Press review

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
08 March 2005
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI
Ufficio Stampa

 
1 – L’Unione Sarda
Pagina 21 – Cagliari
Nuova protesta
Scienze: stop alle lezioni
Le facoltà di Scienze e Farmacia compatte contro la riforma Moratti sospendono le attività didattiche fino al 14 marzo. Prosegue dunque la protesta del corpo docente, che vede però il dissenso degli studenti. Nella riunione del consiglio di facoltà di ieri, ordinari, associati e ricercatori si sono compattati nel votare per l'astensione da lezioni ed esami. La decisione è stata presa con i voti contrari dei rappresentanti degli studenti. Un segnale forte che arriva da una parte dell'ateneo di Cagliari, con le due facoltà capofila nella protesta contro il decreto della Moratti. Venerdì incontroIntanto per evitare una contrapposizione tra il corpo docente e gli studenti i rappresentanti del gruppo "Università per gli studenti" ha chiesto un incontro con il coordinamento dei ricercatori, che si svolgerà venerdì nella sede nell'ex-Clinica Aresu. Un'iniziativa che vuole seguire gli insegnamenti arrivati dall'ultimo sciopero, mercoledì scorso, quando uno dei punti principali evidenziati dai manifestanti è stato quello di una maggiore attenzione alla comunicazione e ai rapporti con gli studenti. (m.v.)
 
2 – L’Unione Sarda
Pagina 35 – Provincia di Nuoro
Laconi Omaggio al padre del Museo dei menhir
Trent'anni di ricerche del professor Enrico Atzeni ricordate in un libro-omaggio a Laconi. L'opera raccoglie articoli e monografie sulle ricerche archeologiche condotte in Sarcidano che hanno coinvolto gente delle campagne e studenti della facoltà di Archeologia dell'università di Cagliari, ma soprattutto documenta documento l'entusiasmo di protagonisti e comprimari. Sabato scorso il libro è stato presentato nel centro culturale di Laconi dal professor Atzeni, dal curatore Giorgio Murru, dalla professoressa Giuseppa Tanda, ordinario di Antichità sarde presso l'Università di Cagliari e da Mario Argiolas direttore editoriale della casa editrice che ha pubblicato il volume. Soddisfazione e manifestazioni di consenso anche da parte dell'amministrazione nelle parole del vicesindaco Fausto Fulghesu. Tutti gli intervenuti al dibattito hanno sottolineato l'importanza di questi lavori e soprattutto si sono soffermati sul fatto che opere di questo genere non vogliono essere un punto di arrivo, ma un punto di partenza perché «ci sono ancora tante pagine e tanti capitoli da scrivere», ha commentato la professoressa Tanda; mentre Giorgio Murru si è soffermato sull'importanza in prospettiva economica e sociale di queste ricerche su cui è nato il Museo delle statue Menhir, esempio di come lo studio sul campo e la fruizione siano tappe importanti anche per il turismo culturale, momenti fondamentale di un percorso che - ha ricordato Murru - può garantire un futuro a queste zone interne». Concetti richiamati a più riprese dal professor Enrico Atzeni che, soddisfatto per il lavoro, nel suo intervento ha sottolineato più volte l'importanza del recupero e della fruizione del patrimonio storico e culturale. (b. c.)
 
3 – L’Unione Sarda
Pagina 6 – Cronaca regionale
Intervista al professor Giulio Cossu, ricercatore che dirige il Parco biomedico di Roma
«L'embrione è vita umana ma la legge va subito abolita»
Limiti della ricerca e prospettive nelle riflessioni di un biologo
Dal nostro inviato Giorgio Pisano
Castel romanoE' diventato l'uomo-simbolo della battaglia referendaria contro la legge sulla fecondazione assistita. Ma è l'esatto contrario dell'arruffapopoli, lontano dallo stile e dai metodi che un certo venticello quaresimalista sta soffiando in ogni angolo d'Italia. Giulio Cossu, 52 anni, radici sassaresi, vanta il classico medagliere da primato: è direttore del Parco biomedico di Roma, ordinario di Istologia alla Sapienza, responsabile dell'istituto di ricerca sulle cellule staminali, di Biologia cellulare e ingegneria tissutale, membro del Comitato "Luca Coscioni". La sua postazione è la stanza a pareti mobili B29, dieci metri quadri circa, terzo piano di un complesso affogato in un mare verde infinito, una trentina di chilometri da Roma. «Niente paura, costiamo meno degli scarpini di Totti». Alle pareti un poster sui grandi rouges francesi, tutt'intorno un viavai di camici bianchi zavorrati di provette, il brusìo lieve di un lavoro che pure può fare il rumore di una bomba. Cossu si definisce agnostico e vien da pensare come faccia a sopravvivere al "San Raffaele", impero cattolico di don Luigi Verzè. «Lavoro in una condizione di assoluta libertà, piena autonomia e di questo sono estremamente grato». Qualcosa è tuttavia cambiato da quando si è apertamente esposto per il referendum. «Prima c'era un bel confronto con intellettuali cattolici, gesuiti molto preparati coi quali ci si misurava spesso e volentieri. Ora non mi invitano più. Peccato, hanno voluto rompere il dialogo, alzare un muro». Secondo il professor Cossu, decisioni come questa nascondono strategie a lunga gittata. «Loro negano ma io sono certo che la difesa a oltranza della legge sulla fecondazione assistita punterà, se va a segno, a rimettere in discussione l'aborto. E' lì che vogliono arrivare. E dopo l'aborto sarà la volta del divorzio e dopo ancora della contraccezione. Con tanti saluti alla laicità dello Stato». Lei è noto come meccanico del cuore, ripara cuori infartuati con le cellule staminali. «Siamo uno dei tanti centri del mondo che si occupano di questo problema. Abbiamo inserito cellule staminali in topolini che hanno avuto un infarto e si è potuto rilevare un netto miglioramento della funzione. Un certo vantaggio sulla concorrenza l'abbiamo sul fronte della distrofia muscolare. Stiamo verificando sui cani i risultati ottenuti su topolini distrofici. In questo campo siamo abbastanza competitivi». Lei lavora anche con cellule embrionali? «Personalmente no, lo fanno gruppi dell'istituto che dirigo al "San Raffaele" di Milano. Lavorano su staminali embrionali di topo. Non lavoriamo con cellule staminali umane perché di fatto, anche se non formalmente, è proibito dalla legge 40». Le staminali embrionali sono considerate insostituibili a differenza di quelle adulte: perché? «La polemica che si è creata ormai prescinde non solo dalle valutazioni scientifiche ma anche dal buonsenso. Un esempio: se per salire su una collina ci sono due viottoli che non conosco, dovrò esaminarli tutt'e due per capire quale sia il migliore. Ci sono casi in cui già si sa che le cellule staminali adulte funzionano (trapianto di midollo, rigenerazione della cornea, dell'epidermide). Per una serie di altre patologie invece oggi non sappiamo se funzionano meglio le cellule staminali adulte o quelle embrionali. L'unico modo per arrivare a un risultato è provare». Il biologo Vescovi propone di sprogrammare le adulte facendole tornare embrionali. «Si potrebbe. Userei il condizionale perché finora non ci è riuscito nessuno. La riprogrammazione di una cellula staminale adulta avviene con una frequenza talmente bassa che sotto il profilo terapeutico risulta totalmente inutile. Quando scopriremo i meccanismi della deprogrammazione, l'anno prossimo o fra venti, ne riparleremo». Perché la legge 40 va modificata? «Per quanto riguarda le staminali, la ricerca non può essere vincolata da leggi decise senza consultare i ricercatori, in modo completamente avulso dal contesto europeo, mondiale e di tutti i Paesi civili. In altre parole: bisogna poter lavorare con le cellule staminali umane perché queste cellule offrono prospettive importanti. I cattolici hanno ragione quando dicono che finora le staminali embrionali non hanno mai curato nessuno. E' altrettanto vero che se non possiamo studiarle, non potremmo mai sapere». Se la legge dovesse restare in vigore, ci sarà un oggettivo danno alla ricerca? «Per quanto riguarda le cellule staminali embrionali, sicuramente sì». Temi così delicati possono finire in un referendum? «L'argomento è complesso ma può essere spiegato a chiunque nel giro di dieci minuti. Da un lato basta avere voglia di informarsi e dall'altro ritenere che tutti possano capire». L'embrione è vita? «Sicuramente». È vita umana? «Certo che è vita umana. La domanda è mal posta. Anche una cellula della mia epidermide è vita umana. Se mi gratto, elimino delle cellule ma mica si può dire che ogni volta che mi gratto sto sacrificando vite umane. È questione di probabilità: anche un embrione concepito nell'ambito del matrimonio benedetto da Santa romana Chiesa, ha una probabilità su tre di nascere. Se invece che per vie naturali, viene prodotto per fecondazione in vitro, la probabilità scende a una su cinque. Lo spreco è una legge di natura e non uno sterminio come qualcuno vorrebbe attribuire alla ricerca scientifica». La legge vieta anche la diagnosi pre-impianto, che in Sardegna è un baluardo contro la talassemia. «E' assurdo obbligare il re-impianto di un embrione che si sa certamente malato. Si potrebbe, come è stato proposto, congelare tutti gli embrioni malati, tenerli in un limbo e liberarli solo quando sarà trovata una terapia. Un bimbo talassemico ha davvero tanti problemi: è una scelta esclusiva della donna decidere se avere un figlio sano o malato. Non ci può mettere bocca lo Stato e tantomeno il Vaticano. L'embrione di un mammifero non è come l'embrione di pesce, che si sviluppa nell'acqua. L'embrione di un mammifero non ha nessuna possibilità di svilupparsi se non trova un utero che l'accoglie. Dunque è la madre che deve decidere cosa fare di un embrione sano, malato o malatissimo. Nessun altro». Se il cardinal Ruini convince gli italiani ad andare al mare anziché votare, cosa accadrà? «Sul piano della ricerca è come se ritirassero l'Atalanta dal campionato di serie A: onestamente, il vertice non ne risentirebbe. In Italia non siamo all'avanguardia. Il danno più importante se la legge 40 sta in piedi, è che si tratta del primo passo verso altre controriforme».
 
 

4 – La Nuova Sardegna
Pagina 19 - Sassari
di Gabriella Grimaldi
In Clinica Medica i pazienti dormono per terra
Situazione disastrosa nel prestigioso reparto universitario di viale San Pietro
 Mancano le barelle, le camere sono sovraffollate, a rischio le operazioni di soccorso. E per sedersi a mangiare i ricoverati devono fare i turni
  SASSARI. Entrare nel reparto di Clinica Medica è un’esperienza sconcertante. Un gran numero di persone affolla il corridoio centrale, gli spazi per gli operatori sanitari, le cucine, i depositi di farmaci e le camere di degenza, dove i ricoverati sono stipati all’inverosimile. L’ambiente è fatiscente e disordinato, i mobili sono vecchi mentre gigantesche bombole di ossigeno arrugginite incombono all’ingresso e nelle stanze. Il rumore delle voci e il via vai attorno ai letti fanno pensare a un mercato piuttosto che a un reparto di medicina, dove gli ammalati avrebbero bisogno di tranquillità e privacy.
 Insomma, un primo impatto da brivido che purtroppo non è soltanto apparenza. Le notizie che arrivano dagli operatori in forze nel reparto universitario di viale San Pietro guidato dal professor Giuseppe Delitala sono davvero inquietanti.
 Si tratterebbe, a sentire le lamentele che da anni raggiungono gli uffici della direzione Asl (e che solo da poco, con il cambio di guardia al Palazzo Rosa, hanno avuto un riscontro), di una struttura sanitaria dove si lavora in condizioni «disagiate, da terzo mondo, precarie e illegali».
 Qualche esempio? Non ci sono ausilii per sollevare i pazienti, che sono uomini e donne insieme, i letti sono vecchi e obsoleti, non esiste una barella ad altezza variabile, non c’è l’ossigeno centralizzato e le bombole vengono trasportate di volta in volta a mano dentro le stanze.
 Di più, visto che le camere di degenza sono svoraffollate di letti (quasi tutte ne hanno tre e dovrebbero essere al massimo due, altre ne hanno addirittura cinque) questi distano non più di venti centimetri l’uno dall’altro, il che rende molto laboriose le operazioni di soccorso. Pare, infatti, che alcuni giorni fa, un caso di emergenza riguardante un malato che occupava il letto più distante dalla porta, solo per un soffio non si sia trasformato in una tragedia. Basti pensare che per far entrare i carrelli della bombola, delle urgenze e dell’elettrocardiografo gli infermieri sono costretti prima a togliere un letto dalla camera.
 Ma la descrizione delle condizioni di lavoro all’interno del reparto non si esaurisce così. I bagni sono presenti solo in alcune stanze e non tutti hanno la finestra cosicchè nove pazienti, per utilizzare i servizi igienici, devono spostarsi nelle camere degli altri ricoverati. Da notare che gli stessi locali sono usati da persone affette da malattie infettive, che i pazienti sofferenti di salmonella condividono il bagno con altri ammalati di epatite insieme ai pazienti radioattivi. Gli infermieri lavano le padelle ancora a mano in uno stanzino minuscolo dentro una vaschetta per lavare i panni. Tutto ciò, descritto meticolosamente in un documento che gli operatori hanno recapitato alla nuova dirigenza della Asl («finalmente sono stati a sentirci, a noi che in anni e anni non eravamo mai stati ricevuti») è da aggiungere al fatto che il personale per andare in bagno deve allontanarsi tre piano sotto il reparto, che non ci sono più sedie e i pazienti spesso devono fare i turni per mangiare.
 Le sedie sono occupate perlopiù da una marea di specializzandi delle sette scuole che fanno capo al reparto di Clinica Medica. «I quali danno certamente prestigio alla clinica - dicono gli operatori esasperati - e, diciamo la verità, spesso aiutano gli infermieri e gli ausiliari nei lavori più umili perchè si rendono conto delle condizioni disperate nelle quali ci troviamo».
 Non è da trascurare infatti la situazione dell’organico. Da agosto del 2004 il numero degli infermieri si è ridotto da 15 a 13 (personale in pensione o trasferito non è stato sostituito) fino ad arrivare, a causa di malattie, a 10 più uno esente dai turni di notte. Capita così che gli infermieri siano costretti a doppiare il turno e lavorare fino a 12 ore consecutive.
 Questo è più o meno tutto ciò che concerne la prima parte della visita al reparto. Ma le sorprese non finiscono qui. Dallo stesso pianerottolo della Clinica Medica si accede a un reparto nuovo di zecca. Davanti a chi entra si spalancano silenziose le porte scorrevoli e ci si trova in un ambiente ultramoderno, dotato di macchinari sofisticatissimi, letti, barelle e persino comodini ergonomici. Ampie vetrate racchiudono due sale, una semintensiva e l’altra destinata alla terapia intensiva. Un silenzio improvviso e inaspettato, dopo la bolgia dalla quale si è appena usiciti, avvolge il visitatore, anche perchè il repartino-gioiello è deserto. Conclusi i lavori circa tre anni fa, dopo che il reparto femminile era stato provvisoriamente unito a quello maschile, la prestigiosa Unità Coronarica Universitaria, di questo si tratta, non è mai decollata. Così, mentre i pazienti a pochi metri di distanza sono costretti a dormire sulla barella per terra o a stare seduti per lasciare il letto ai ricoverati più gravi, le stanze avveniristiche restano sigillate senza poter essere utilizzate. Lo stesso discorso vale per il vasto quinto piano dello stesso stabile, ristrutturato egregiamente e oggi usato solo in minima parte. Alla faccia di chi, pazienti e operatori, si sacrifica tutti i giorni per portare avanti il reparto in condizioni proibitive.
 
 
5 – La Nuova Sardegna
Pagina 20 - Sassari
Nuovo stop al policlinico per animali
Scontro in commissione per una strada che costeggia Veterinaria
 SASSARI. La lingua italiana si rivela più pericolosa di quella blu per i veterinari del futuro. Il nuovo stop al policlinico per animali arriva per una questione lessicale. Un dubbio grammaticale e legislativo tormenta una parte dei componenti della commissione Urbanistica.
 Un dubbio legato alla strada che costeggia l’ospedale per animali. La striscia d’asfalto è larga dodici metri. Troppo pochi perché venga considerata pubblica, ma sufficienti se la si valuta di uso pubblico. Una questione di interpretazioni, ma che per i consiglieri è fondamentale. La legge impone che le vie gestite dall’amministrazione debbano essere di almeno quindici metri. Se lo standard non viene rispettato la commissione può bloccare il progetto. «Nel sopralluogo abbiamo visto che la strada è larga solo dodici metri, non può essere considerata pubblica - attacca Mariolino Andria -. Le regole devono essere uguali per tutti. Noi possiamo anche andare incontro all’ateneo. Ma la cosa deve essere reciproca. L’università dovrebbe cedere un’area, come il parcheggio di via dei Mille, all’amministrazione in un’ottica di urbanistica contrattata». Colpi di mortaio contro il progetto del policlinico per animali che il consigliere lancia appoggiato da una parte della maggioranza. Ma non tutti approvano l’iniziativa. «Non possiamo continuare a bloccare questo progetto fondamentale per la facoltà. Senza l’ospedale l’Europa non darà più validità alle lauree di veterinaria - spiega Agostino Giordo -. In ogni caso la questione dei quindici metri è marginale. Se si considerasse la strada di uso pubblico, come è previsto, il problema sarebbe superato». Una sfida all’ultimo comma tra Andria e Giordo che si sono affrontati armati di codici urbanistici e regolamenti edilizi. La querelle è solo l’ultima puntata di una telenovela che si trascina avanti da giugno. Nell’area di 132 mila metri quadri dovrebbero sorgere tre padiglioni dell’ospedale veterinario e un ampliamento dell’ala che ospita la facoltà di Farmacia. È prevista anche la costruzione di alcuni parcheggi. Secondo le norme dovrebbero essere utilizzabili da tutti. Ma per i consiglieri i posti auto sarebbero destinati solo a chi lavora nell’ateneo. La strada al centro della polemica dovrebbe collegare via Vienna fino al cuore della facoltà. Ugo Niedda aveva chiesto che la via venisse collegata con una bretella alla 131. «Diventerebbe un nuovo punto di accesso per la città - dichiara Niedda -, ma se non ci sono i requisiti perché venga considerata pubblica nasce un problema». I consiglieri ora aspettano il parere di Giuseppe Gaeta, l’ingegnere dell’università che ha presentato il progetto.
Luca Rojch
 
 
6 – Il Mattino
Università se il privato funziona
Fulvio Tessitore
Qualcuno potrà sorprendersi che io, senatore Ds, ex rettore di una grande e gloriosa Università statale (la più antica del mondo, come mi piaceva ripetere nei miei anni rettorali), tenace sostenitore della funzione pubblica dell’istruzione universitaria, intervenga a sostegno delle Università non statali e del Suor Orsola Benincasa, in particolare. Eppure ragioni di sorpresa non si danno e cercherò di mostrarlo. La difesa della funzione (non sto dicendo solo la «natura») pubblica delle Università non esclude, ed anzi richiede, un sistema armonico in grado di garantire specificità e competenze interagenti. E, dunque, anche un sistema complessivo dove pubblico e privato collaborino purché all’insegna di un comune rigore e di una comune preoccupazione per la destinazione della formazione universitaria. Ma c’è dell’altro nella mia idea di Università. Ho sempre ritenuto che fosse interesse di tutti assicurare un sistema nel quale, accanto alle Università generaliste (che non significa generiche), quali sono prevalentemente, le grandi e più antiche Università del nostro Paese come di tutta l’Europa, agisseroUniversità, per dir così, «particolaristiche». In altre parole, strutture rivestenti i requisiti della peculiarità e singolarità, nel senso di rispondere ad esigenze specifiche, inverate da una consistente tradizione in grado di preservare parti importanti della storia civile e sociale di un Paese e, specialmente, di un Paese come il nostro, che è pluralistico e pluricentrico. Le Università non statali rispondono, in genere, proprio a questa funzione. E il Suor Orsola, con la sua storia e la sua caratteristica, ne è un esempio. In anni passati, quando fui rettore della Federico II, proposi (invero con scarso successo, salvo che per le risposte del Suor Orsola) un modello campano di sistema universitario, che poteva profittare della presenza di almeno due consistenti università «generaliste» (ed una di grande storia e qualità) e di alcune Università di alta caratterizzazione.
Università come l’Orientale, il Navale e, appunto, il Suor Orsola, tutte capaci di assolvere una straordinaria funzione in una città come Napoli, posta al centro del Mediterraneo, porta privilegiata verso la cultura araboislamica all’insegna di una rigorosa e necessaria multiculturalità. Ricordo tutto ciò perché un recente provvedimento amministrativo del Ministero per l’Università (27/1/2005, n. 15) rischia di mandare all’aria, a mio giudizio, illegittamemente, questi pezzi di «peculiarità» e «singolarità» del sistema ancora garantiti dalle Università non statali, nel caso nostro il Suor Orsola. Infatti, il citato provvedimento ministeriale omologa Università statali e non statali nell’imporre «requisiti minimi» di docenza, incurante di tante cose, ad iniziare dal lungo blocco delle assunzioni, la penuria dei finanziamenti universitari e simili. Ma quel che è peggio è il piglio più che decisionistico, inquisitorio e repressivo del provvedimento, il quale prevede che la mancanza di tali requisiti minimi, da dichiarare entro il 30 marzo, comporta la revoca dell’autorizzazione a rilasciare titoli di studio aventi valore legale e la «deportazione» degli studenti iscritti a tali corsi presso altra sede universitaria, portando con sé il bagaglio dei crediti conseguiti. Solo chi non sa nulla di Università poteva escogitare qualcosa di simile (che mi auguro sia una «grida» di manzoniana memoria). Infatti, qual’è il rispetto dell’autonomia universitaria di simile provvedimento, assunto d’improvviso, dopo aver consentito tutto e il contrario di tutto venendo meno alla funzione programmatoria e di controllo propria del Ministero? E poi, questi controlli non vanno compiuti a monte e non a valle? E che senso ha questa scelta comportamentale quando, per quattro anni, s’è impedita l’assunzione di nuovi docenti e non si è adeguato il fondo di finanziamento? E che coerenza ha questa prescrizione con la conclamata richiesta di flessibilità e di convivenza tra docenza a contratto, che è quella cui maggiormente fanno riferimento le università non statali? Insomma un pasticcio, un provvedimento affrettato e non motivato, a mio credere illegittimo, che conferma come il nostro Ministero non abbia ancora capito che l’Università richiede interventi sistematici, consci della complessità e complessività del sistema. Insomma, un nuovo capitolo di un progetto di smantellamento, che questa volta colpisce Università non statali.
Fulvio Tessitore
(7.3.05)
 
 
 

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