Press review

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
24 February 2008

Rassegna a cura dell’ufficio stampa e web
Segnaliamo 5 articoli delle testate giornalistiche L’Unione Sarda e La Nuova Sardegna.
 
 
01 - Alcolismo. intervista al neuroscienziato Marco Diana
02 - Caffeina, ricerche anche nei laboratori dell’università di Cagliari
03 - Paesaggio, l'università in campo. Appello di centinaia di docenti
04 - Sassari. Blitz dei Nas nelle sale operatorie di San Pietro
05 - Nas in corsia. La situazione del palazzo Clemente di Sassari
 


 
L’UNIONE SARDA  

 
1 - L’Unione Sarda
Prima Pagina - Pagina 2
L’intervista. Il neuroscienziato Marco Diana e gli studi sulle nuove terapie
LO SCIROPPO NON SERVE, ECCO LA CURA PER L’ALCOLISMO
Marco Diana è un neuroscienziato che, insieme a un gruppo di ricercatori dell’università di Sassari, ha rivoluzionato le conoscenze sull’alcol. Con un articolo su un’importante rivista internazionale, ha spazzato via numerose certezze scientifiche mettendo in discussione le terapie seguite finora. La questione, alcolismo e dintorni, riguarda almeno centotrentamila sardi. L’occasione diventa eccellente per parlare di cantonate della Scienza, affidabilità dei medici, pentimenti sulla pelle dei malati. 
Cronaca Regionale -Pagina 7
Ecco l’antidoto alla sbronza
Marco Diana e le nuove terapie contro l’alcolismo
Si chiama acetaldeide il dio segreto e sconosciuto di chi si attacca alla bottiglia. È una sostanza contenuta nell’alcol e finora ritenuta responsabile degli effetti collaterali: mal di testa, nausea, rintronamento da sbronza del giorno dopo. Contro l’acetaldeide l’industria farmaceutica ha sfornato negli anni un campionario di medicinali che aiutano a smettere di bere ma provocano dipendenza.
Il Laboratorio di neuroscienze cognitive dell’Università di Sassari (intitolato alla professoressa Minardi) ha dimostrato che l’acetaldeide è esattamente l’opposto di quello si era creduto finora. Ne ha riferito con una serie di articoli su riviste specializzate della comunità scientifca internazionale e, in attesa di controdeduzioni, prosegue una ricerca che avrà enormi conseguenze. Si tratta, in fondo, di una piccola rivoluzione: tutto quello che pensavamo su alcol e alcolisti è sbagliato o almeno da rettificare. Terapie e farmaci compresi. La faccenda riguarda in Sardegna circa centotrentantamila persone.
Dietro questa scoperta, una sorta di bomba col silenziatore, c’è un cagliaritano di 50 anni, moglie, due figli e due cani: Marco Diana. Guadagna 2.600 euro al mese, servitore dello Stato in camice bianco e microscopio. Dopo la laurea, ha studiato nell’università del Colorado a Denver, in quella della California (San Diego) e a Città del Messico. Il suo è stato, per dirla col nuovo linguaggio della politica regionale, un master and back a spese proprie. «Un sacrificio. Ma è lì che ho capito cosa significhi fare davvero il ricercatore e abbandonare del tutto l’idea di un futuro da medico di famiglia».
Diana è un neuroscienziato timido e aggressivo. Spiega con pazienza la sua complicata teoria sapendo bene che sta abbattendo un vecchio dogma, che naviga contro certezze consolidate e assolute, una sorta di su connottu che non prevede eresie ed eccezioni. Sembra quasi chiedere scusa per aver scoperto quello che ha scoperto ma per parlarne pretende i nomi dei titolari, la squadra di colleghi che ha condiviso con lui una ricerca iniziata cinque anni fa. Sette nomi: cinque sassaresi (Paolo Enrico, Alessandra Peana, Alessandra Lintas, Donatella Sirca, Maddalena Mereu), due cagliaritani (Miriam Melis, Mimmo Spiga).
Cattedratico di tossicologia, Diana ha svolto qualche lavoro per conto delle multinazionali del farmaco. Non propone l’immagine del genio in transito su questa terra di analfabeti e nemmeno racconta una vita tutta pubblicazioni e convegni nel mondo. Ha un solo grande sogno segreto: lavorare al Gallo Center di San Francisco dove, a sentirlo, abita «il paradiso della sperimentazione farmacologica internazionale». Quando ha tempo libero, il professore gioca a scacchi o va in barca a vela. «Lo faccio da ragazzo. Il mare aperto aiuta la riflessione, libera da mille zavorre quotidiane e ti consente di pensare e rilassarti in una condizione di pace assoluta». È sicuramente un nonviolento: provocarlo su errori ed orrori di suoi vicinissimi colleghi non fa scattare il detonatore della vendetta. Ma qualcosina la dice, cominciando proprio dai suoi incolpevoli pazienti: i topi.
«Si chiamano ratti».
Che è lo stesso.
«Non è lo stesso. Quelli che adoperiamo noi sono ratti pulitini e con gli occhi rossi, sembrano creature in arrivo dallo spazio. Rispetto ai topi, sono giganteschi».
Si è mai affezionato a uno di loro?
«Mai. A Denver ho lavorato con le scimmie e la cosa diventa più difficile. Di scimmia ne usi una per mesi, ha un nome, ti riconosce, ti guarda. Il ratto invece è spersonalizzato».
Cioè non esiste.
«Nelle mani di uno sperimentatore la sua vita dura dodici ore. Poi lo devi sacrificare. Civilmente. Con un’iniezione letale».
Eutanasia da laboratorio.
«Esatto. Non ci lascia indifferenti la sofferenza di un animale».
Li fate solo diventare ubriaconi.
«Questo sì. Li addestriamo all’abuso. Si comincia con l’equivalente di una birretta, cinque gradi alcolici. Devono scegliere liberamente: acqua o birretta».
Scelgono birretta.
«Inevitabile. A quel punto iniziamo ad andare pesante, fino a bevande che hanno 12, 13 gradi».
Ne fate santi bevitori.
«Proprio. Santi bevitori, martiri della scienza».
Rimorsi verso fratello ratto?
«È la ricerca, bellezza».
Alcol e alcolismo: non avevate capito niente.
«Piano. Con la nostra ricerca abbiamo abbattuto due totem. Uno: si riteneva che la sostanza desiderata dall’uomo fosse l’alcol. E invece no: era l’acetaldeide».
Non lo sapevate, però.
«No, non lo sapevamo. Il totem numero due è che l’acetaldeide è sempre stata considerata un antagonista dell’alcol, il diavoletto che provoca gli effetti secondari dell’ubriachezza. Ossia quello che, dopo una bella bevuta, ti fa sentire la testa-alveare, le meningi che ronzano».
Avete scoperto che invece è buona.
«Sapete che fa? Media gli effetti dell’alcol sul cervello, attiva il sistema dopaminergico, che è deputato a farci sentire piacere».
Sensazione di leggera follia.
«Quella. L’acetaldeide finisce per essere l’authority del godimento, la parte buona dell’alcol».
Chi vi ha creduto?
«Tra la fine del 2007 e il febbraio 2008 le nostre risultanze hanno trovato ospitalità sull’ European Journal of Neuroscience e su altre pubblicazioni scientifiche».
Avete ribaltato la concezione classica.
«Direi di sì, senza voler sembrare un talebano pieno di certezze».
Scusi, questo vuol dire che gli sciroppi in commercio non servono a niente?
«Non sarei così assolutista. Il Ghb, che è poi il principio attivo dei prodotti in commercio, fa smettere sul serio di bere ma crea problemi d’altro tipo perché diventa un’alternativa, un succedaneo dell’alcol».
Dipendenti da Ghb.
«Qualcosa del genere».
Pare tuttavia che il Ghb funzioni bene in discoteca.
«Gli americani lo chiamano rape drug , droga da stupro, perché viene utilizzato spesso nei locali da ballo».
In che modo?
«Basta versarne un pochino, all’insaputa della vittima, in una bibita qualunque. Dopo un quarto d’ora, ecco la testa che gira, precarietà d’equilibrio e nessuna, nessuna resistenza a tutto il resto».
Quindi col Ghb voi, voi ricercatori, avete preso una cantonata da oscar.
«La ricerca prende, continuamente e inevitabilmente, cantonate. Faccio un esempio. Per una vita è stato detto, a proposito dell’ulcera gastrica, che non poteva essere una malattia provocata da batteri perché l’acidità dello stomaco non ne consente la sopravvivenza in alcun modo».
E allora?
«Nel Duemila ricercatori australiani hanno dimostrato che l’ulcera gastrica è una malattia batterica. Tant’è che si cura e guarisce con normali antibiotici».
Domanda conseguente: lei si fida dei medici?
«Di quelli bravi, sì».
Quanti sono quelli bravi?
«Cinque su cento. Cinque su cento sanno quello che fanno e perché lo fanno. La stessa percentuale vale per i ricercatori».
Morale: avete responsabilità spaventose.
«Errore, errore grave. Da un punto di vista scientifico non abbiamo responsabilità: ci abbiamo sempre creduto. Almeno spero. Non è stato mai immesso in commercio un farmaco che si sapeva in qualche misura dannoso. Saremmo stati dei sadici. E un ricercatore sadico è uguale a un pompiere che ha paura del fuoco».
Che garanzie abbiamo noi, noi consumatori di farmaci?
«La nostra onestà intellettuale, e non è poco».
Non allarma che il consumo sia cresciuto del 48 per cento in sei anni?
«Credo nei farmaci e dunque non mi allarmo. Sono strumenti fondamentali per migliorare la propria condizione biologica».
Cioè la qualità della vita.
«Non la qualità della vita ma la vita stessa. Vogliamo parlare di Sabin, del vaccino contro la polio, del tracoma che in Alto Volta rende ciechi ancora oggi migliaia di bambini mentre da noi è passato remoto?»
Che dire dei farmaci nati per qualcosa e che ne risolvono un’altra?
«Capita. Guardate l’aspirina, inventata più di un secolo fa. Solo di recente si è scoperto che in microdosi, la cosiddetta aspirinetta, riduce concretamente l’incidenza di malattie cardiovascolari, ictus, infarto».
Qual è la credibilità dei bugiardini?
«Contenuta. Modica. Modesta».
Che ne sarà della vostra ricerca?
«Stiamo studiando molecole per ridurre la quantità d’alcol e non l’acetaldeide. In capo a due anni dovremmo avere un prodotto pronto per la sperimentazione».
Umana?
«Certo. Fra sette, otto anni si potrà avere un nuovo farmaco in commercio».
Senza fiatare su quelli che l’hanno preceduto.
«Questo tipo di processi non spettano a noi. Quelli come me si confortano ricordandosi in ogni momento che la ricerca ha cambiato la vita di milioni di persone». L’ha fatta bella».
Giorgio Pisano
  
2 - L’Unione Sarda 
Cultura - Pagina 56
Ricerche sulla proprietà della caffeina sono in corso anche nei laboratori dell’Università di Cagliari
IL CAFFÈ: FRA RITO E PIACERE UN ALLEATO DELLA SALUTE
Secondo studi internazionali contrasterebbe la malattia di Parkinson e la perdita di memoria
Sorseggiare una tazza di caffè è un piacere consueto in Italia cosi come in tanti paesi al mondo. Una buona tazza di caffè, per la maggioranza degli italiani, è un rito e un punto di orgoglio, quasi una bandiera nella sua versione nazionale dell’espresso. Ma oltre a costituire un piccolo piacere quotidiano, quella tazza di caffè, ora sappiamo, mette un’ipoteca sulla possibilità di vivere con meno rischi di perdere la memoria o di ammalarsi di Parkinson.
Le cure per le malattie arrivano in genere dalla ricerca di base e dagli studi preclinici; per la caffeina (il composto attivo del caffè) il percorso è stato inverso. Una bevanda così diffusa ha permesso di compiere studi epidemiologici valutando su migliaia di persone, forti o deboli consumatori di caffè, lo sviluppo di determinate malattie.
Due di questi studi pubblicati sul Journal of American Medical Association e sulla rivista Neurology appaiono particolarmente interessanti perché evidenziano l’efficacia che la caffeina avrebbe su malattie che al momento non hanno alcuna cura.
Il primo di questi studi, ha dimostrato che tra i grandi bevitori di caffè (più di cinque tazze al giorno) c’è una ridotta incidenza di malattia di Parkinson (una malattia che provocando la morte di specifici neuroni nel cervello impedisce il movimento) rispetto a coloro ne fanno un uso modesto. Questo studio, insieme ad altri che lo hanno seguito, ha coinvolto più di 8.000 persone e ha avuto una grande risonanza mondiale perché per la prima volta ha dimostrato che la malattia di Parkinson potrebbe essere prevenuta e curata. Studi sulle proprietà della caffeina nella malattia di Parkinson sono in corso anche nei nostri laboratori dell’Università di Cagliari. Suggeriscono che la caffeina, per far sì che la malattia di Parkinson rallenti la sua corsa verso la distruzione dei neuroni, deve bloccare i recettori per un neurotrasmettitore chiamato adenosina. Il blocco di questi recettori fa anche in modo che l’adenosina non sia più in grado, come in condizioni fisiologiche, di bloccare il movimento provocando un doppio beneficio. Farmaci che agiscono sui recettori dell’adenosina sono in sperimentazione clinica e si pensa che possano aiutare la levodopa, il principale farmaco utilizzato in questa patologia, ad essere più efficace e provocare ridotti effetti collaterali.
Un’altra ricerca molto promettente che riguarda i recettori dell’adenosina e quindi la caffeina, viene dalla Francia. Secondo gli studi condotti dai ricercatori dell’Istituto Nazionale della Salute e della Ricerca Medica (INSERM) di Montpellier, nel caffè sarebbe presente «l’elisir di lunga memoria». I ricercatori francesi hanno confrontato la capacità di ricordare di 7.000 donne anziane divise a seconda del consumo di caffè e the (ambedue contengono caffeina) in forti e deboli consumatrici. Dallo studio è emerso che chi aveva bevuto almeno tre tazze di caffè o the al giorno mostrava meno problemi a ricordare cose o eventi rispetto a chi non supera il consumo di una singola tazza giornaliera. La differenza tra le forti e deboli consumatrici di caffè era ancora più evidente con l’avanzare dell’età, raggiungendo il massimo oltre gli 80.
Queste sono solo le più recenti notizie sulle proprietà terapeutiche della caffeina, tuttavia da quando si è iniziato a studiare questa sostanza con metodi scientifici, sono numerosissimi gli studi che convergono nel riconoscere proprietà positive a questa sostanza. Al contrario, tutti i tentativi di collegare la caffeina al rischio di sviluppare malattie, non ultimo l’infarto, hanno fornito conclusioni ambigue, tali da portare alla conclusione che non esistono rischi collegati al consumo di caffè. La caffeina è uno stimolante, aumenta cioè l’attenzione e la precisione nell’esecuzione di compiti specifici, diminuisce il bisogno di dormire, aumenta le prestazioni atletiche aumentando i tempi di reazione e la coordinazione muscolare. La caffeina è anche usata per incrementare le proprietà dei più comuni antidolorifici. Per questo motivo numerose bevande, prima tra tutte la Coca Cola, addizionano caffeina per aumentarne le proprietà stimolanti. Una convinzione da sfatare è invece quella che la caffeina sia in grado di contrastare gli effetti dell’alcol. Bere bevande con forte contenuto di caffeina o assumere più tazze di caffè, maschera solamente l’effetto sedativo dell’alcol. Il bevitore, quindi senza accorgersene continua a bere alcol fino a raggiungere quantità tossiche, molto pericolose per sé per gli altri.
Chi avrebbe mai supposto nel 1570 quando Prospero Alpino portò a Venezia dall’Egitto alcuni semi di caffè che questa bevanda sarebbe divenuta il prodotto arabo più diffuso in occidente? La storia del caffè, come quella di altre sostanze psicoattive che definiamo droghe, condivide la tipica trasformazione nel tempo da sostanza sacra, cerimoniale, a fenomeno di consumo voluttuario. La leggenda che avvolge il caffè è costellata di racconti affascinanti: da quello dell’Iman del convento Scehodet dello Yemen che si dice facesse bere il nero decotto della pianta di Kaffa ai suoi discepoli prima delle preghiere di mezzanotte per tenerli desti e per «donargli leggerezza che trascina verso l’alto», all’arcangelo Gabriele che salvò Maometto dalla malattia del sonno portandogli una bevanda nera chiamata Kaweh, fino al monaco arabo Ahmeb Ben Giabad che scriveva «chi muore con del Kahva in corpo non va all’inferno». Grazie alla ricerca biomedica, il caffè venuto dall’Arabia diventerà l’elisir per una buona vita?
Micaela Morelli
    

  
LA NUOVA SARDEGNA 
  
3 - La Nuova Sardegna
Pagina 1 - Cagliari   
Università in campo: il paesaggio è di tutti
Centinaia di docenti di Cagliari e Sassari firmano un appello per la tutela 
Cagliari. «Nel rispetto dovuto a tutte le sentenze della magistratura, i sottoscritti intendono esprimere una totale condivisione delle motivazioni in primis etiche, ma anche scientifiche che hanno guidato la commissione regionale (quella al Paesaggio costituita dalla Regione all’inizio del 2007 - ndr)..., competente a svolgere il compito di suggerire proposte per la dichiarazione di notevole interesse pubblico degli immobili e delle aree» del colle di Tuvixeddu. Il mondo universitario si è mobilitato in favore della scelta regionale su Tuvixeddu per l’allargamento del vincolo a tutto il colle. La «riscossa» è partita da Sassari: oltre cento docenti universitari hanno sottoscritto il documento citato (da Piero Bartolini, docente di Archeologica fenicio punica ad Aldo Maria Morace, preside della facoltà di Lettere e filosofia; da Antonello Mattone, direttore del dipartimento di Storia, ad Alberto Moravetti, professore di preistoria e protostoria; dalla sociologa Antonietta Mazzette al linguista Alberto M. Mura).
Il colle «rappresenta un elemento di fondamentale importanza per il paesaggio storico di Karalis (...) se veramente la percezione paesaggistica originaria del “luogo” è legata al “sistema dei colli”, a tal segno da essere generatrice del nome stesso di Cagliari, in età preistorica e protostoria». Per questo motivo «i sottoscritti intendono unire la propria voce a quella dei molti che difendono un patrimonio paesaggistico e culturale di straordinario valore e si preoccupano soprattutto per il possibile sviluppo di iniziative imprenditoriali nelle aree più delicate e più significative sul piano identitario».
 Dopo Sassari anche il mondo universitario di Cagliari si sta mobilitando, in favore del vincolo allargato, a partire da un documento promosso da Simonetta Angiolillo (docente di Archeologia classica), Roberto Coroneo (professore di Storia dell’arte medievale e direttore del dipartimento di Scienze archeologiche e storico-artistiche) e da Bruno Anatra (che insegna Storia moderna). Nel documento viene difeso il lavoro svolto dalla commissione regionale al Paesaggio, che ha seguito le indicazioni del Codice Urbani. Legge dello Stato del 2004 che «introduce il concetto, radicalmente innovativo, del bene paesaggistico come unità ambientale nel quale insistono le varie categorie di beni culturali (naturalistici, storici, archeologici, artistici, demoetnoantropologici)». Una nuova percezione che introduce anche «la possibilità di restaurare il paesaggio con il ripristino della sua unità ambientale, non tanto originaria (giacchè un ritorno alle origini è pressochè impossibile) quanto anteriore a una serie di interventi più o meno recenti, che l’hanno compromessa quando non obliterata, pur non cancellandone del tutto la memoria, che va quindi anch’essa salvaguardata». Da cui l’importanza «del processo di ricostruzione della fisionimia storica del contesto» (r.p.)
 
4 - La Nuova Sardegna
Pagina 1 - Prima Pagina
Blitz dei Nas nelle sale operatorie 
Controlli alle cliniche universitarie di San Pietro: sporcizia e insicurezza    
Allarme per la scarsa protezione dei gas medicali 
Sassari. Generalizzata inosservanza delle norme igieniche e di quelle che regolano la sicurezza sui luoghi di lavoro: è la prima valutazione fatta dai carabinieri dei Nas di Sassari a conclusione della fase delle verifiche compiute nel blocco operatorio dell’Azienda mista Ospedale-Università (l’edificio conosciuto come «Palazzo Clemente») in viale San Pietro.
 La segnalazione è stata trasmessa all’assessorato regionale alla Sanità e al comando nazionale dei Nas di Roma. Scattano ora gli accertamenti necessari per stabilire le responsabilità. Si tratta di situazioni vecchie, problemi che si trascinano da anni e che hanno ormai raggiunto livelli preoccupanti.
 
5 - La Nuova Sardegna
Pagina 6 - Sardegna
I Nas in corsia: cliniche sporche e insicure 
Sassari, la situazione del palazzo Clemente segnalata all’assessorato regionale 
I carabinieri hanno verificato ancora una volta lo stato di degrado della struttura. Allarme anche per la presenza di bombole di gas medicali all’aperto e senza protezioni 
Sassari. Generalizzata inosservanza delle norme igieniche e di quelle che regolano la sicurezza sui luoghi di lavoro: è la prima valutazione fatta dai carabinieri dei Nas di Sassari a conclusione della fase delle verifiche compiute nel blocco operatorio dell’Azienda mista Ospedale-Università (l’edificio conosciuto come «Palazzo Clemente») in viale San Pietro. La segnalazione è stata trasmessa all’assessorato regionale alla Sanità e al comando nazionale dei Nas di Roma.
I controlli sono scattati nei giorni scorsi a seguito di ripetute segnalazioni che avevano indicato situazioni di degrado specifiche, condizioni di forte precarietà sotto il profilo della sicurezza. Il monitoraggio dei carabinieri ha riguardato le aree adiacenti il blocco operatorio e, in particolare, quelle circostanti l’edificio. Ma anche le «zone filtro» e quelle di preparazione del personale medico e infermieristico. In tutti gli ambienti sono state rilevate «carenze igienico-sanitarie». Ora è scattata la fase di accertamento delle responsabilità, ed è evidente che si tratta di problemi vecchi, che si sono ingigantiti con il passare degli anni, anche a seguito di evidente confusione nella programmazione degli interventi strutturali, nella ridistribuzione degli spazi, nella valorizzazione delle regole che devono rappresentare il primo livello di tutela della salute dei pazienti e degli addetti ai lavori.
I Nas, ieri, si sono limitati a confermare l’attività di verifica effettuata nei giorni scorsi e - in alcuni casi - ancora in pieno svolgimento. «Stiamo lavorando - ha detto il luogotenente Felice Santilli, comandante del nucleo dei carabinieri della salute di Sassari - ma in questo momento non c’è niente da dire. Si vedrà alla fine». L’attività ispettiva dei Nas, però, non è passata inosservata nei giorni scorsi. Specie quando i militari hanno svolto accertamenti nelle zone esterne prossime al blocco delle sale operatorie: qui hanno rilevato un tappeto di cicche di sigarette, bicchieri di plastica usati, scatoloni, vetri e altri materiali abbandonati come rifiuti. E poi i muri dei corridoi, ridotti in condizioni impresentabili, così come quelli delle scale e le pareti degli ascensori: scritte e disegni di ogni genere. Un quadro completato da dispositivi medici e materiali di consumo usati e lasciati in bella mostra, chissà per quale motivo (si tratta di guanti, mascherine e calzari). Il check-up ha riguardato anche la situazione dei rivestimenti interni (mancante o scollato in più punti) e la pavimentazione (deformata o saltata in diversi tratti).
Un lungo elenco, completato dalla scoperta di un’area grezza (una delle solite incompiute), utilizzata come una sorta di «punto fumo» abusivo e ridotta in condizioni pietose dalla presenza di centinaia di filtri di sigarette, bicchieri di plastica e rifiuti vari.
Da sottolineare (anche per la pericolosità reale) la situazione delle bombole medicali (azoto, elio e aria), che si trovano a ridosso del muro perimetrale senza l’apposita gabbia di protezione e, quindi, accessibili a chiunque (sono collegate alle tubazioni che servono gli ambulatori e endocrinologia al primo piano).
Un capitolo a parte meritano le uscite di sicurezza. Quella che si affaccia sul cortile viene utilizzata per il trasferimento dei pazienti dalle ambulanze alle sale operatorie: non esiste un percorso coperto e il piazzale (che dovrebbe essere riservato ai mezzi di soccorso) è sempre impegnato da altri veicoli che rendono difficoltose le manovre. Infine il trasferitore di barelle che non funziona: i Nas avrebbero accertato che il paziente viaggia dall’area sterile ai reparti senza quel passaggio di tutela che, invece, è previsto e riguarda i ricoverati come il personale. Il monitoraggio delle strutture sanitarie proseguirà nei prossimi giorni.
Gianni Bazzoni
 
   

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