfornato negli anni un campionario di medicinali che aiutano a smettere di bere ma provocano dipendenza.
Il Laboratorio di neuroscienze cognitive dell’Università di Sassari (intitolato alla professoressa Minardi) ha dimostrato che l’acetaldeide è esattamente l’opposto di quello si era creduto finora. Ne ha riferito con una serie di articoli su riviste specializzate della comunità scientifca internazionale e, in attesa di controdeduzioni, prosegue una ricerca che avrà enormi conseguenze. Si tratta, in fondo, di una piccola rivoluzione: tutto quello che pensavamo su alcol e alcolisti è sbagliato o almeno da rettificare. Terapie e farmaci compresi. La faccenda riguarda in Sardegna circa centotrentantamila persone.
Dietro questa scoperta, una sorta di bomba col silenziatore, c’è un cagliaritano di 50 anni, moglie, due figli e due cani: Marco Diana. Guadagna 2.600 euro al mese, servitore dello Stato in camice bianco e microscopio. Dopo la laurea, ha studiato nell’università del Colorado a Denver, in quella della California (San Diego) e a Città del Messico. Il suo è stato, per dirla col nuovo linguaggio della politica regionale, un master and back a spese proprie. «Un sacrificio. Ma è lì che ho capito cosa significhi fare davvero il ricercatore e abbandonare del tutto l’idea di un futuro da medico di famiglia».
Diana è un neuroscienziato timido e aggressivo. Spiega con pazienza la sua complicata teoria sapendo bene che sta abbattendo un vecchio dogma, che naviga contro certezze consolidate e assolute, una sorta di su connottu che non prevede eresie ed eccezioni. Sembra quasi chiedere scusa per aver scoperto quello che ha scoperto ma per parlarne pretende i nomi dei titolari, la squadra di colleghi che ha condiviso con lui una ricerca iniziata cinque anni fa. Sette nomi: cinque sassaresi (Paolo Enrico, Alessandra Peana, Alessandra Lintas, Donatella Sirca, Maddalena Mereu), due cagliaritani (Miriam Melis, Mimmo Spiga).
Cattedratico di tossicologia, Diana ha svolto qualche lavoro per conto delle multinazionali del farmaco. Non propone l’immagine del genio in transito su questa terra di analfabeti e nemmeno racconta una vita tutta pubblicazioni e convegni nel mondo. Ha un solo grande sogno segreto: lavorare al Gallo Center di San Francisco dove, a sentirlo, abita «il paradiso della sperimentazione farmacologica internazionale». Quando ha tempo libero, il professore gioca a scacchi o va in barca a vela. «Lo faccio da ragazzo. Il mare aperto aiuta la riflessione, libera da mille zavorre quotidiane e ti consente di pensare e rilassarti in una condizione di pace assoluta». È sicuramente un nonviolento: provocarlo su errori ed orrori di suoi vicinissimi colleghi non fa scattare il detonatore della vendetta. Ma qualcosina la dice, cominciando proprio dai suoi incolpevoli pazienti: i topi.
«Si chiamano ratti».
Che è lo stesso.
«Non è lo stesso. Quelli che adoperiamo noi sono ratti pulitini e con gli occhi rossi, sembrano creature in arrivo dallo spazio. Rispetto ai topi, sono giganteschi».
Si è mai affezionato a uno di loro?
«Mai. A Denver ho lavorato con le scimmie e la cosa diventa più difficile. Di scimmia ne usi una per mesi, ha un nome, ti riconosce, ti guarda. Il ratto invece è spersonalizzato».
Cioè non esiste.
«Nelle mani di uno sperimentatore la sua vita dura dodici ore. Poi lo devi sacrificare. Civilmente. Con un’iniezione letale».
Eutanasia da laboratorio.
«Esatto. Non ci lascia indifferenti la sofferenza di un animale».
Li fate solo diventare ubriaconi.
«Questo sì. Li addestriamo all’abuso. Si comincia con l’equivalente di una birretta, cinque gradi alcolici. Devono scegliere liberamente: acqua o birretta».
Scelgono birretta.
«Inevitabile. A quel punto iniziamo ad andare pesante, fino a bevande che hanno 12, 13 gradi».
Ne fate santi bevitori.
«Proprio. Santi bevitori, martiri della scienza».
Rimorsi verso fratello ratto?
«È la ricerca, bellezza».
Alcol e alcolismo: non avevate capito niente.
«Piano. Con la nostra ricerca abbiamo abbattuto due totem. Uno: si riteneva che la sostanza desiderata dall’uomo fosse l’alcol. E invece no: era l’acetaldeide».
Non lo sapevate, però.
«No, non lo sapevamo. Il totem numero due è che l’acetaldeide è sempre stata considerata un antagonista dell’alcol, il diavoletto che provoca gli effetti secondari dell’ubriachezza. Ossia quello che, dopo una bella bevuta, ti fa sentire la testa-alveare, le meningi che ronzano».
Avete scoperto che invece è buona.
«Sapete che fa? Media gli effetti dell’alcol sul cervello, attiva il sistema dopaminergico, che è deputato a farci sentire piacere».
Sensazione di leggera follia.
«Quella. L’acetaldeide finisce per essere l’authority del godimento, la parte buona dell’alcol».
Chi vi ha creduto?
«Tra la fine del 2007 e il febbraio 2008 le nostre risultanze hanno trovato ospitalità sull’ European Journal of Neuroscience e su altre pubblicazioni scientifiche».
Avete ribaltato la concezione classica.
«Direi di sì, senza voler sembrare un talebano pieno di certezze».
Scusi, questo vuol dire che gli sciroppi in commercio non servono a niente?
«Non sarei così assolutista. Il Ghb, che è poi il principio attivo dei prodotti in commercio, fa smettere sul serio di bere ma crea problemi d’altro tipo perché diventa un’alternativa, un succedaneo dell’alcol».
Dipendenti da Ghb.
«Qualcosa del genere».
Pare tuttavia che il Ghb funzioni bene in discoteca.
«Gli americani lo chiamano rape drug , droga da stupro, perché viene utilizzato spesso nei locali da ballo».
In che modo?
«Basta versarne un pochino, all’insaputa della vittima, in una bibita qualunque. Dopo un quarto d’ora, ecco la testa che gira, precarietà d’equilibrio e nessuna, nessuna resistenza a tutto il resto».
Quindi col Ghb voi, voi ricercatori, avete preso una cantonata da oscar.
«La ricerca prende, continuamente e inevitabilmente, cantonate. Faccio un esempio. Per una vita è stato detto, a proposito dell’ulcera gastrica, che non poteva essere una malattia provocata da batteri perché l’acidità dello stomaco non ne consente la sopravvivenza in alcun modo».
E allora?
«Nel Duemila ricercatori australiani hanno dimostrato che l’ulcera gastrica è una malattia batterica. Tant’è che si cura e guarisce con normali antibiotici».
Domanda conseguente: lei si fida dei medici?
«Di quelli bravi, sì».
Quanti sono quelli bravi?
«Cinque su cento. Cinque su cento sanno quello che fanno e perché lo fanno. La stessa percentuale vale per i ricercatori».
Morale: avete responsabilità spaventose.
«Errore, errore grave. Da un punto di vista scientifico non abbiamo responsabilità: ci abbiamo sempre creduto. Almeno spero. Non è stato mai immesso in commercio un farmaco che si sapeva in qualche misura dannoso. Saremmo stati dei sadici. E un ricercatore sadico è uguale a un pompiere che ha paura del fuoco».
Che garanzie abbiamo noi, noi consumatori di farmaci?
«La nostra onestà intellettuale, e non è poco».
Non allarma che il consumo sia cresciuto del 48 per cento in sei anni?
«Credo nei farmaci e dunque non mi allarmo. Sono strumenti fondamentali per migliorare la propria condizione biologica».
Cioè la qualità della vita.
«Non la qualità della vita ma la vita stessa. Vogliamo parlare di Sabin, del vaccino contro la polio, del tracoma che in Alto Volta rende ciechi ancora oggi migliaia di bambini mentre da noi è passato remoto?»
Che dire dei farmaci nati per qualcosa e che ne risolvono un’altra?
«Capita. Guardate l’aspirina, inventata più di un secolo fa. Solo di recente si è scoperto che in microdosi, la cosiddetta aspirinetta, riduce concretamente l’incidenza di malattie cardiovascolari, ictus, infarto».
Qual è la credibilità dei bugiardini?
«Contenuta. Modica. Modesta».
Che ne sarà della vostra ricerca?
«Stiamo studiando molecole per ridurre la quantità d’alcol e non l’acetaldeide. In capo a due anni dovremmo avere un prodotto pronto per la sperimentazione».
Umana?
«Certo. Fra sette, otto anni si potrà avere un nuovo farmaco in commercio».
Senza fiatare su quelli che l’hanno preceduto.
«Questo tipo di processi non spettano a noi. Quelli come me si confortano ricordandosi in ogni momento che la ricerca ha cambiato la vita di milioni di persone». L’ha fatta bella».
Giorgio Pisano
2 - L’Unione Sarda
Ricerche sulla proprietà della caffeina sono in corso anche nei laboratori dell’Università di Cagliari
IL CAFFÈ: FRA RITO E PIACERE UN ALLEATO DELLA SALUTE
Secondo studi internazionali contrasterebbe la malattia di Parkinson e la perdita di memoria
Sorseggiare una tazza di caffè è un piacere consueto in Italia cosi come in tanti paesi al mondo. Una buona tazza di caffè, per la maggioranza degli italiani, è un rito e un punto di orgoglio, quasi una bandiera nella sua versione nazionale dell’espresso. Ma oltre a costituire un piccolo piacere quotidiano, quella tazza di caffè, ora sappiamo, mette un’ipoteca sulla possibilità di vivere con meno rischi di perdere la memoria o di ammalarsi di Parkinson.
Le cure per le malattie arrivano in genere dalla ricerca di base e dagli studi preclinici; per la caffeina (il composto attivo del caffè) il percorso è stato inverso. Una bevanda così diffusa ha permesso di compiere studi epidemiologici valutando su migliaia di persone, forti o deboli consumatori di caffè, lo sviluppo di determinate malattie.
Due di questi studi pubblicati sul Journal of American Medical Association e sulla rivista Neurology appaiono particolarmente interessanti perché evidenziano l’efficacia che la caffeina avrebbe su malattie che al momento non hanno alcuna cura.
Il primo di questi studi, ha dimostrato che tra i grandi bevitori di caffè (più di cinque tazze al giorno) c’è una ridotta incidenza di malattia di Parkinson (una malattia che provocando la morte di specifici neuroni nel cervello impedisce il movimento) rispetto a coloro ne fanno un uso modesto. Questo studio, insieme ad altri che lo hanno seguito, ha coinvolto più di 8.000 persone e ha avuto una grande risonanza mondiale perché per la prima volta ha dimostrato che la malattia di Parkinson potrebbe essere prevenuta e curata. Studi sulle proprietà della caffeina nella malattia di Parkinson sono in corso anche nei nostri laboratori dell’Università di Cagliari. Suggeriscono che la caffeina, per far sì che la malattia di Parkinson rallenti la sua corsa verso la distruzione dei neuroni, deve bloccare i recettori per un neurotrasmettitore chiamato adenosina. Il blocco di questi recettori fa anche in modo che l’adenosina non sia più in grado, come in condizioni fisiologiche, di bloccare il movimento provocando un doppio beneficio. Farmaci che agiscono sui recettori dell’adenosina sono in sperimentazione clinica e si pensa che possano aiutare la levodopa, il principale farmaco utilizzato in questa patologia, ad essere più efficace e provocare ridotti effetti collaterali.
Un’altra ricerca molto promettente che riguarda i recettori dell’adenosina e quindi la caffeina, viene dalla Francia. Secondo gli studi condotti dai ricercatori dell’Istituto Nazionale della Salute e della Ricerca Medica (INSERM) di Montpellier, nel caffè sarebbe presente «l’elisir di lunga memoria». I ricercatori francesi hanno confrontato la capacità di ricordare di 7.000 donne anziane divise a seconda del consumo di caffè e the (ambedue contengono caffeina) in forti e deboli consumatrici. Dallo studio è emerso che chi aveva bevuto almeno tre tazze di caffè o the al giorno mostrava meno problemi a ricordare cose o eventi rispetto a chi non supera il consumo di una singola tazza giornaliera. La differenza tra le forti e deboli consumatrici di caffè era ancora più evidente con l’avanzare dell’età, raggiungendo il massimo oltre gli 80.
Queste sono solo le più recenti notizie sulle proprietà terapeutiche della caffeina, tuttavia da quando si è iniziato a studiare questa sostanza con metodi scientifici, sono numerosissimi gli studi che convergono nel riconoscere proprietà positive a questa sostanza. Al contrario, tutti i tentativi di collegare la caffeina al rischio di sviluppare malattie, non ultimo l’infarto, hanno fornito conclusioni ambigue, tali da portare alla conclusione che non esistono rischi collegati al consumo di caffè. La caffeina è uno stimolante, aumenta cioè l’attenzione e la precisione nell’esecuzione di compiti specifici, diminuisce il bisogno di dormire, aumenta le prestazioni atletiche aumentando i tempi di reazione e la coordinazione muscolare. La caffeina è anche usata per incrementare le proprietà dei più comuni antidolorifici. Per questo motivo numerose bevande, prima tra tutte la Coca Cola, addizionano caffeina per aumentarne le proprietà stimolanti. Una convinzione da sfatare è invece quella che la caffeina sia in grado di contrastare gli effetti dell’alcol. Bere bevande con forte contenuto di caffeina o assumere più tazze di caffè, maschera solamente l’effetto sedativo dell’alcol. Il bevitore, quindi senza accorgersene continua a bere alcol fino a raggiungere quantità tossiche, molto pericolose per sé per gli altri.
Chi avrebbe mai supposto nel 1570 quando Prospero Alpino portò a Venezia dall’Egitto alcuni semi di caffè che questa bevanda sarebbe divenuta il prodotto arabo più diffuso in occidente? La storia del caffè, come quella di altre sostanze psicoattive che definiamo droghe, condivide la tipica trasformazione nel tempo da sostanza sacra, cerimoniale, a fenomeno di consumo voluttuario. La leggenda che avvolge il caffè è costellata di racconti affascinanti: da quello dell’Iman del convento Scehodet dello Yemen che si dice facesse bere il nero decotto della pianta di Kaffa ai suoi discepoli prima delle preghiere di mezzanotte per tenerli desti e per «donargli leggerezza che trascina verso l’alto», all’arcangelo Gabriele che salvò Maometto dalla malattia del sonno portandogli una bevanda nera chiamata Kaweh, fino al monaco arabo Ahmeb Ben Giabad che scriveva «chi muore con del Kahva in corpo non va all’inferno». Grazie alla ricerca biomedica, il caffè venuto dall’Arabia diventerà l’elisir per una buona vita?
Micaela Morelli