Press review

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
26 February 2005
Università degli Studi di Cagliari
Ufficio stampa
1 – L’Unione Sarda
Pagina 14 – Cultura
E sulla torre di Babele solo la limba de Mesania
Un sistema libero dove ognuno può usare la propria variante locale
Stessa esperienza in Svizzera, nei Grigioni, con il romancio
Sì al rispetto pluralistico delle varianti naturali, no a un'anarchica Babele che ha il solo scopo di fermare l'applicazione delle leggi sul bilinguismo. Per risollevare la lingua sarda dallo stato di prostrazione in cui è caduta sono necessarie diverse operazioni. Una di queste è l'ufficializzazione della lingua, ovvero il suo uso nell'amministrazione pubblica. Per sbarrare il passo alle inevitabili iniziative che il governo regionale dovrà prendere sulla questione della lingua è stata usata in questi mesi l'arma della polemica e della mistificazione. Si sono inquinate le acque. Ufficializzazione non significa unificazione e fa comodo lasciar credere che tutte le proposte in campo (Limba Sarda Unificada o Limba de Mesania) in questo senso siano uguali. In realtà così non è, e bisognerebbe almeno leggere le pubblicazioni di cui si parla. Anche perché molti filo-limba potrebbero cadere nella trappola della loro stessa buona fede. Chi scrive ha combattuto e criticato fin dal suo nascere la famosa proposta conosciuta oggi come LSU. Le accuse che si muovevano erano e sono in primis l'antidemocraticità di una proposta calata dall'alto con un non chiaro e non limpido iter di approvazione e collaudo da parte degli organismi preposti (infatti non si dice mai che la Commissione Regionale e la Giunta bocciarono in sede competente il famoso progetto dei linguisti che quindi non può essere considerato una proposta ufficiale, ma solo un'ipotesi di studio). Nel merito poi si è criticata la LSU perché è artificiale, cioè costruita a tavolino e non naturale né parlata da alcuno. È parziale perché predilige la macro-variante logudorese ed emargina i campidanesi considerati alla stregua di mezzosangue. È totalizzante perché si ispira al modello basco e catalano con l'uso in tutti gli ambiti possibili e immaginabili a discapito delle varianti effettivamente parlate. Oggi rappresenta, nella situazione di immobilismo delle autorità che dovrebbero far chiarezza, un bluff cultural-linguistico micidiale nelle mani di giocatori d'azzardo affetti da un protagonismo indicibile e impudico senza nessun consenso reale. Una bella falsa partenza, non c'è che dire. È bene chiarire che chi scrive aspira all'unità, ma il sogno e la realtà differiscono. Dunque bisogna optare per un modello realistico tutto sardo perché noi non siamo né italiani nè catalani né baschi, ma solo noi stessi. L'unificazione della lingua è un valore, ma è attualmente irrealizzabile. Anzi, è sentita dalle popolazioni come una forzatura. Pertanto, la proposta di Limba de Mesania (proposta dal Comitau abbia a su sardu comunu composto da associazioni, intellettuali, scrittori e linguisti) non è una seconda Lingua Sarda Unificata, ma propone un sistema assolutamente libero e polinomico dove ognuno possa usare la propria variante locale nell'arte, nella poesia, nelle canzoni, nella scuola, nei media e anche nelle amministrazioni locali e provinciali. Si pone il problema della Regione: quale variante deve usare l'istituzione che ci rappresenta tutti? Quale lingua ufficiale visto che è fondamentale per la ripresa della lingua che la nostra massima istituzione la renda visibile ai massimi livelli? Secondo chi propose un anno fa il sistema Limba de Mesania la Regione dovrebbe usare solo per i suoi atti amministrativi e solo in uscita quella variante di sardo di una fascia mediana della Sardegna che va dal Guilcieri fino all'Ogliastra dove le due macro-varianti si sono mescolate naturalmente (non a tavolino) e hanno dato luogo a parlate miste. Si tratta in realtà del modello della Carta de Logu del Giudicato di Arborea che è un precedente non di poco conto sopravvissuto fino al 1824. Se, pur non facendo i soliti provincialotti, vogliamo dare un respiro europeo, facciamo notare che una simile esperienza si è fatta in Svizzera nel cantone dei Grigioni con il romancio. Va chiarito fino alla nausea dunque che tale variante è naturale perché effettivamente parlata. È rappresentativa di tutte le maggiori varianti del sardo. È democratica perché parte dal basso, non totalizzante perché non toglie nulla alle varianti o macro-varianti che continuano ad esistere. Repetita iuvant: è una lingua che non si candida ad essere parlata perché resta una semplice lingua scritta amministrativa in uscita dalla Regione. Sostanzialmente è un simbolo ufficiale di unità linguistica e politica. La Regione accetta in entrata tutte le varianti. "Sas limbas de s'oru" (che non sono sarde) catalano, gallurese, sassarese e tabarchino saranno libere e dovranno dire loro cosa vogliono fare se aderire oppure no. Tale sistema è l'unico modello unitario realmente praticabile di governo della politica linguistica. Vi immaginate se la Sardegna fosse rappresentata in Europa con tutte le sue varianti? Sarebbe da ridere. Faremo una figura terribile. E vi immaginate quanto costerebbe alla Regione tradurre tutto in tutte le varianti possibili e immaginabili? È un problema di politica culturale. Chi propone la Babele del plurilinguismo sa benissimo che in questo modo bloccherà tutto e non si farà niente. È lo scopo ultimo è proprio questo. Niente di scandaloso, siamo in democrazia. Bisognerebbe solo essere più onesti e dire effettivamente ciò che si pensa invece di seguire vie tortuose di pensiero lambiccato utili a sviare gli scrittori in limba con il complesso di inferiorità. Si sostiene da più parti che le lingue in uscita potrebbero essere due: le macro-varianti campidanese e logudorese. Niente di nuovo, anche se manca la proposta tecnica degli standard. Allo stato si tratta di un'idea: è un modello che si è data la produzione letteraria degli ultimi secoli dunque rispettabile e perfino sperimentabile. La disponibilità è massima perché in molti vedono lì la soluzione. Ma visto che nel sistema di Limba de Mesania in uscita per la Regione sono fatte salve le macrovarianti letterarie perché rischiare questa piccola Babele biforcuta? Va benissimo per la poesia e i romanzi, ma per gli atti ufficiali? Per il linguaggio giuridico-amministrativo che ha caratteristiche sue proprie? È un problema di maturità. Uscire dalla vecchia concezione della lingua polverosa e "degli affetti" e dal ghetto delle arti e del folclore in cui siamo stati cacciati. È un problema politico che concerne l'unità simbolica del popolo sardo. Si romperebbe l'unione: si rafforzerebbe immediatamente un "noi" campidanesi e un "noi" logudoresi. E nell'area della Mesania cosa si dovrebbe usare? Per non parlare dell'emigrazione interna. Inoltre, sarebbero sempre varianti da standardizzare con regole fisse adatte alla scrittura degli atti. Non si salverebbe nulla di creativo. Su quale base? Si ricomincerebbe da capo con le liti dei cagliaritani e dei marmillesi sul vero campidanese. E i baroniesi accetterebbero il logudorese "illustre" di Ozieri o Bonorva? E chi ha detto poi che le macrovarianti sono due? La situazione è più complessa anche se i linguisti giustamente cercano di semplificarla. E visto che sono gia 2 perché non aggiungere anche il gallurese? E faremo torto al turritano? E i funzionari regionali quanti standard dovrebbero apprendere? Così via all'infinito verso la Babele che gli anti-limba ora promuovono. L'unico risultato sarà riportare in auge la LSU. Però essi non dicono che quando nella torre biblica Dio fece nascere mille linguaggi, il lavoro si fermò. Noi invece vogliamo, senza offendere Dio, che la nostra torre dell'identità linguistica sarda, o il nuraghe che è la stessa cosa, continui a esistere e a crescere. Mettendo insieme gli elementi veri della nostra identità: quel nostro immarcescibile tetragono municipalismo (la nostra vera forza esistenziale che ci fa essere sardi), il plurilinguismo con la nostra aspirazione a essere un popolo. Uno, non due, o sette, o trecentosettanta, quanti sono i comuni. Non saremo dogmatici, se ci sono proposte unitarie più convincenti non faremo le barricate. È un problema politico, la scelta della soluzione non verrà dagli scienziati. La lingua serve a unire e a farci sentire un popolo. O a cos'altro?
Giuseppe Corongiu
 
2 – La Nuova Sardegna
Pagina 5 - Nuoro
IN BREVE
Modifica Statuto Università Nuorese
Consiglio provinciale Il consiglio provinciale è stato convocato per lunedì alle 9,30. All’ordine del giorno dei lavori cinque importanti argomenti: l’approvazione delle modifiche e l’adeguamento delle norme dello statuto provinciale; l’approvazione del piano faunistico e la modifica allo statuto dell’Università Nuorese. Nello specifico la commissione consiliare affari istituzionali ha già approvato la proposta relativa all’inserimento nel consiglio di amministrazione del Consorzio di un rappresentante degli studenti. Cosa che farà anche l’amministrazione comunale, quale socio fondatore, insieme alla Provincia, dell’ente consortile. L’assemblea, infine, sarà chiamata a votare un ordine del giorno sulle adozioni a distanza.
 
 
3 – La Nuova Sardegna
Pagina 3 – Cagliari
SAN SPERATE
Comunità-alloggio a Pixinortu

SAN SPERATE. Due milioni di euro. E’ l’importo per realizzare, entro il 2006, la comunità-alloggio gestita dalla Asl e dall’Università di Cagliari nell’aria di Pixinortu per la cura dei disturbi psichici. Una ventina i posti letto e tra i servizi anche l’assistenza garantita ventiquattr’ore su ventiquattro. (a.c.)
 
 
4 – Corriere della Sera
Colpe e meriti dell’industria
FARMACI E RICERCA

Non sono mai stato tenero con le industrie farmaceutiche. Ho sempre criticato che più del 60% del loro fatturato fosse speso in promozione anziché in ricerca, che perseguissero con particolare e discutibile aggressività la conquista del mercato, che i loro collaboratori scientifici fossero cooptati, in maniera riduttiva, alla realizzazione dell’utile piuttosto che a una sana divulgazione scientifica, ma le continue notizie sulle loro colpe inducono alcune riflessioni. Il generalizzare non è mai una buona cosa: pensare che indiscriminatamente medici e produttori di farmaci agiscano scorrettamente alle spalle della povera gente per arricchirsi in modo cinico e spregiudicato, prescrivendo cose che non servono, investendo in ricerche inutili, finanziando sottobanco questa o quella istituzione, questo o quel primario, non è giusto. Non vi è dubbio che in questo settore, come in altri, vi possano essere distorsioni, abusi, illeciti ma il fare di ogni erba un fascio non rende giustizia a programmi di collaborazione con l’industria moralmente validi e soprattutto di grande utilità per le speranze della gente.
Anzitutto si deve sapere che nel nostro Paese la ricerca clinica fatta negli ospedali e in prestigiosi istituti è aiutata in modo determinante dall’industria farmaceutica. È l’industria farmaceutica che copre in gran parte i protocolli di studio per la realizzazione di nuove terapie nelle malattie più disparate. È attraverso l’industria farmaceutica che possono essere fatte borse di studio per aumentare i posti nelle scuole di specializzazione in Università, lo Stato è in grado di sostenerne un numero assai limitato.
Sono le industrie farmaceutiche che permettono ad alcune istituzioni di sopravvivere e di essere organizzate ed efficienti in un Paese in cui i finanziamenti in sanità sono i più bassi della Comunità europea, in cui per la ricerca si spendono cifre irrisorie del Pil. Spesso sono le industrie farmaceutiche che attraverso donazioni liberali sostengono le associazioni di volontariato che aiutano gli ammalati.
Il dire che qui tutto è disonesto disorienta e fa credere che tutto sia colpa della speculazione e dell’abuso di alcuni farmaci. La spesa farmaceutica rappresenta solo il 20% della spesa sanitaria globale. Per ridurre quest’ultima bisogna operare su altri fronti: i problemi sono strutturali, sono legati alla riorganizzazione degli ospedali, alla chiusura di situazioni obsolete e clientelari, al favorire la prevenzione e l’educazione sanitaria, al far capire che importante è lo stile di vita e la sua qualità. Certo sul farmaco ci vuole moralità, le situazioni illegali vanno colpite, sono necessarie nuove normative per evitare gli abusi, si impongono nuove modalità di comportamento da parte delle aziende, ma limitarsi al farmaco è riduttivo.
Alberto SCANNI
 
5 – Corriere della Sera
IULM
Puglisi: Milano accogliente ma servono risorse e qualità

«Tra la città e le sue università esiste una splendida sinergia L’offerta è ricca e gli imprenditori sono sensibili Manca un’autorità morale che riesca a risolvere i problemi»
«È venuto il momento di distinguere tra atenei statali e non statali. Esempio: il tema fondamentale dell’accoglienza. Ebbene, le università private non attingono ai fondi pubblici per le residenze. Ma quando bisogna mettere vincoli e lacci, noi li abbiamo tutti». È polemico Giovanni Puglisi, rettore dell’università di lingue e comunicazione Iulm. «Allora, che il ministro metta dei paletti va bene, che aggiunga finanziamenti alle università statali va bene, ma che non aumenti di un centesimo il fondo per il sistema privato allora no, perché nel frattempo, mentre la torta rimane la stessa, aumentano i commensali». Bisogna fare una classifica degli atenei privati?
«Non è giusto considerare tutto il privato alla stessa stregua. Il sistema universitario è appiattito sui difetti di quello statale».
Risultato?
«Il sistema non statale è costretto a fare i conti con la sarda».
Prego?
«Un modo di dire siciliano: la sarda è quello che rimane alla raschiata della pentola».
Ma i problemi degli atenei milanesi sono molti simili, siano essi statali o no.
«Certo. Il nodo cruciale è il rapporto tra offerta formativa, strutture e città. L’università, Milano e la Lombardia devono misurarsi con questi problemi».
Sono in tanti a pensare che il rapporto tra Milano e i suoi atenei sia inesistente.
«Non è vero. C’è una splendida sinergia. Le offerte sono ricche, il sistema è interessato, gli imprenditori sono sensibili a certi temi».
Ma?
«Manca un’autorità morale che riesca a risolvere i problemi. Non è pensabile che lo facciano le università. Ci vuole un intervento strategico di persone moralmente capaci».
Cosa serve?
«Un’operazione di qualità che coinvolga didattica, ricerca e servizi. Dando pari dignità al sistema pubblico e privato».
In che modo?
«Con una distribuzione delle risorse fatta in base ai risultati dei singoli atenei».
Prima la didattica o la ricerca?
«Se ricerca e formazione non vanno di pari passo non c’è università, ma doposcuola».
E i servizi?
«Sono un’altra cosa, ovvero quello che noi possiamo fare per gli studenti e il territorio».
È vero che i ragazzi sono meno preparati di una volta?
«Sì, ma sono più motivati: vogliono meno chiacchiere e più contenuto. E comunque non è colpa loro».
E di chi?
«Di questa scuola che è figlia dell’università di ieri. È ancora vista come il luogo dei saperi, il posto dove devono stare i ragazzi, indipendentemente dai loro desideri. Ma non è così».
Qual è allora il compito della scuola?
«Dare competenza e cultura. Serve uno sforzo di sistema. Ci ha provato Berlinguer, ci sta provando la Moratti».
Teme anche lei che le università milanesi possano perdere matricole?
«Non sono preoccupato. Non esiste un sistema universitario migliore di quello milanese».
E l’accoglienza?
«Se non si interviene è possibile una perdita di iscritti, ma non settemila matricole ogni anno».
Gli studenti stranieri continuano a non frequentare gli atenei milanesi.
«È un problema, questo, non di Milano, ma dell’Italia che deve riaffermare il suo ruolo di potenza della cultura».
Un ruolo perso da anni.
«Lo credo. È mai possibile che quando c’è da tagliare si taglia sempre in cultura, università e ricerca? La cultura è la più grande impresa del Paese».
Cultura e impresa. Un rapporto difficile.
«Difficile per le leggi che ci sono adesso. Se io fossi un imprenditore non darei un centesimo all’università. Bisogna, invece, consentire una defiscalizzazione seria».
È ottimista sul futuro del sistema universitario?
«Sì, perché io guardo i ragazzi. Credono in loro stessi, si misurano senza pregiudizi con altri coetanei».
Quale futuro vede per loro?
«Un futuro di cambiamento. A patto che riescano a riappropriarsi del gusto della diversità e della libertà delle idee che ha caratterizzato la parte meno violenta e più sognante del ’68. L’università dovrebbe essere l’amplificatore di questo messaggio e l’occhio magnetico di questi sogni».
Ci riesce?
«Per ora no. Speriamo nei prossimi anni».
Annachiara Sacchi
6 – Corriere della Sera
BICOCCA
Fontanesi: più case e servizi
La città non perda i talenti

«Il tessuto industriale si è talmente sfilacciato che i bravi vedono all’estero opportunità che qui non ci sono più. Si è chiuso quello che funzionava»
Non vuole più sentire parlare di eccellenze, Marcello Fontanesi, rettore dell’Università di Milano Bicocca. «È una parola che mi fa venire il mal di pancia. Sono altri gli obiettivi cui puntare». Quali?
«Migliorare la qualità media della formazione universitaria per sviluppare potenzialità superiori a questa media. Eccellenza non è altro che il risultato di una buona preparazione da cui nascono persone al di sopra degli standard. L’orchidea nasce nel giardino ben coltivato».
Sono poche, ora, le orchidee.
«Colpa del sistema Paese che non ha più chiesto ai giovani di impegnarsi. Arrivano all’università non preparati. Non sanno scrivere, ragionare, interpretare un testo. Però un 15 per cento di bravi c’è».
E se ne vanno all’estero.
«Il punto è che qui il tessuto industriale si è talmente sfilacciato che i bravi vedono all’estero opportunità che qui non ci sono».
Come invertire questa tendenza?
«È il sistema nel suo complesso che ha perso colpi. Si è chiuso quello che funzionava».
Che fare, allora?
«Non seminare frustrazione, impegnarsi e fare sistema tra università, aziende ed enti pubblici».
Fare ricerca...
«E come? Dove sono finite le aziende? È la grande impresa a produrre la vera innovazione. Ma basta vedere questo quartiere per capire. Mancano massa critica, centri di ricerca e grandi aziende».
E la Bicocca cosa fa?
«Qualcosa sta facendo, alcuni settori sono buoni. Certo, le risorse sono poche, e allora bisogna avere il coraggio di scegliere. Non si può fare tutto».
Cosa intende?
«Si devono sviluppare settori di competenza in cui ci sia la possibilità di dire la nostra. Perché i treni passati sono perduti. Ma di treni ne partono tutti i giorni. E noi dobbiamo preparare i giovani a saltare su questi treni, altrimenti non facciamo l’interesse del Paese e dei ragazzi. Ma serve impegno da parte di tutti».
Di chi?
«Dell’università che deve avere più sbocchi internazionali, delle imprese, degli enti pubblici, dei ragazzi. Serve una riflessione su tre tremi: professionalità, impegno ed etica».
E sulla riforma del sistema universitario?
«Bisogna capirsi: la riforma è stata fatta per avere più laureati in tempi minori. La laurea triennale è nata per portare un certo numero di giovani a un determinato livello formativo».
Ma la futura classe dirigente?
«Deve approfondire le competenze continuando gli studi».
Ma come convive in un’università una formazione di primo livello per tanti con una superiore per pochi?
«Non è così semplice. Perché ci sono ragazzi che già nel primo livello potrebbero fare di più».
La soluzione?
«Servirebbero percorsi diversi. O addirittura bisognerebbe differenziare le università. Non è detto che tutti gli atenei debbano essere uguali. Il problema è tirar fuori i ragazzi migliori».
E tenerseli stretti.
«Certo. I ragazzi in gamba sono una ricchezza. Per attirarli ci vuole una città accogliente».
Si torna al tema delle residenze.
«Sì, ma non solo per i più bravi. Per tutti. Un posto letto a 350 euro è uno scandalo perché poi non ci si impegna vivendo in quel modo. Anche gli stranieri, dove li mettiamo?».
Come risolvere il problema?
«Facilitando i privati a investire nel sistema residenziale universitario. Ma anche migliorando la rete di trasporti: treni e aerei. Quale rendimento può avere un ragazzo che ogni giorno fa un’ora e mezza di treno?».
Milano deve fare ancora molta strada.
«Certo. E dare una maggiore offerta culturale, creare opportunità di lavoro. Penso anche all’inquinamento. La gente scappa dalla città. Tutta la qualità della vita deve migliorare».
Il ruolo dell’università in questo cambiamento?
«Confrontarsi continuamente con la realtà esterna per capire se quello che stiamo facendo è in linea con le aspettative dei giovani. Prendendo le decisioni in piena autonomia ma con responsabilità nei confronti delle nuove generazioni».
Un bilancio?
«Per ora è positivo. Milano ha università di buon livello sulla media nazionale ed europea. I problemi ci sono, è vero, ma la critica deve essere costruttiva e non bisogna seminare sfiducia».
A. Sac.
7 – Corriere della Sera
LE QUESTIONI APERTE
Ricerca, mercato e divario Nord-Sud: i tre nodi delle università

Solo metà dei laureati italiani ha trovato una occupazione un anno dopo la laurea (ma una buona parte prosegue un lavoro che già aveva durante gli studi). A tre anni dalla fine degli studi, due terzi dei laureati ha una occupazione. Dopo cinque anni, 86 laureati su cento sono occupati (ma di questi solo 74 con un posto di lavoro stabile). Negli ultimi anni, però, l’attesa di un lavoro da parte dei laureati si è allungata, a danno specialmente delle donne, perché le difficoltà occupazionali si riflettono principalmente su di loro. Tra Nord e Sud rimane un divario molto forte, segnalato da una differenza di venti punti percentuali nel tasso di occupazione dei laureati dopo un anno e dopo tre anni dalla laurea. Queste le principali conclusioni che si traggono dalla settima indagine di «AlmaLaurea» sulla condizione occupazionale di 56 mila laureati delle Università italiane che aderiscono a questo importante ed attivissimo Consorzio interuniversitario, frutto della iniziativa di Fabio Roversi Monaco e di Andrea Cammelli (autore quest’ultimo anche della rilevazione).
Sono tre gli insegnamenti che si traggono da questa eccellente indagine e dalle analisi svolte su di essa.
Primo: mentre la disoccupazione è andata riducendosi, negli ultimi anni, l’occupazione dei laureati è diventata più difficile. L’università ha svolto bene il suo ruolo, considerato che 84 laureati su cento sono soddisfatti, dopo la laurea, del livello di utilizzazione delle competenze acquisite. Non sembra che abbiano fatto altrettanto bene i poteri pubblici. Come osserva Andrea Cammelli, il divario evidenziato vuol dire che gli inviti reiterati ad investire maggiormente in ricerca, sviluppo capitale umano, sono caduti nel vuoto.
Secondo: la questione meridionale è ancora aperta e ben lontana dall’essere risolta. Un divario di venti punti percentuali nella occupazione dei laureati indica un dislivello di sviluppo molto forte, al quale si dovrebbe porre rimedio. Già Salvemini segnalava il forte fattore di destabilizzazione costituito dalla disoccupazione intellettuale meridionale. E questa fu temuta persino da Mussolini. La situazione odierna è ancora peggiore di quella della prima parte del secolo passato. Allora c’era la pubblica amministrazione, che serviva da valvola di sfogo. Ora le assunzioni nel settore pubblico si fanno con il contagocce, come è dimostrato anche dai dati raccolti in questa bella indagine.
Terzo: c’è una difficoltà strutturale di incontro della domanda e della offerta di lavoro. Più della metà dei laureati accede ad un posto per iniziativa personale o interessamento di familiari e conoscenti. Solo 10 attraverso «stages» e tirocinio. Solo 3 mediante concorso (questi ultimi divengono 10 tra i laureati a 5 anni dal termine degli studi). C’è bisogno, quindi, di intensificare gli sforzi per far incontrare domanda ed offerta di lavoro dei laureati, una attività che «AlmaLaurea» svolge già oggi egregiamente, con l’appoggio del ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, ma tra le difficoltà frapposte dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali
.
Sabino CASSESE
 
8 – Corriere della Sera
Il dossier «AlmaLaurea»: cresce il tasso dei disoccupati dopo l’università
Lauree, la sorpresa degli psicologi
Le difficoltà dei giovani a trovare lavoro dopo l’università si riflettono nel generale declino del made in Italy
FERRARA - A guardare così in maniera nuda e cruda percentuali, somme e numeri usciti ieri dall’indagine di AlmaLaurea, consorzio che riunisce 40 atenei, viene da domandarsi: ma laurearsi conviene ancora? Perché in un periodo in cui l’occupazione italiana ha mostrato segni di miglioramento (con un tasso che non si vedeva dal ’94) è la disoccupazione dei neolaureati, soprattutto se si considera il primo anno fuori dalla calda protezione delle aule degli atenei, ad aumentare. Di poco certo, lo 0,7%. Ma il trend in discesa dura dal 2000. E si scarica come sempre prima sulle donne e sul Sud. Segno che qualcosa che non va nel meccanismo c’è. Le eccezioni sono salve anche questa volta. Quella scontata ormai degli ingegneri sempre in vetta alla classifica (76 su 100 vengono chiamati entro 12 mesi dalla tesi). Quella un po’ meno degli psicologi che pur rimanendo in assoluto una categoria poco richiesta vanno in controtendenza con una domanda da parte delle aziende in crescita del 3,8%. E forse anche questo è un segnale delle cose che vanno male.
Per Patrizio Bianchi, rettore dell’Università di Ferrara dove studiò Nicolo Copernico, Giovanni Pico della Mirandola e il celebre Paracelso, le difficoltà dei giovani laureati nel trovare il proprio posto nel mondo del lavoro si riflettono nel declino del made in Italy .
Per questo, ha detto il presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, nel suo intervento registrato, dobbiamo impegnarci sempre di più per alimentare i rapporti tra università e impresa. Ricordandoci della «meritocrazia» che viene dimenticata troppo spesso. La ricetta di Confindustria passa dai centri di eccellenza e dalla defiscalizzazione delle imprese che assumono neolaureati.
Meno preoccupato il ministro dell’Educazione Letizia Moratti che nel suo messaggio registrato ha messo l’accento sul mezzo bicchiere pieno: «Il 54,2% degli ex studenti entra nel mondo del lavoro nel primo anno. E’ un dato sicuramente positivo e confortante».
A risolvere il quesito iniziale è il direttore di AlmaLaurea Andrea Cammelli: «Laurearsi ancora conviene». Lo studio che coinvolge quasi 56 mila ragazzi che hanno raggiunto l’agognato titolo di dottore (non si prende per ora in considerazione la laurea breve, fenomeno ancora non rilevante) cerca infatti di seguire le orme dei laureati dopo uno, tre e cinque anni (sessioni dal ’99 al 2003). E «nell’intero periodo ’95-2003 - sintetizza - l’occupazione tra i laureati è salita del 10,3% mentre quella tra i diplomati solo del 4,6%».
A Ferrara è intervenuto anche il sottosegretario del Lavoro Maurizio Sacconi che ha difeso la riforma Biagi: «La sua riforma, l’occupabilità, va al cuore dell’Università autorizzandola per legge ad essere il luogo per eccellenza di placement nel mondo del lavoro». Ma ha anche dato uno spintone alla riforma universitaria che lasciando troppa autonomia ai singoli centri ha causato il proliferare dei corsi di laurea: 3.817, considerando tutto, sia vecchi che nuovi. Comunque anni luce dagli 800 della Germania. Tra gli accusati resta anche l’età troppo avanzata dei neolaureati. «Il mondo delle imprese cerca - ha aggiunto Sacconi - giovani».
Ma cosa ne pensano alla fine gli studenti? Per Claudio Pinnone è arrivato qui da Trieste «ciò che manca è la preparazione per affrontare il mondo del lavoro. L’università protegge troppo. Ma la situazione non è disperata».
Massimo Sideri
 
9 – Corriere della Sera
Atenei a numero chiuso per diventare insegnanti
La Moratti: assumeremo 200 mila precari in 5 anni, via alle nuove regole per i docenti. La Cgil: è un rinvio
ROMA - Duecentomila precari storici da assumere in cinque anni. Laurea specialistica biennale più tirocinio per salire in cattedra, alle elementari come al liceo. La prima è un’ipotesi, con imprimatur del governo, da studiare. L’ha annunciata il ministro Moratti. La seconda è la condizione per salire in cattedra nelle scuole a partire dall’anno scolastico 2008-2009. Varrà, inizialmente, solo per la metà dei posti disponibili. L’altro 50 per cento continuerà ad essere riservato ai precari storici. Ed è molto di più di un’ipotesi. Si tratta infatti del contenuto del decreto legislativo che attua l’articolo 5 della Riforma Moratti, quello riguardante l’accesso alla professione docente, appena approvato dal Consiglio dei ministri.
DUECENTOMILA ASSUNZIONI - I precari formano un esercito di centinaia di migliaia di persone che continua a crescere. Nei prossimi cinque anni però il loro numero potrebbe ridursi notevolmente. Il ministro dell’Istruzione infatti ha annunciato che i suoi esperti e quelli dell’Economia, su mandato del governo, studieranno una soluzione tecnica per assumere 200 mila docenti non di ruolo. Il maggior sindacato autonomo, lo Snals, ha dato il suo assenso. Agli atti del ministero c’è già una proposta: quella presentata dal senatore di An Giuseppe Valditara, che prevede l’assunzione, per il primo settembre 2005, di 50-60 mila precari e per il primo settembre 2006 di altri 30 mila circa, fino a esaurimento delle graduatorie. In cambio, la ricostruzione delle carriere verrebbe dilazionata in cinque anni e liquidata con rate annuali. Enrico Panini, Cgil, parla di «ennesimo rinvio» perché «anziché applicare una legge che gia c’è, il Governo affida un mandato esplorativo per fare nomine in ruolo nei prossimi cinque anni».
CATTEDRA SICURA - Gli universitari che nel 2006 vinceranno le selezioni a numero programmato per essere ammessi ai corsi di specializzazione post laurea per l’insegnamento, avranno la certezza di salire in cattedra alla fine del percorso universitario di due anni, ossia nell’anno scolastico 2008-2009. In arrivo cattedre programmate e quindi certe dopo decenni di cattedre «miraggio», attese per decenni da generazioni di precari. «Avremo insegnanti più giovani e qualificati - ha detto il ministro - . Progressivamente potremo risolvere il problema del precariato delle scuole, perché a regime sarà possibile insegnare solo col più alto livello della formazione universitaria».
RECLUTAMENTO - Ai corsi si accede attraverso una selezione nazionale che si svolge presso le università, dopo aver conseguito la laurea di primo livello o il diploma accademico di primo livello. Il ministro ripartisce anno per anno tra le università un numero di posti pari a quelli che si prevede di coprire nelle scuole della regione maggiorato del 10 per cento. I vincitori del concorso sono assegnati alle scuole della regione, dove svolgono un praticantato della durata di un anno. L’attività è regolata da un contratto di inserimento formativo al lavoro. L’aspirante prof insegna sotto la supervisione del tutor. Al termine dell’anno, se la valutazione è positiva, i docenti stipulano con i dirigenti scolastici un contratto a tempo indeterminato.
COMMENTI - La battaglia per accordare alle scuole un po’ di potere nella scelta dei nuovi prof continuerà in Parlamento. Per Paolo Santulli (Fi) «le scuole andranno responsabilizzate, riconoscendo loro un ruolo attivo anche nell'ambito della selezione del personale». Per l’opposizione si tratta di «semplici annunci - dice Maria Chiara Acciarini, Ds -. Aspettiamo il piano e i relativi stanziamenti».
Giulio Benedetti
10 – Il Mattino
Scuola, maestri in cattedra ma con la laurea

GIULIA SALVATORI Roma. Innalzare la qualità della formazione dei docenti di ogni ordine e grado di scuola, ringiovanire il corpo insegnante e dare più certezza del posto di lavoro attraverso un progressivo superamento del precariato. Questi gli obiettivi principali che si pone il decreto legislativo, approvato ieri dal Consiglio dei ministri, che introduce nuovi criteri per la formazione dei docenti. «Un tassello importante per il completamento della Riforma della scuola - dice il ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca Letizia Moratti nel corso della conferenza stampa a Palazzo Chigi - che si aggiunge ai primi tre decreti». Preselezione, frequenza del corso di laurea magistrale, esame di Stato, tirocinio pratico: sono gli strumenti che saranno utilizzati per conseguire quegli obiettivi. Cambia, dunque il percorso formativo degli insegnanti italiani che prevede un «doppio binario», teorico e pratico che - assicura la Moratti - ci mette «in una posizione avanzata rispetto a gran parte dei Paesi europei». Sarà necessaria la laurea anche per insegnare alle elementari, ma altrettanto importante sarà verificare sul campo l'effettiva vocazione dei futuri docenti. I nuovi corsi formativi a numero programmato e ripartito su base regionale inizieranno nel 2006-2007. Ad essi si accederà attraverso una selezione nazionale dopo aver conseguito la laurea o il diploma accademico di primo livello: le lezioni comprenderanno anche periodi di tirocinio nelle scuole ed eventuali stage all'estero. A fine corso, dopo la laurea magistrale o il diploma accademico di secondo livello, è previsto un esame di Stato con valore abilitante che garantirà a coloro che lo supereranno la certezza dell'assunzione. I vincitori del concorso saranno assegnati alle scuole della regione, nelle quali svolgeranno un periodo di applicazione con assunzione di responsabilità di insegnamento sotto la supervisione di un tutor. Al termine dell'anno i docenti stipuleranno con i dirigenti scolastici un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Il nuovo sistema, che potrà andare in vigore soltanto nell'anno scolastico 2008-2009, consentirà di risolvere in maniera progressiva anche il problema del precariato. «Nei prossimi 5 anni riassorbiremo tutto il precariato storico che secondo i nostri dati ammonta a circa 200 mila persone». La ricetta da seguire per ottenere un «riassorbimento» così imponente e ambizioso non è ancora chiara, la Moratti promette che la questione sarà definita in sede tecnica con incontri con gli altri titolari dei dicasteri interessati. Ma le critiche non si sono fatte attendere. «Proprio in materia di reclutamento - ha detto Francesco Scrima, segretario generale Cisl scuola - non vi è traccia di un qualsiasi riferimento a una fase transitoria che colleghi il nuovo sistema con l'attuale emergenza precariato, vero dramma sociale». Mentre la senatrice Maria Chiara Acciarini, capogruppo Ds nella commissione Istruzione, ricorda alla Moratti «quanto sia ridicolo che un ministro in carica da 4 anni, dopo non aver fatto alcunché per risolvere il problema, parli di una soluzione nei prossimi 5 anni». Intanto anche i Cobas aderiscono allo sciopero della scuola indetto, nell'ambito del pubblico impiego, per venerdì 18 marzo. L'organizzazione protesta in particolare modo contro lo stato giuridico degli insegnanti deciso dal governo. Sollecitata da una domanda la Moratti in conferenza stampa non vuole sentire parlare di «stato giuridico dei docenti» e precisa: «Ho espresso chiaramente la mia contrarietà a provvedimenti che interferiscono con la normativa che è lasciata alla contrattazione delle parti».
 
 
11 – Il Mattino
Lavoro, un’impresa anche per neo-dottori
L’ingresso dei neolaureati nel mercato del lavoro si contrae anche se di poco; sono invece ancora le donne a pagare per prime le difficoltà dell’economia; resta poi drammaticamente elevata la differenza Nord-Sud che alimenta un flusso consistente di emigrazione intellettuale. Sono queste le tendenze principali che emergono dalla VII indagine sulla condizione occupazionale dei laureati svolta da AlmaLaurea, il consorzio che raggruppa quaranta atenei italiani, presentata in un convegno a Ferrara. Lo studio, coordinato dal professore Andrea Cammelli, direttore del consorzio, ha coinvolto 27 atenei e quasi 56mila laureati con un tasso di risposta dell’82%. I neodottori sono stati suddivisi in tre gruppi: a un anno dal conseguimento della laurea (23mila e 459); a tre anni (18mila e 74); 14mila e 391 giovani a cinque anni. Si tratta dei laureati degli anni 2003, 2001 e 1999. I risultati della ricerca non sono confortanti: a un anno dalla laurea il tasso di occupazione è del 54,2% con un -0,7% rispetto alla precedente indagine (2,7% in rapporto a due anni fa). A tre anni dal termine degli studi lavora invece il 73%, ma con un calo del 2,1% sull’indagine del 2003. A cinque anni infine il tasso di occupazione sale all’86%. Le accresciute difficoltà colpiscono prima le donne: a un anno dalla laurea lavorano 51 donne contro 59 uomini su cento e le differenze tendono ad accentuarsi. Per i laureati del 1999 il differenziale era infatti di 2,7%. I vantaggi per la componente maschile sono confermati nella quasi totalità dei percorsi di studio. Quanto al rapporto Nord-Sud, resta altissimo il divario con una differenza percentuale superiore ai 20 punti. Fra i laureati del 2003 lavora il 65% al Nord e il 41% al Sud con un differenziale in aumento del 24%. Anche sul guadagno si fanno sentire le differenze territoriali. A cinque anni dal titolo di studio il guadagno mensile netto di chi lavora al Settentrione è di mille e 330 euro, mille e 271 per chi lavora al Centro e mille 132 per chi lavora nel Mezzogiorno. «I risultati di questa indagine - ha detto il ministro dell’Istruzione, Letizia Moratti in un intervento videoregistrato per il convegno - sono sicuramente positivi perchè risulta che il 54% dei laureati ha un impiego dopo un anno, oltre il 70% dopo tre anni per arrivare all’86% dopo cinque anni con un 6% che prosegue gli studi. Significativo anche il dato relativo al tasso di occupazione dei laureati che è più elevato rispetto ai diplomati (cinque punti percentuali) e questo dimostra la positività e l’importanza del percorso di laurea. Un’altra riflessione significativa deve essere fatta sulle modalità con cui i giovani entrano nel mondo del lavoro - ha osservato ancora il ministro - aumenta infatti il lavoro stabile, dal 38% al 41% nel primo anno dalla laurea, per arrivare oltre il 70% dopo cinque anni e questo è sicuramente un segno positivo. Anche la qualità dei percorsi universitari incide sulla condizione occupazionale dei giovani. Hanno più opportunità, nel trovare lavoro, i giovani che hanno alte conoscenze informatiche, che hanno partecipato a stage o a tirocini sia durante gli studi che dopo la laurea e che hanno fatto esperienze di studi all’estero». Concludendo il convegno il sottosegretario al Lavoro, Maurizio Sacconi, ha messo l’accento sull’uscita tardiva dei laureati dagli studi universitari: «Se è vero che le ultime statistiche ci dicono che l’età media di uscita è di quasi 28 anni, solo il 17,5% si laurea prima dei 24 anni e ben il 57% si laurea oltre tre anni dopo la durata legale del corso».
 
12 – Il Tempo
«Maestri elementari laureati»
di NATALIA POGGi
UN altro tassello della riforma della scuola targata Moratti è stato approvato ieri dal Consiglio dei ministri. Si tratta dell’articolo 5 della legge 53 che disciplina l’accesso alla professione di docente. Addio al precariato e reclutamento di insegnanti più giovani e qualificati sono gli obiettivi principali. «Attraverso la programmazione daremo certezze sul posto di lavoro agli aspiranti insegnanti - ha detto il ministro dell’Istruzione illustrando le novità del decreto legislativo - La nuova disciplina consentirà progressivamente di risolvere il problema del precariato nelle scuole perchè, a regime, sarà possibile insegnare solo con il livello più alto della formazione universitaria». Per insegnare alle elementari servirà, dunque, una laurea magistrale. Alla fine del corso (dopo la laurea o il diploma accademico di secondo livello) è previsto un esame di Stato con valore abilitante che funzionerà come prova concorsuale e garantirà l’assunzione alle scuole statali. Tutti i corsi universitari sono a numero chiuso programmato sulle reali esigenze di turn over indicate dal Miur e dal Ministero dell’Economia. La programmazione dei posti avverrà a cadenza triennale e terrà conto anche delle indicazioni provenienti dalle Regioni. I nuovi percorsi programmati dalle università in autonomia assicurano approfondimento disciplinare e periodi di tirocino nelle scuole. «Sarà così definito il profilo culturale e professionale del docente» ha spiegato il ministro Moratti. Saranno, inoltre, realizzati negli atenei dei centri di tutorato che avranno un- compito essenziale nella formazione dei docenti. L’inizio dei nuovi corsi è previsto per l’anno accedemico 2006-2007 e quindi i nuovi docenti potranno essere assegnati nelle scuole dall’anno scolastico 2008-2009. Il ministro Moratti ha inoltre ribadito la volontà del governo di risolvere la questione dei circa 200.000 precari a tempo pieno della scuola, come anticipato nei giorni scorsi. Una commissione congiunta dei ministeri dell’Istruzione e dell’Economia sta mettendo a punto le modalità tecniche per poter assorbire nel giro di cinque anni il precariato storico della scuola anche sulla base della proposta del sen. Valditara (An). «Nei prossimi giorni potrebbe tradursi in un disegno di legge - spiega il senatore - perchè la risoluzione del problema dei precari è prioritario per il ministro e per tutto il governo. Questo significherebbe che già dal 1 settembre, 40-50.000 precari verrebbero assunti a tempo indeterminato. E nell’arco di cinque anni tutti gli altri senza contratto avrebbero un posto sicuro». La proposta di An è appoggiata da Gilda e Snals. Il ministro Moratti ha già incontrato lo Snals: «Nei prossimi giorni incontreremo le altre sigle». L’immissione di ruolo del precariato storico sarebbe fattibile grazie alla dilazione di 5 anni della ricostruzione delle carriere. In pratica le liquidazioni scatterebbero nel 2010 attraverso la rateizzazione in quote annuali. Ma gli altri sindacati non ci stanno. Allo sciopero del 18 marzo per il rinnovo del contratto del pubblico impiego indetto dalla Cgil hanno aderito anche i Cobas.
 
 
 

Questionnaire and social

Share on:
Impostazioni cookie