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1 - L’Altra Voce.net
Interventi.
Una scuola che non aggiorna i docenti e non insegna a comunicare è incapace di conquistare i ragazzi
di Cristina Lavinio
Riparliamo di dispersione scolastica: dati allarmanti, lo sappiamo da tempo, in Italia, e tra le regioni italiane soprattutto in Sardegna, con picchi altissimi di abbandoni, di ragazzi che non conseguono neppure la licenza media o che si perdono per strada dopo il primo anno di scuola superiore.
Giustamente, in questo che è stato proclamato a livello regionale come “l’anno della scuola”, ci sono cospicui stanziamenti per lottare contro la dispersione. Ho però l’impressione che le radici del fenomeno non siano ancora sufficientemente indagate.
Non si tratta solo di vederle nelle sirene di un lavoro dequalificato e precario che, sicuramente, qua e là si trova ancora o che rischia di confondersi con le attività di apprendistato legate a qualcuno dei molti corsi di formazione professionale proliferati in questi anni (forse da noi più che altrove) e che hanno allettato i ragazzi con la “paghetta”, distraendoli persino dalla conclusione dell’obbligo scolastico (che la recente finanziaria ha innalzato a 16 anni). Né di vederle solo nella sfiducia per titoli di studio che ormai non determinano più, di per sé, promozione sociale e, tantomeno, garantiscono un lavoro sicuro.
Tra l’altro, non mi sembrano sufficientemente messi a fuoco alcuni interventi urgenti per porre rimedio al fenomeno dispersione, anche se i loro frutti potranno non essere immediati. Mi limito a citare due problemi sottovalutati, che considero invece prioritari.
Il primo, fondamentale, riguarda la necessità di intervenire sugli insegnanti in servizio. Quanti insegnanti sono buoni insegnanti? Quanti sono veramente competenti e appassionati rispetto alle materie che insegnano, e dunque riescono a contagiare gli alunni con la loro passione? Quanti insegnanti cercano in continuazione modi diversi e più efficaci per rendere vivo e interessante il proprio fare didattico?
Sappiamo da tempo che gli insegnanti sono determinanti nel creare motivazione e interesse allo studio e, dunque, nel contrastare gli abbandoni. Più di quanto non lo sia la famiglia di provenienza. Infatti, da indagini fatte per esempio sui ragazzi che leggono, si scopre che un buon insegnante promuove l’abitudine alla lettura più che non le abitudini culturali familiari (che incidono solo in assenza di un intervento compensativo da parte della scuola).
Ma chi si è mai preoccupato di formare debitamente e massicciamente gli insegnanti? C’è una cosa che si chiama “formazione in servizio” che non può essere demandata né a sporadici corsi di aggiornamento sugli argomenti più vari e disparati, né affidata completamente, secondo una linea invalsa nello stesso ministero della Pubblica Istruzione negli ultimi anni, ai corsi on line (e-learning). Ancora oggi, tra l’altro, solo una minoranza di insegnanti ha familiarità con il computer e la rete; ma anche se tutti fossero massicciamente informatizzati, basterebbero i corsi on line a garantire una buona formazione in servizio (corsi in cui ricevi un attestato di avvenuta formazione magari contando solo il numero di volte in cui ti sei connesso)?
Senza sottovalutare la rete come una delle risorse utilizzabili, sono convinta (e non solo io) che una buona formazione in servizio possa essere garantita solo dallo studio (di pagine scritte e non dalla fruizione più o meno superficiale di videate semplificate, e semplificanti le questioni più complesse), dalla riflessione, dalla sperimentazione di buone pratiche didattiche sui cui risultati riflettere in continuazione per migliorarli e, soprattutto, dall’interazione diretta con i colleghi (della propria scuola e classe), oltre che con esperti esterni (e che non siano solo pedagogisti o psicologi).
Solo questo tipo di formazione in servizio può incidere veramente, soprattutto di fronte a una formazione iniziale sempre più carente. Un tempo i laureati che andavano a insegnare conoscevano bene almeno le materie da insegnare (con l’eccezione dell’italiano, a lungo mai studiato all’Università se non nei suoi aspetti storico-letterari); oggi si può incominciare a sospettare che non sia più così, soprattutto se si vogliono far valere, per l’accesso alla “professione insegnante”, le lauree triennali.
Solo di recente sono nati, all’Università, scuole o corsi appositi per la formazione iniziale dei docenti, ma sono troppo spesso sbilanciati su questioni che toccano immediatamente la didattica e troppo incuranti dell’accertamento, nei corsisti, di buone conoscenze delle materie su cui innestare considerazioni didattiche. In questo modo, il come insegnare rischia di procedere nell’ignoranza del cosa insegnare.
Difficile mestiere, quello degli insegnanti, che dovrebbero avere, invece, un’ottima padronanza sia del “cosa” insegnare che un’ampia conoscenza dei metodi più validi per il “come” insegnare quella stessa cosa (cioè quella stessa materia). Con la consapevolezza supplementare che i metodi non sono validi una volta per tutte: quanto funziona con una classe può non essere altrettanto efficace con un’altra ecc. Bisognerebbe acquisire le attitudini per la ricerca continua delle soluzioni più adeguate di volta in volta.
Insomma, tornando alla dispersione e ai progetti per arginarla, bisognerebbe investire seriamente e prioritariamente nella formazione dei docenti in servizio, cardine di una scuola di qualità (oltre che della lotta alla dispersione).
Il secondo problema cui penso, sottovalutato o ignorato, è legato alla giusta preoccupazione per la scarsa propensione nel nostro Paese verso lo studio delle scienze. Tutti dicono che bisogna privilegiare gli interventi in questa direzione. Lo ha ribadito recentemente anche l’assessore Mannoni. Ma quasi a nessuno viene in mente che ci possa essere un nesso indissolubile tra conoscenze linguistiche relative all’italiano e conoscenze scientifiche.
I dati OCSE-PISA rivelano che gli studenti italiani del biennio di scuola superiore hanno conoscenze molto basse in matematica e scienze e capacità molto basse nella comprensione del significato di brevi e semplici testi formulati in italiano. Ora, viene da chiedersi, chi non capisce l’italiano dei messaggi più comuni (e non quello di raffinati testi letterari), come può capire quello usato per parlare di matematica e di scienze? E non è la lingua (italiana, nel nostro caso) lo strumento che permette di accedere ai contenuti di tutte le materie, che permette di renderli comprensibili e di addentrarsi nel loro territorio, in modo sempre più preciso e specialistico?
Non ci saranno dunque, per gli studenti, anche difficoltà legate alla comprensione del linguaggio di cui si servono insegnanti e libri di testo? Non ci saranno, per le materie scientifiche, difficoltà legate alla terminologia e al procedere lucido e rigoroso del discorso scientifico? Bisogna insegnare agli alunni ad impadronirsi di termini precisi, di parole da usare con la pregnanza dei loro significati tecnici (la forza in fisica non è certo quella del senso comune), di capacità di argomentare e di dimostrare, magari dopo avere visto e osservato esperimenti di laboratorio. Ma tutto ciò passa per una cura delle capacità linguistiche di base e della dimensione linguistica, di cui anche i docenti di materie scientifiche dovrebbero farsi carico.
Occorre insomma trovare attenzioni per tutto ciò, superando il senso comune che vuole che occuparsi e preoccuparsi di matematica e scienze non significhi occuparsi anche, almeno un po’, di lingua. E di comunicazione. Basta con le “due culture”: lo diceva Snow moti anni fa, lo ribadiscono oggi in tanti, come il linguista Tullio De Mauro e il fisico Carlo Bernardini. E suggerisco la lettura del loro Contare e raccontare, cui affiancare magari anche La cultura degli italiani, di De Mauro intervistato da Erbani.
Perciò penso a insegnanti di lingua italiana e di scienze che lavorino insieme ed entrino un po’ gli uni sul terreno che solo apparentemente è degli altri e che, soprattutto, condividano problemi affrontati in momenti di formazione comuni: sarebbero una risorsa importantissima. Anche e soprattutto per combattere la dispersione.