Press review

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
26 January 2007
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI
Rassegna Stampa di mercoledì 26 gennaio 2005
1 – L’Unione Sarda
Pagina 15 – Cultura
Il maestro di Pietralata diventa professore
È difficile immaginare quali parole Albino Bernardini, scrittore e vecchio maestro di scuola, spenderà domani mattina (alle 10,30) nell'aula del Rettorato in via Università a Cagliari. Difficile immaginare se nelle sue corde prevarranno unicamente la commozione e la gioia per essere stato chiamato a ricevere uno dei più importanti riconoscimenti della sua vita, il diploma di laurea "Honoris Causa" in Scienze dell'educazione che gli verrà consegnato dal rettore Pasquale Mistretta. O se, nella sua intatta vitalità di fresco 87enne, ci stupirà dando ancora fiato e gambe a un'idea di scuola, e insieme di società, coltivata e difesa caparbiamente con l'esempio di tutta una vita. Il riconoscimento della laurea al Maestro di Pietralata, così come viene ancora ricordato in tutta Italia l'autore del libro che ispirò lo sceneggiato Diario di un maestro diretto da Vittorio de Seta e mandato in onda dalla Rai negli anni Settanta, giunge in un momento quanto mai difficile e controverso. Non solo per le retrive ventate ideologiche che oggi spirano con violenza sulla scuola pubblica italiana. Ma anche a causa dell'incredibile scandalo che in questi giorni scuote la stessa facoltà di Scienze della formazione dell'Università di Cagliari, dopo la pubblicazione nei suoi Annali di un testo (peraltro immediatamente rigettato e stigmatizzato dal Rettore e dai vertici universitari), teso a giustificare lo sterminio degli ebrei nella Shoah e a irridere a ogni valore di convivenza civile, di partecipazione e di concreta solidarietà tra gli individui e tra i popoli. Ovvero a tutti quei valori a cui Bernardini, nei suoi scritti e nelle aule dove ha operato, ha sempre fatto riferimento con lo stesso piglio visionario e insieme con la stessa rivoluzionaria concretezza dei Mario Lodi, dei Don Lorenzo Milani e dei Giuseppe Pontremoli. La richiesta di assegnazione del riconoscimento a Bernardini, promossa e presentata dalla sezione cagliaritana del Movimento di cooperazione educativa con il sostegno di numerosi docenti universitari sardi, ha ripercorso le tappe di un straordinario viaggio nella scuola italiana. Dagli esordi del giovane maestro di Siniscola dietro le cattedre nei piccoli paesi della Baronia, in un difficile dopoguerra nel quale già riecheggiavano gli insegnamenti della scuola americana tesi a iniettare robuste dosi di pedagogia "democratica" nel complicato processo di defascistizzazione del sapere; alle esperienze nelle realtà profonde del malessere barbaricino (da cui più avanti nacque il fortunato volume Le bacchette di Lula, riedito recentemente da Ilisso con l'originale e appassionata prefazione dell'amico fraterno Gianni Rodari); al trasferimento a Roma e all'immersione nella degradata realtà delle borgate. È in questo periodo, siamo negli anni '60, che Bernardini si avvicina alle istanze della pedagogia popolare di Célestin Freinet, elaborate in Francia e approfondite in Italia dal Movimento di cooperazione educativa e da personalità quali Mario Lodi, Giuseppe Tamagnini e Bruno Ciari. Un'adesione che non fu solo rinnovamento di prassi metodologiche e tecniche operative, peraltro fondamentale nel rigettare la pratica verticale e meramente trasmissiva del sapere da docente a discente, ma anche precisa scelta di campo. Una scelta, per quest'uomo mite ma capace di sgretolare ogni convenzione e ogni costrizione a colpi di maglio, a cui è rimasto sempre fedele. Maestro dalla parte dei più sfortunati, degli esclusi, di quelli che il Don Milani di Lettera a una professoressa denunciava come vittime del meccanismo infernale attraverso il quale la scuola pubblica perpetuava e riproduceva la discriminazione e lo svantaggio delle classi sociali più deboli. Quanto sia stata netta questa scelta di campo, e quanto sia stata significativa e pregnante l'azione di Albino Bernardini a partire dagli ultimi anni '60, lo si colse quando il suo modo di fare scuola e la realtà dei suoi alunni borgatari, i "malestanti" descritti in Un anno a Pietralata (primo suo libro pubblicato, ai quali ne seguirono un'altra decina in parte dedicati alle esperienze vive nel mondo della scuola e in parte alla narrativa per ragazzi), bucarono gli schermi televisivi nello sceneggiato interpretato da Bruno Cirino. Perché per la prima volta l'universo muto e minore dei bambini diseredati, di coloro ai quali la scuola italiana non dava quelle risposte educative pure previste per dettato costituzionale, riemergeva dalle nebbie del ghetto nel quale era stato sino ad allora relegato. Dimostrando di nutrire grandi aspirazioni. Di avere fame e sete di riscatto. Di saper cogliere nella scuola, se la scuola si metteva al servizio dei più deboli con la capacità di ascoltare e di capire (più che di sentenziare e selezionare), tutto il patrimonio di opportunità utile a riscrivere il proprio destino. Certo erano anni di profondi mutamenti. Anni un cui si dissolvevano le classi differenziali. In cui veniva richiesta a gran voce pari dignità per gli alunni diversamente abili. In cui il bambino, a prescindere dalla sua estrazione economica e sociale, veniva chiamato a diventare finalmente artefice del proprio processo educativo. Ciò che però lo sceneggiato di Vittorio de Seta riuscì a veicolare, ottenendo un enorme successo di pubblico, fu sicuramente anche una nuova/rinnovata figura di maestro ideale. Un maestro finalmente tanto lontano dalle leziosità ottocentesche di De Amicis, così restie a rimuoversi dall'immaginario collettivo, quanto dai dickensoniani e giustificatissimi strali di Carlo Lorenzini-Collodi ("?i pedagoghi e i maestri di scuola, queste macchie nere e malinconiche che rattristano l'orizzonte sereno della prima fanciullezza"). Un maestro che aveva in sé qualcosa dell'incorrotta gentilezza del "Re dei bambini" di Acheng e insieme del rigore monastico del giovane Pasolini nell'improvvisata scuola di Versuta; della dura coerenza di Don Milani e insieme della delicatezza della professoressa di Pawel Huelle e della scanzonata visionarietà del supplente di Silvio d'Arzo nel Premiato Collegio Minerva. Un maestro, Bruno Cirino/Albino Bernardini, finalmente capace di piegarsi a statura di bambino, dei suoi bisogni e dei suoi punti di vista, per meglio accompagnarlo in quel difficile "cammina cammina" che è l'affacciarsi alla vita. Per tutto questo, e per tanto altro ancora, il vecchio Maestro di Pietralata riceverà la laurea honoris causa all'Università di Cagliari, discutendo la tesi "Riflessioni sulla Scuola di Base". E anche se oggi per il mondo dell'educazione e della scuola mala tempora currunt, tra infortuni accademici, reazionarie riforme imposte dall'alto e continui svilimenti di quello che resta il "mestiere" più bello del mondo, non saranno comunque in pochi ad alzare il calice in suo onore e a stargli idealmente vicino.
Alberto Melis
2 – La Nuova Sardegna
Pagina 43 - Cultura e Spettacoli
 Il passaggio alla modernità
 La battaglia di Giorgio Asproni contro la legge delle chiudende
 
Bitti, dove Giorgio Asproni era nato e dove amava a volte rifugiarsi, era uno di quei villaggi della Barbagia in cui le pecore la facevano da padrone. Secondo quanto scriveva Vittorio Angius, un altro influente sacerdote-intellettuale autore delle voci sarde del «Dizionario degli Stati Sardi» del piemontese Casalis, vi erano a Bitti 600 pastori che possedevano non meno di 55.000 pecore. Parte importante dei lavori agricoli, pure necessari alla sopravvivenza alimentare del villaggio, veniva svolta dalle donne. Padre Angius considerava dannoso e antieconomico questo costume. Stando a casa, le donne bittesi avrebbero potuto tessere da sé le tele e i panni dei loro abiti, senza ricorrere a quelle fabbricate dalle più casalinghe donne di Orani, con significativo «risparmio» per i loro mariti e padri (che invece si ostinavano a considerare fonte di un maggiore «risparmio» il lavoro delle loro donne nei campi). A giudizio dello stesso Angius, le donne stavano anche al centro del sistema della vendetta, di cui erano le vestali. Le madri conservavano «le chiome o le vesti squarciate e insanguinate» degli uccisi di famiglia, e le mostravano ai loro figli, che dunque sin da piccoli erano oggetto di un’ossessiva pedagogia della vendetta (sotto questo aspetto le madri di Bitti erano l’esatto contrario delle madri immaginate da Jean Jacques Rousseau, intente a indottrinare i figli nelle arti della «tenerezza»).
 Segnati da una «gran cupezza», «sensibilissimi e memori delle ingiurie» e dunque propensi alla vendetta, «facili all’ira», così Angius vedeva i bittesi, ma li vedeva anche liberi da qualsiasi timore nei confronti della forza e dell’autorità e per nulla disposti a subire abusi. Alla radice di tutto questo la condizione di «pastori erranti», il dominio che esercitavano sulle terre. La loro libertà di uomini (e di proprietari) era la libertà delle loro greggi di sciamare in spazi aperti. Ancora ai tempi in cui l’Angius scriveva (metà degli anni Trenta), i terreni chiusi erano a Bitti ben poca cosa (non più di sei miglia quadrate), ma anche a questi chiusi, quando non seminati, aveva accesso il bestiame brado. A limitare l’espansione dei chiusi avevano contribuito anche quei «demolitori e diroccatori» di tanche che nell’estate-autunno del 1832 a Bitti (come anche a Mamojada, Nuoro, Fonni, Oliena) erano riusciti a impedire le chiusure più offensive nei confronti dello spirito comunitario, quelle che rinserravano pubbliche strade, fonti, prati comunali. Le autorità, che pure consideravano il movimento contro le chiudende come espressione «dell’irragionevole bramosia de’ silvestri pastori di una illimitata libertà di pascolare» e che due di questi «diroccatori» avevano fatto impiccare, dovevano però riconoscere che portato a certi estremi il sistema delle chiusure minacciava l’equilibrio sociale.
 Viene naturale considerare tutto ciò come retroterra della vigorosa presa di posizione del bittese Asproni, nel 1838, sulle chiudende, e in particolare su una contestata recinzione realizzata da un frate: per Asproni, che della questione era stato investito nel 1838 come Avvocato del Capitolo di Nuoro, quella recinzione era illegittima. Da qui la prima di una serie di rotture tra Asproni e la Curia nuorese. Altre difficoltà con la Curia emersero nel 1840, quando venne frustrata l’aspirazione di Asproni a un posto di canonico rimasto vacante e poi, qualche anno dopo, quando anche la promozione ad arciprete, per la quale aveva titoli a iosa, gli fu negata. Insomma il brillante giovane prete si era trovato a più riprese la strada sbarrata. Il notorio cattivo carattere di Asproni aveva certo a che fare con le sue difficoltà di carriera, ma la questione era, come si suol dire, politica. La pubblicazione nel 1843 del «Primato morale e civile degli italiani» di Vincenzo Gioberti, con la sua visione del cattolicesimo come forza ispiratrice e tessuto connettivo di un sentimento nazionale italiano proiettato verso la costruzione di una confederazione di stati posti sotto la guida del papato, fu un punto di riferimento per quei religiosi, e Asproni era certamente tra questi, che aspiravano a una riforma della Chiesa ed a un suo coinvolgimento nel processo di unificazione nazionale. Su un punto Asproni si sentiva in particolare sintonia con le idee di Gioberti: l’antigesuitismo. I gesuiti avevano attaccato il «Primato», intuendone dietro l’ipotesi neoguelfa la sostanza liberale, e Gioberti aveva risposto da par suo con i cinque volumi del «Gesuita moderno», a cui era seguita una «Apologia del gesuita moderno». L’antigesuitismo di Asproni, per quanto meno articolato e letterariamente fluente, era altrettanto virulento. Asproni considerava i gesuiti capaci di ogni viltà e perfidia, capaci tra l’altro di far fuori i loro nemici col veleno (che Vincenzo Gioberti fosse morto avvelenato, e che dietro questo avvelenamento ci fossero i gesuiti, glielo confidò Ortensia Lacroix, patrocinatrice della causa dei democratici italiani a Parigi e a sentire Asproni «intima» di Gioberti.
 Mentre il «Primato» di Gioberti produceva i suoi effetti presso un drappello di sacerdoti patriottici alla Asproni, dall’altra parte della barricata si affilavano le armi. In una concitata pastorale, diffusa il 27 febbraio 1845, l’Arcivescovo di Cagliari Emanuele Marongiu Nurra si scagliava contro tutto ciò che sapeva di progresso, civile o sociale che fosse. La questione era, com’è ovvio, ancora una volta politica, ma toccava allo stesso tempo precisi interessi materiali. L’impegno della chiesa, generale in quegli anni, a difendere tutto ciò che fosse difendibile (e anche, a volte, l’indifendibile) tra «fori ecclesiastici», diritto d’asilo nelle chiese e conventi, festività religiose, privilegi e autonomie di corporazioni e ordini ecclesiastici, unità indissolubile tra sacramento e contratto matrimoniale, assumeva un particolare valore in Sardegna dove la chiesa aveva la gestione pressoché esclusiva di istituzioni civili quali i monti granatici, le scuole normali e secondarie (gli arcivescovi di Cagliari e Sassari erano anche cancellieri delle rispettive università), cimiteri, ospedali e altri istituti di assistenza.
 C’era poi la questione del mantenimento del clero sardo e delle decime ecclesiastiche. Le decime furono abolite da un provvedimento dell’aprile 1851, a cui fece seguito, due anni dopo, una legge che surrogava le decime estinte con assegni suppletivi. Si trattava di un passaggio atteso e in linea di massima bene accetto sia dalla Santa Sede sia da buona parte delle gerarchie ecclesiastiche sarde. Il punto era la valutazione che lo Stato avrebbe fatto delle rendite decimali, valutazione da cui in ultima analisi sarebbe dipesa la «congrua» che esso avrebbe assegnato, secondo determinate proporzioni, a ognuno dei circa 1.300 ecclesiastici residenti in Sardegna addetti alla «cura d’anime» (parroci o viceparroci) o alla gestione di cattedrali e collegiate. Una commissione mista valutò la rendita decimale netta in lire nuove 1.294.000, alle quali dovevano essere sommate 400.000 lire provenienti da altre entrate, per poi alla fine dedurre vari contributi spettanti a erario, università e ai monti granatici. Rimanevano 1.427.651 lire nuove ed era questa la base a cui il clero sardo avrebbe dovuto da allora in poi attingere per la sua «congrua».
 La soluzione sembrava essere soddisfacente per tutti, ma non lo era per monsignor Marongiu Nurra, che dopo aver tuonato nel 1851 contro la legge Siccardi rivolta ad abolire i tribunali ecclesiastici si opponeva ora con ogni mezzo ai lavori della commissione, prima rifiutandosi di fornirle i dati sulle rendite decimali della diocesi di Cagliari poi scomunicando coloro che avevano «ordinata, secondata, consentita ed eseguita» la visita giudiziale tendente all’accertamento. Marongiu Nurra venne invitato a lasciare il Regno di Sardegna se entro un giorno non l’avesse ritirata. Cosa che non fece, per cui non gli rimase che prendere la via dell’esilio. Avrebbe trascorso a Roma il resto della vita, fatta da allora, raccontano le cronache, di studio e di preghiera. Tornò a Cagliari quindici anni dopo, nel 1866, solo per morirvi. La sua battaglia era stata una battaglia di principio, una battaglia contro l’idea stessa che la Chiesa, e con essa i suoi esponenti, dovessero essere sottoposti alla legge dello Stato. Se non avesse guardato solo ai principi, l’arcivescovo Marongiu Nurra si sarebbe potuto dire soddisfatto. La legge che aveva fatto seguito alla abolizione delle decime, approvata nel 1853 dal parlamento subalpino, assegnava ai suoi parigrado 10.000 lire, mentre 9.000 ne attribuiva ai vescovi e circa 1.000 ai canonici. Per i poveri parroci, invece, e per gli ancora più poveri viceparroci, la «congrua» era, rispettivamente, di 700 e 400 lire.
 
 
3 – La Nuova Sardegna
Pagina 6 - Nuoro
 SINISCOLA
 Laurea honoris causa ad Albino Bernardini
 
 SINISCOLA. Domani sarà un giorno speciale per Albino Bernardini, scrittore siniscolese di fama internazionale: su proposta della facoltà di scienze della formazione dell’università di Cagliari, infatti, il rettore Pasquale Mistretta gli conferirà la laurea honoris causa.
 Siniscolese, classe 1917, Bernardini ha vissuto una vita costellata di importanti esperienze, tra cui anche la Grande guerra, che ha ispirato il libro «Disavventure di un povero soldato», opera antibellica dedicata agli adolescenti. La sua fama è però esplosa nel 1968, quando il bestseller «Un anno a Pietralata», intensa storia di un maestro che dalla Sardegna giunge in una borgata della periferia di Roma, diventa il fenomeno letterario del momento. Come il suo caro amico Gianni Rodari, la scintillante carriera di Albino Bernardini è ricca soprattutto di volumi per bambini, tra cui «Bobby va a scuola», «La banda del bolide», «Le avventure di Grodde» e tanti altri come «Le bacchette di Lula», vivo monito a non servirsi della violenza (le bacchette, infatti, servivano a punire gli scolari più indisciplinati) come metodo di educazione. Al di là dei lavori letterari, Bernardini non ha mai rinnegato le sue radici sarde, e di recente ha fondato anche il premio di letteratura per l’infanzia «Sardegna», promosso dall’assessorato alla cultura della Comunità montana del Nuorese. La cerimonia di consegna della laurea, che vuole celebrare il lavoro di scrittore e di educatore, si terrà alle 10.30 nell’aula magna dell’ateneo cagliaritano. (s.m.)
 
 
4 – La Nuova Sardegna
Pagina 1 - Cagliari
 L’INTERVENTO
 Famiglie e Università
 
  L’Università di Cagliari: vizi privati e pubbliche virtù. E’ necessaria una premessa per la nostra modernità mediatica. Esistono dei siti informatici cui fanno riferimento le Università italiane, per il nostro Ateneo cagliaritano tale sito è “unica.it”. La ragionevolezza e la correttezza istituzionale vorrebbero che il sito venisse usato per ragioni proprie, cioè per argomenti di carattere rigorosamente universitario. Ma tanto è che va il mondo, almeno quello cagliaritano: il sito diventa riferimento per un laboratorio privato. Si legge infatti nell’elenco telefonico (pagine bianche): il “Centro per le Malattie Dismetaboliche e l’Arteriosclerosi” (a mia conoscenza un laboratorio privato) porta come riferimento .....@unica.it. Lo stesso sito è quindi utilizzato, molto “familiarmente”, da uno dei responsabili del laboratorio (il responsabile anziano) per le sue pretestuose polemiche personali e ne informa i colleghi della Facoltà di Medicina sempre attraverso .....@unica.it (il sito del responsabile giovane, universitario di fresca nomina). Tutto in famiglia, delle famiglie cagliaritane. Oramai è l’uso dell’eccellenza accademica di casa nostra: si vince “tortuosamente” (questo è almeno quanto si evincerebbe dai verbali della Facoltà di Medicina) un concorso a cattedra, il vincitore si porta dietro anche i familiari.
 Università? Se ci sei batti un colpo.
Paolo Pani docente di Patologia generale
 
 
5 – La Nuova Sardegna
Pagina 13 - Sardegna
 Melis: parlerò nella Giornata della memoria
 Il docente cagliaritano, querelato da un ebreo, è tornato a fare lezione
 
 CAGLIARI. Il professore degli osanna alle camere a gas naziste e razzista nel suo antisemitismo, è tornato a insegnare filosofia. Pietro Melis è stato accolto con molta freddezza dai colleghi di Scienza della formazione, in silenzio dagli studenti in aula, e lui, con arroganza, ha detto ai ragazzi: «Avete visto lo scoop, sono il miglior provocatore e adesso parlerà anche il giorno (venerdì 28) in cui l’Università celebrerà la giornata della memoria».
 La seconda pazza provocazione - nove cartelle scritte a macchina e lette in anteprima agli studenti alla ripresa delle lezioni - gli sarà impedita dal Senato accademico, schierato compatto contro il professore di filosofia. Dopo aver inviato la lettera di scuse al rabbino di Roma e annunciato che la missiva sarà resa pubblica nelle prossime ore, il rettore Pasquale Mistretta ha dato mandato al preside della facoltà di avviare l’indagine interna. La conclusione potrebbe essere una censura, ma questa volta farà prima la magistratura ordinaria. L’altra mattina, con una denuncia, la Procura è stata chiamata in causa dal’ebreo cagliaritano Giacomo Sandri. Assistito dall’avvocato Enrica Anedda, tra l’altro figlia di Gianfranco, il deputato di Alleanza Nazionale che aveva presentato la prima interrogazione sul caso, l’ebreo cagliaritano ha presentato in questura formale querela. Due i reati ipotizzati ai danni di Pietro Melis: diffamazione per quanto ha scritto nel saggio universitario e soprattutto a pagina 12 con la giustificazione dell’olocausto, tesi sostenuta perché “gli ebrei sgozzano animali e li fanno morire dissanguati”. L’altro reato è l’istigazione all’odio razziale. Tra le prove, oltre il libro, anche la lettera al rabbino di Roma, con cui il professor aveva accompagnato la spedizione provocatoria del saggio sulle Culture e la metacultura dell’Occidente. Adesso, dopo la presentazione della querela, la procura della Repubblica aprirà un fascicolo a carico del professore, che sarà poi convocato per discolparsi. Discolpa che lui ha già scritto nelle nove cartelle dattiloscritte, quelle preparate per il Giorno della memoria, ma che il Senato accademico gli vieterà di leggere. Giusta e inevitabile censura.

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