Press review

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
07 March 2005
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI
Ufficio Stampa

 
1 - L’UNIONE SARDA
Pagina 6 - Cronaca Regionale
Soru taglia anche gli assessori
Dadea: Giunta più magra, maggiori poteri al Consiglio
Nel dibattito sulle riforme c'era un grande assente: la Giunta regionale. Ma l'esecutivo ci sta lavorando, e alcune proposte di lavoro sono in uno stadio avanzato. Massimo Dadea, assessore alle Riforme, anticipa le ipotesi allo studio («solo ipotesi», rimarca), e la prima scelta è chiara: sull'elezione diretta del presidente della Regione non si torna indietro. Ma i poteri della Giunta andranno bilanciati in vario modo. Gli assessorati, tra l'altro, dovrebbero ridursi. Forse a dieci, ma su questo Dadea non si sbilancia. Crede anche lei che l'attuale sistema sia squilibrato a favore del potere esecutivo? «Sicuramente l'equilibrio istituzionale che ha funzionato per cinquant'anni si è rotto, penalizzando l'assemblea. Però non bisogna ragionare con categorie che appartengono a un'altra stagione». Come si può rimediare? «Inserendo nell'ordinamento un insieme di pesi e contrappesi. Sapendo che è un problema su cui Giunta e Consiglio devono lavorare di concerto: il governo regionale non ha interesse ad avere un sistema sbilanciato. La Giunta deve governare. Il Consiglio deve fare le leggi e accettare di spogliarsi di alcune funzioni di amministrazione attiva, proprie del passato». Per esempio? «Per esempio le nomine. In un nuovo quadro istituzionale, l'assemblea deve soprattutto riappropriarsi del suo ruolo di legislatore. Voglio dire che non deve limitarsi ad approvare le leggi, ma deve elaborarle». Quel che accade ora non è invece uno svilimento dell'assemblea a organo che ratifica scelte altrui? «Ci stiamo tutti adattando alle novità. E comunque un simile svilimento non sarebbe certo auspicabile dal mio punto di vista. Deve crearsi una sinergia tra il governo e il potere legislativo. Anche il nuovo Statuto dell'autonomia deve vedere protagonista il Consiglio, benché la Giunta non intenda far mancare il proprio contributo». Avete già delle proposte pronte? «Diciamo che è abbastanza avanti una riflessione soprattutto sulla legge statutaria, ossia la parte decostituzionalizzata che, tra le altre cose, definisce la forma di governo». In commissione Autonomia il centrosinistra sta studiando sia l'ipotesi presidenzialista che quella parlamentare. Quale scegliete? «Crediamo che il presidente debba essere eletto a suffragio universale. Però con gli adeguati contrappesi di cui dicevamo prima». Di che tipo? «Il nodo vero è lo scioglimento del Consiglio in caso di sfiducia al presidente della Regione. Forse è il caso di evitare automatismi secchi, che rendono deboli i consiglieri». Darebbe al governatore la possibilità di porre la questione di fiducia? «Sì, come hanno fatto altre Regioni. Dall'assestamento di bilancio alla manovra, circa sei mesi dell'attività consiliare stanno andando via solo per le questioni finanziarie. Questo è impensabile. Ma per evitare ulteriori squilibri, è giusto limitare la fiducia alla Finanziaria e a pochi altri casi». Sulla Giunta, invece, il Consiglio non dovrebbe votare la fiducia. «La fiducia no, ma io dico: perché non introdurre anche il gradimento dell'assemblea sugli assessori? Non sarebbe vincolante per il presidente, ma un eventuale voto negativo sarebbe un fatto politico di cui tener conto». Invece lo Statuto vero e proprio, la nuova Costituzione sarda, come dovrebbe essere? «Uno Statuto di poteri, che attribuisca sovranità e stabilisca i diritti dei sardi. Attribuire sovranità, per intenderci, vuol dire che dobbiamo poter decidere sulla Maddalena, le servitù militari, la tutela delle coste, i parchi». Per il presidente della commissione Autonomia, Paolo Maninchedda, la vera opposizione della Giunta è il Governo nazionale. Condivide? «Detta così mi sembra che sminuisca il ruolo della minoranza consiliare. È vero però che c'è un problema di sovranità: se lo Statuto ha la stessa forza della Costituzione, il rapporto Stato-Regione è un patto tra uguali. Perché allora il Governo deve decidere su questioni vitali per noi?». Da tempo si parla anche di una riforma degli assessorati. Secondo quali criteri? «Bisogna rivedere le competenze, oggi le più cervellotiche. L'Urbanistica, per esempio, deve acquisire quelle sull'ambiente, e diventare l'assessorato al Territorio. Ma deve anche perdere quelle sugli enti locali, da accorpare agli Affari istituzionali e riforme. Assurdo che oggi l'assessorato alle Riforme non possa occuparsi delle Comunità montane. Inoltre pensiamo a un assessorato all'Istruzione che comprenda università e ricerca, di cui oggi ci si occupa poco, ma anche la formazione professionale, attualmente unita alla delega sul Lavoro». Gli assessori resteranno dodici? «No, diminuiranno. Di quanto, però, ancora non lo dico». Giuseppe Meloni
 
2 – L’UNIONE SARDA
pagina 4 – speciale
Broker consulenti di enti pubblici
La sentenza. Per la Cassazione possono collaborare con la PA
Le pubbliche amministrazioni possono ricorrere alla consulenza del broker, una figura professionale che si occupa della mediazione tra le assicurazioni e i clienti prima della stipula dei contratti. La Corte di cassazione ha da poco riconosciuto che il ricorso al consulente assicurativo non lede il principio dell'evidenza degli atti pubblici, ma anzi può garantire all'ente scelte motivate che salvaguardare il patrimonio. È questo il senso della sentenza 2416 della Terza sezione della Corte che ha riconosciuto piena legittimità agli accordi tra gli enti pubblici e i broker. A differenza degli agenti assicurativi, che rappresentano e promuovono le società a cui appartengono, i broker lavorano nell'interesse dei clienti indirizzandoli nelle scelte. Nel caso delle pubbliche amministrazioni, il broker collabora alla predisposizione dei bandi di gara, indicando i requisiti tecnici di cui l'ente ha bisogno. In sostanza, secondo la suprema Corte, l'attività di mediazione, non turba la trasparenza e l'evidenza pubblica, come avevano invece obiettato i giudici in altre sentenze. La stessa legge, ha ricordato la Corte, prevede che i broker non siano assolutamente vincolati da alcun impegno con compagnie assicurative che abbiano un interesse alla sua collaborazione, primo tra tutti la stipula di nuovi contratti. (n. p.)
 
3 – LA NUOVA SARDEGNA
Pagina 11 - Cronaca
Ma all’università serve il trenino
Senza finanziamenti il progetto per raggiungere il policlinico
CAGLIARI. Il metrò di superficie è una scelta fatta, i lavori a buon punto, ora l’attenzione è puntata sul tratto Monserrato-policlinico, diramazione ormai indispensabile.
 Non da oggi le Ferrovie della Sardegna hanno una scheda-progetto per il pennello in partenza dalla stazione di Monserrato direzione policlinico universitario. L’importo dei lavori del tratto fino alla Cittadella è intorno ai diciannove milioni di euro: sono già stati chiesti e dovrebbero arrivare con uno dei prossimi progetti Por della Regione. Alle Fds sanno bene che quei millecinquecento metri di strada ferrata sono tra i più attesi. Oggi raggiungere il policlinico è tutt’altro che facile, soprattutto domenica e nei giorni festivi quando la rete degli autobus urbani non fa capolinea da quelle parti, lasciando a terra i parenti di chi è ricoverato. Appena il finanziamento sarà sicuro, le Ferrovie appalteranno anche questo lotto. Il problema è che non si sa quando il cantiere potrà aprire. La zona nel giro di pochi anni cambierà volto. Cominciano a verdersi i primi agglomerati di case, la strada è intesamente trafficata, il traffico è destinato a crescere di pari passo con l’attività del policlinico che conoscerà due momenti importanti: la creazione dell’azienda mista Regione-Università e l’ulteriore spostamento a Monserrato di insegnamenti universitari. L’utenza è di due tipi: i pazienti e i loro parenti per le cure erogate dal policlinico, gli studenti di Medicina. Se poi il policlinico di Monserrato dovesse entrare nella rete dei presìdi con un servizio di pronto soccorso aperto al territorio, il traffico dovrà aumentare ancora. Monserrato comune, infine, sollecita la costruzione del ramo di metropolitana leggera verso il policlinico.
 
4 – LA NUOVA SARDEGNA
Pagina 14 - Nazionale
UNIVERSITÀ 
In funzione il servizio mensa per gli studenti di Economia 
OLBIA. È stato attivato il servizio mensa per gli studenti universitari del corso di laurea in Economia e Imprese del Turismo. Un servizio importante, realizzato dall’Ersu in collaborazione con la Sps srl. Gli studenti possono contare sul ristorante del piano terra dello scalo olbiese, l’AirportElite, che grazie alla convenzione con l’Ersu può offrire dei menu completi ai prezzi previsti dalle convenzioni vigenti. Chi ha fatto domanda di tessera mensa presso gli uffici del polo universitario, potrà acquistare i pasti secondo la fascia di reddito di appartenenza, con contributi variabili tra 1.60 e 2.70 euro. Il polo universitario di Olbia, grazie alle attività dello “Sportello Unico” per gli studenti (segreteria studenti, Ersu e Cus) e alle attività didattiche realizzate dalla Sps srl, in collaborazione con il comune di Olbia e la Geasar garantisce ora a tutti gli studenti universitari di vivere pienamente il mondo accademico, potendo contare su tutta la gamma dei servizi offerti nella sede centrale di Sassari. Informazioni presso gli uffici del polo universitario di Olbia, collegandosi al sito www.uniolbia.it/ersu o al numero 0789.642184.
 
 
5 – IL CORRIERE DELLA SERA
Provincia di Milano
LA LETTERA
La Moratti apra un dibattito sulla riforma
Caro Ministro, considerato che ella si accinge ad una serie di audizioni con diverse realtà, in merito al decreto attuativo della Legge 53 per le scuole superiori, vorrei offrire il mio contributo al dibattito, visto che le voci che si rincorrono stanno creando incertezza tra le famiglie.
Penso che una riforma della scuola non possa prescindere dalla «memoria» e dalle indicazioni di chi ci ha preceduto. Deve innanzitutto garantire a tutti pari opportunità, indipendentemente dal ceto sociale di appartenenza. Il secondo ciclo del sistema formativo, previsto dalla Legge 53 delinea una netta divisione tra i licei, definiti «propedeutici» al proseguimento degli studi e l'istruzione e formazione professionale, canale finalizzato al lavoro. Tale schema sta suscitando molte reazioni negative. In Milano e provincia le iscrizioni si sono già indirizzate verso i licei, ritenuti più rassicuranti, determinando un calo sensibile degli iscritti nei tecnici e professionali. Inoltre i «passaggi» tra i due sistemi sono considerati da molti difficilmente realizzabili.
Perché cancellare il sistema attuale? I percorsi quinquennali hanno risposto alle diverse caratteristiche dei ragazzi, ai diversi bisogni e obiettivi formativi, anche se con evidenti elementi di criticità che devono essere affrontati e risolti. I dati dell’Istat mostrano che chi esce dai professionali e dai tecnici gode di interessanti sbocchi professionali: rispettivamente il 75,7 per cento e il 67,3 dei diplomati, a tre anni dal diploma, hanno già un'occupazione. I tassi di successo a livello universitario sono confortanti: su 100 immatricolati provenienti dai professionali si laurea il 28,3%, mentre per gli istituti tecnici si sale al 41,7%.
Consapevole del bisogno di innalzare qualitativamente il livello della scuola italiana, propongo alcune linee guida per una proposta di riforma. Qualità del fare scuola: i tempi necessari e distesi, la corresponsabilità del gruppo docente e i percorsi individualizzati sono strumenti indispensabili per un rilancio della scuola pubblica; reintroduzione del concetto costituzionale di obbligo scolastico e suo innalzamento almeno fino al primo biennio delle superiori; coerenza tra obiettivi e risorse disponibili; stabilità del personale della scuola: la precarizzazione produce demotivazione e incertezza.
Nel salutarla rispettosamente, invito il suo ministero a dar vita a una consultazione delle scuole italiane, così come richiesto da varie parti. L'assessorato all'Istruzione della Provincia di Milano mette a disposizione di tutti gli istituti il sito www.provincia.milano.it e coglie l'occasione per invitarla ad aprire il dibattito con un suo atteso contributo.
Giansandro Barzaghi
Assessore provinciale all’Istruzione
 
6 – IL CORRIERE DELLA SERA
PUBBLICO & PRIVATO
In ogni giovane apatico si nasconde un combattente
A volte mi cadono le braccia. Ancora vent’anni fa era possibile elencare moltissimi filosofi, storici, sociologi, psicologi che i giovani leggevano con avidità considerandoli dei maestri. Faccio i primi nomi che mi vengono in mente: Levi-Strauss, Lacan, Foucault, Barthes, Braudel, Habermas, Jonas, Berlin. Prendete ora qualsiasi giovane e domandategli quali autori legge abitualmente considerandoli dei maestri. Spesso non ne nominano nemmeno uno. Hanno magari letto le Barzellette di Totti e Il codice da Vinci senza naturalmente aver capito che è un mostruoso imbroglio storico. Ma non possono averlo capito perché non sanno più la storia. Girano il mondo e non sanno localizzare su una carta geografica dove sono gli Stati. Navigano in Internet ma, poiché su Internet ci sono solo frammenti, fanno un minestrone di frammenti che non riescono a ordinare. Molti non leggono più i giornali. Hanno paura della matematica. Tanti arrivano all’università senza saper non solo scrivere, ma nemmeno parlare. E non imparano a farlo neanche lì, perché quasi dappertutto stanno scomparendo gli esami orali, dove discuti con lo studente, gli chiedi di argomentare. Si dedicano alla chiacchierologia ed evitano le materie scientifiche. Li vedi nei banchi apatici, svogliati, sembrano privi di vita, di passioni. Evitano lo sforzo, evitano le sfide, non sono abituati a combattere, cedono alle prime difficoltà. A volte mi cadono le braccia. E come a me a tanti professori. Ed è giusto dirle queste cose, non si possono solo fare elogi ai giovani, ripetere demagogicamente che sono la speranza del futuro. Lo sono se si svegliano. Lo sono se qualcuno riesce a risvegliare in loro la voglia di sapere, di capire, di inventare, di lavorare. Ed è facilissimo farlo. Sì, è facilissimo. Prendete un gruppo di giovani svogliati che sembrano zombie e chiamateli a lavorare con voi su un progetto. Un progetto alto, ambizioso, un progetto difficile in cui c’è da faticare duro. E mettetevi a farlo con loro, in mezzo a loro, con energia, con entusiasmo, coinvolgendoli, dando loro incarichi e responsabilità. Lasciateli sbagliare ma che capiscano lo sbaglio fatto. Siate esigenti, molto esigenti perché devono sentire la durezza del compito e imparare a resistere, a non guardare all’orario, alla fatica ma solo alla meta. Finche non imparano che devono essere esigenti con se stessi. Stimolateli, rimproverateli, elogiateli, gridate, applaudite, festeggiate finché non diventate un gruppo dedicato alla meta. Allora vedrete fiorire delle meraviglie.
Perché non sono i giovani che sono apatici, morti, ignoranti, pigri, siamo noi che non abbiamo capito che l’essere umano è, nel profondo, un combattente, che ha al suo interno una spinta irrefrenabile a salire in alto. È questa che bisogna risvegliare. Ma non la si risveglia con il «poverino, poverino» e con la pigrizia. E la si uccide con l’indifferenza. La si risveglia solo additando una meta e dimostrando, con il tuo esempio, che ci credi e che sei pronto a batterti insieme a loro per raggiungerla. Come hanno sempre fatto i grandi educatori, i grandi scienziati, i grandi generali. Cesare dormiva su un lettuccio da campo fra i suoi soldati e si lanciava nella battaglia con loro. E vincevano sempre.
www.corriere.it/alberoni

 
7 – LA REPUBBLICA
pag. 7 - intervista
Più laureati e ricercatori per far decollare anche in Italia le Tre T
Tecnologia, talento, tolleranza. Forse un giorno potremo valutare il nostro sviluppo economico, quello del paese in cui viviamo, con queste Tre T. Se ne stanno, per adesso, convincendo un numero crescente di ricercatori che fanno capo al professor Richard Florida, docente di economia alla George Mason University a Fairfax, Virginia, che ha iniziato a elaborare la Teoria delle Tre T negli anni Novanta portandola a compimento con i ricercatori della Carnegie Mellon University di Pittsburgh. E ne è naturalmente convintissima Irene Tinagli che del pool di Florida fa parte da cinque anni e che, insieme a lui, ha fondato il Creativity Group Europe con l’obiettivo, tra gli altri, di valutare il potenziale creativo delle città europee e di studiare le nostre industrie e le imprese creative. «La nuova economia — dice — in qualsiasi modo si voglia chiamarla ha visto intere regioni e città esplodere, espandersi e rifiorire, ma ha anche assistito all’agonia di moltissime altre aree intrappolate nel vecchio paradigma e incapaci di reinventarsi e rendersi competitive nel nuovo sistema. Questo processo è stato molto rapido e si è mostrato spesso insensibile ai numerosi interventi e strategie elaborati da politici e amministratori nel tentativo di recuperare competitività e sviluppo. Ecco perché i vecchi indicatori per individuare lo sviluppo economico non bastano più, ecco perché è nata, cresciuta e si sta evolvendo la Teoria delle Tre T».
Trent’anni, è nata a Empoli il 16 aprile del 1974, una laurea alla Bocconi in Economia Aziendale, un’esperienza all’estero che dura ormai da cinque anni, ricercatrice alla Carnegie Mellon Irene Tinagli coniuga analisi e passione, tabelle e ragionamenti, realtà e paradossi con l’entusiasmo di chi vede nascere e crescere un progetto che potrebbe durare un secolo. La Teoria delle Tre T, per uscire dai centri studi universitari o dai salotti intellettuali ed entrare nelle stanze dell’economia, ha bisogno di tutto questo.
Com’è nata la Teoria delle Tre T?
«E’ nata, come spesso succede, da un’analisi particolare, di casi che non trovavano risposta con i modelli tradizionali. La necessità di trovare nuovi codici d’interpretazione ha spinto il professor Florida e con lui il nostro gruppo su questa strada».
Un’analisi nata negli Stati Uniti che può, secondo voi, avere valore anche su scala mondiale?
«Assolutamente sì e lo stiamo verificando sul campo. Vede, non ci si riusciva a spiegare, utilizzando i modelli classici, come Pittsburgh, città molto avanzata per cultura e investimenti in tecnologia, non fosse "esplosa" economicamente. E lo stesso succedeva a Baltimora e a S. Louis, mentre nella Silicon Valley il trend era decisamente opposto. Ci si è chiesti, allora, che cosa avesse determinato il fallimento degli uni e il successo degli altri».
E avete scoperto le Tre T.
«Più esattamente abbiamo individuato perché i sistemi avevano successo, perché lo sviluppo economico dava risultati positivi. E abbiamo scoperto, questo sì, che la tecnologia e il talento che la crea o la fa crescere portano a risultati effimeri se non c’è la tolleranza come collante. Pittsburgh ha visto nascere il fenomeno Lycos che, subito dopo, è emigrato a Boston. Abbiamo iniziato ad applicare questi parametri e i dati ci hanno dato ragione: dove tecnologia, talento e tolleranza procedono insieme lo sviluppo è assicurato».
Detta così sembra più una formula sociologica che un modello per misurare le prospettive di crescita economica di un’area.
«E’ vero che il modello porta una componente sociologica all’interno dei parametri economici tradizionali, ma l’indicatore funziona. La conferma inizia a venire anche dagli stessi economisti che qualche anno fa vedevano negli investimenti tecnologici l’unica risposta ai cambiamenti del sistema: oggi si sono accorti che c’è bisogno di una nuova spiegazione perché le politiche costruite intorno a simili approcci sono fallite».
Vuol dire che a massicci investimenti non corrisponde sviluppo?
«Vuol dire che non sempre corrispondono e non per forza. E non corrisponde mai un vero sviluppo, uno sviluppo duraturo se tecnologia e talento non sono tenuti insieme da un tessuto sociale aperto e tollerante».
Forse è meglio spiegare con chiarezza, a costo di banalizzare, le Tre T fino in fondo. Iniziamo dalla Tecnologia.
«E’ la capacità di sviluppare la tecnologia, cercando l’eccellenza nelle scuole, nelle università, nei centri di ricerca».
Il Talento?
«E’ proprio delle persone competenti, molto preparate, con una grande base di conoscenza e un altissimo potenziale creativo. Questi "talenti" nascono e crescono in ambienti dove le strutture gerarchiche non sono burocratizzate, dove i codici esistono ma sono più informali».
Dove c’è la terza T, il collante: la Tolleranza?
«Sì, intesa come apertura mentale e culturale. La Tolleranza raggiunge il suo apice dove c’è la maggiore accettazione del diverso, dove le idee nuove non spaventano. Dove gli altri sono accettati per quello che portano di veramente creativo e non catalogati per sesso, razza, religione».
Potrà sembrare crudele, ma le Tre T senza soldi non vanno da nessuna parte.
«Sì, ma gli investimenti nel posto sbagliato non creano sviluppo.
Ho già citato il caso della Silicon Valley. Perché proprio lì, e non a Pittsburgh a Baltimora o S. Louis, gli investimenti hanno dato frutti eccezionali? Perché tecnologia e talento si sono sviluppati in un ambiente ideale dove i creativi potevano esprimere al meglio tutte le loro potenzialità».
Ma bastano queste piccole realtà, Pittsburgh e la Silicon Valley, per giudicare lo stato di un paese. Siamo alla localizzazione di un’economia che, invece, sta diventando globale.
«Sono i centri di eccellenza a trainare un paese, a farne la sua fortuna. E, comunque, noi stiamo estendendo lo studio dalle città alle nazioni. E i parametri delle Tre T funzionano».
Ma intanto il mercato è globale e la produzione va dove il costo del lavoro è minore. Quale futuro può avere un paese che crea e progetta, ma poi fa produrre all’estero? Quale ricchezza può generare? Forse qualche migliaio di ricercatori e ingegneri.
«Vogliamo parlare della Cina, mi sembra di capire?»
Sì.
«Non mi fa paura. C’è crescita, ma almeno per ora dubito che ci possa essere un vero sviluppo economico, perché il livello di istruzione è basso e quello di tolleranza ancora di più. La delocalizzazione dei prodotti di massa è inevitabile, è un fenomeno ciclico. Ma non dobbiamo temere questa concorrenza se investiamo nell’eccellenza. Io oggi, poniamo, progetto un nuovo cellulare a Milano: fino a quando sarà un prodotto nuovo e non standardizzato la produzione resterà locale. Quando diventerà di massa, andrà in Cina o in Cambogia, ma nel frattempo, se le Tre T funzionano, qualcun altro avrà progettato un nuovo computer. Questo è lo sviluppo che non si ferma e che crea ricchezza».
Uno sviluppo che genera quella che voi chiamata la classe creativa.
«Sì, genera più occupazioni "creative", svolte, appunto, da quella che noi chiamiamo classe creativa. E la classe creativa, nelle condizioni ideali, genera a sua volta un ciclo economico, per usare parole antiche, virtuoso».
Voi avete iniziato a estendere l’analisi su scala mondiale, in particolare in Europa. Continuate a trovare verifiche?
«Sempre di più. Oggi abbiamo studi in corso su circa 200 città americane, 14 paesi europei e 45 in tutto il mondo. E mentre procediamo il modello si perfeziona da solo, fornendoci riscontri importanti sulla sua validità».
Ma l’analisi non basta: la fotografia dell’esistente, la spiegazione dei fenomeni non incidono sull’economia se non diventano strumenti.
«Ma le Tre T sono uno strumento, lo stanno diventando. In Italia stiamo analizzando quelle che noi chiamiamo le «Città creative». Le amministrazioni di grandi centri urbani come Roma, Milano, Torino, Bari, Trieste o più piccoli come Trento, Biella e il comune di Capannori hanno aderito al progetto del nostro «Creativity Group Europe». Noi ora scattiamo sì la fotografia della realtà, ma poi forniremo la nostra idea di sviluppo facendo leva proprio sui parametri sulle Tre T».
E siete convinti che, seguendo la strada di Tecnologia, Talento e Tolleranza queste città potrebbero diventare centri di sviluppo?
«Assolutamente convinti. Del resto, come ho già detto, i vecchi indicatori non danno più risposte. Non bastano gli investimenti per rimettere in moto l’economia, bisogna creare un ambiente dove il talento di chi crea possa generare sviluppo che duri nel tempo».
A questo proposito l’Italia, nella vostra ricerca europea, non è messa davvero bene.
«No, è al tredicesimo posto. E in un ulteriore studio pubblicato a ottobre scorso che considera il Global Creativity Index (la valutazione della classe creativa) è al trentaquattresimo nel mondo, subito dopo la Croazia».
Siamo indietro su tutto, soprattutto in Tecnologia e Talento, solo un po’ meglio in fatto di Tolleranza. Dov’è il problema principale?
«Abbiamo pochi laureati rispetto agli altri <\-> e più vecchi <\-> nascono pochi ricercatori. L’Italia ha bisogno di un deciso cambiamento culturale, soprattutto nella formazione, nelle università: ci vorrebbero meno burocrazia e meno gerarchie. La creatività è un processo sociale che non può dipendere da una struttura ingessata, tutta tesa a difendere le rendite di posizione, timorosa se non ostile verso il nuovo. Dovremo incominciare da qui, in fondo basterebbe davvero poco...»
Basterebbero Tre T.
«Appunto».
Luigi Gia
 
8 – LA SICILIA
L'inglese è la lingua del futuro
Roma.  L'inglese è la lingua del futuro: in dieci anni la parlerà metà della popolazione mondiale. E' quanto emerge da uno studio commissionato dal «British Council», il più autorevole Istituto britannico per l'insegnamento della lingua inglese all'estero, che sarà ultimato tra qualche mese, ma di cui sono stati anticipati alcuni dati in una conferenza internazionale ad Edimburgo.
La ricerca si chiama «The future of English», e presenta numeri impressionanti: entro il 2015 due miliardi di persone studieranno l'inglese e tre miliardi saranno già in grado di parlarlo. Lo studio si è occupato anche del futuro di altri idiomi importanti, con risultati in alcuni casi sorprendenti: il francese vivrà un progressivo declino internazionale, mentre il tedesco sarà parlato come lingua straniera da un numero crescente di persone, in particolare in Asia. Lo spagnolo, infine, rimarrà sostanzialmente invariato.
Almeno per il prossimo mezzo secolo. L'inglese infatti, sempre secondo lo studio, non rimarrà a lungo lingua maggioritaria ed entro il 2050 la diffusione dell'idioma subirà un arresto. A imporsi saranno allora le lingue parlate attualmente da un maggior numero di persone: il cinese, lo spagnolo e l'arabo.
L'autore di «The future of English» è David Graddol, che da venticinque anni lavora nel dipartimento di lingue della Open University di Edimburgo e aveva già curato uno studio simile nel 1997. La ricerca di Graddol ha preso in considerazione le stime dell'Unesco e le politiche governative dei vari Paesi in materia di istruzione, le proiezioni demografiche fornita dall'Onu e i dati sulla mobilità internazionale degli studenti ricavati da precedenti studi del «British Council».
Graddol però mette in guardia gli inglesi madrelingua dai facili entusiasmi: «Il fatto che nel mondo sia molto diffuso lo studio dell'inglese – ha affermato Graddol alla conferenza di presentazione della ricerca – non è una notizia particolarmente positiva per gli inglesi che non parlano altre lingue. Il mondo sta rapidamente diventando multi-linguistico e l'inglese è solo une delle lingue che vengono studiate. C'è infatti una corsa verso il cinese in molte parti del pianeta, e anche lo spagnolo e l'arabo saranno lingue chiave del futuro». E l'italiano? Non è nemmeno citato nella ricerca.
A. D. N.
 
9– IL MESSAGGERO
Università dopo le proteste 
Moratti: meglio approfondire il ddl sui docenti 
ROMA - Sulla questione del riordino dello stato giuridico dei docenti universitari il Ministro Moratti si rimette alle decisioni della Camera, con l' auspicio di arrivare comunque ad una rapida approvazione del disegno di legge. Lo annuncia una nota del Ministero.
«In riferimento al disegno di legge sul riordino dello stato giuridico dei docenti universitari - dice la nota - il Ministro Letizia Moratti, sentito il Presidente della VII Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati, Ferdinando Adornato, e preso atto che il dibattito parlamentare, di fronte ai nuovi emendamenti proposti dal relatore, richiede un maggiore approfondimento, si dichiara disponibile a qualsiasi decisione della Camera che consenta una ulteriore analisi del testo e al tempo stesso una rapida approvazione del disegno di legge».
Su questo ddl da oltre un anno si trascina lo scontro tra mondo universitario e governo. Tra i punti più controversi del provvedimento l’eliminazione della figura del ricercatore e l’assenza di finanziamenti aggiuntivi a favore degli atenei. Il testo disciplina anche l’accesso alla professione, che prevede un periodo iniziale di prova di tre o sei anni. La Conferenza dei rettori e quasi tutte le associazioni dei professori hanno duramente contestato il progetto di riforma portato avanti, dicono, sopra le loro teste, senza un’approfondita consultazione
 

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