Press review

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
24 March 2005
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI
UFFICIO STAMPA

 
1 – L’UNIONE SARDA
Lettere & Opinioni Pagina 17
La laurea che sostituisce l'Isef
Scienze motorie non forma terapisti
Ho letto in ritardo un articolo pubblicato qualche tempo fa col titolo "Non solo palestre per lo scienziato dello sport", nel quale si tenta di spiegare le finalità e gli indirizzi lavorativi della laurea in Scienze motorie, che è andata a sostituire il vecchio Istituto superiore di educazione fisica. L'articolo e il titolo contengono alcune affermazioni che, oltre a essere errate, possono ingenerare false aspettative nei giovani che si accingono ad intraprendere tale percorso universitario. In particolare l'occhiello recita: "Prevenzione e fisioterapia tra le competenze delle scienze motorie" o ancora: «Il laureato in questo settore si inserisce di solito in un'équipe di lavoro che comprende psicologi, fisioterapisti, medici». Facciamo una rapida distinzione: il laureato in Scienze motorie non è un professionista sanitario. Lo stesso Decreto legislativo numero 178 dell'8 Maggio 1998 sulla "Istituzione del corso di laurea in Scienze motorie", all'articolo 2, comma 7, recita testualmente: «Il diploma di laurea in Scienze motorie non abilita all'esercizio delle attività professionali sanitarie di competenza dei laureati in Medicina e chirurgia e di quelle di cui ai profili professionali disciplinati ai sensi dell'articolo 6, comma 3 del Decreto legislativo del 30 dicembre 1992, numero 502 e successive modificazioni». Fare riabilitazione è espressamente vietato nello stesso "atto di nascita" della professione del laureato in Scienze motorie; si può addirittura affermare che la stessa definizione della professione è data anche da questo limite di esercizio, ovvero è definita non solo per le competenze, ma anche per i limiti. A proposito del termine "riabilitazione", poi, nella nota del Miur indirizzata ai rettori delle Università, di "Indirizzo per i corsi di studio con denominazioni simili ai corsi di I e II livello delle professioni sanitarie" del 17 marzo 2003, il dottor Giovanni D'Addona, direttore del Dipartimento per la programmazione, il coordinamento e gli affari economici, ordina di «eliminare dalla denominazione del corso di Laurea di I o II livello le parole "sanitario, medico, analisi di laboratorio, dietista, riabilitazione" o, comunque, qualsiasi riferimento alle denominazioni previste nei Dd Ii del 2 aprile 2001 delle classi delle Lauree di I e II livello delle professioni sanitarie». A riprova che il termine, se non competenza esclusiva del fisioterapista, lo è sicuramente solo delle professioni sanitarie. Alla luce di queste precisazioni, credo sia importante ristabilire la corretta informazione, in un settore così delicato e in rapido cambiamento come quello della formazione universitaria. Vincenzo Ziulu Presidente Associazione Italiana Fisioterapisti Sardegna
 
2 – L’UNIONE SARDA
Pagina 43 - Gallura
Tempio Adesso è scontro alla Sperimentale: dichiarato lo stato di agitazione
È guerra aperta tra i dipendenti della Stazione sperimentale ed i vertici dell'Ente regionale. Al termine di un incontro al quale hanno partecipato gli rsu, Pino Ruiu e Adriana Vilia, insieme ai rappresentanti di Cgil e Cisl, il personale dell'Istituto di ricerca ha proclamato lo stato di agitazione. I dipendenti contestano le scelte degli attuali amministratori della Stazione sperimentale. Posizione, peraltro, spiegata nei giorni scorsi allo stesso assessore all'industria Concetta Rau. L'assemblea di tecnici e ricercatori, alla quale hanno partecipato tutti i dipendenti, ha sancito la rottura con il consiglio di amministrazione dell'Ente. Non si tratta di un fulmine a ciel sereno, si può dire che da anni ormai il personale non condivide alcune scelte di fondo dei vertici della Stazione. E non solo per quanto riguarda i concorsi portati a compimento, nonostante il blocco delle assunzioni deciso dalla Giunta regionale. I rappresentanti del personale della Stazione in diverse occasioni, negli ultimi mesi, avevano detto a chiare lettere di considerare sbagliata la scelta di ampliare la pianta organica con figure professionali non qualificate. Tecnici e ricercatori hanno sempre chiesto laureati e diplomati, per completare la pianta organica della Stazione sperimentale. E ora si è arrivati allo stato di agitazione che arriva quasi contemporaneamente con l'incontro dei rappresentanti sindacali con l'assessore Concetta Rau. A Cagliari, per l'Ente erano presenti gli rsu Pino Ruiu e Adriana Vilia, insieme ai responsabili di area, Agostino Pintus e Isabella Giua. I rappresentanti del personale non hanno fornito indicazioni sui contenuti dell'incontro, ma insieme all'assessore hanno parlato del ruolo dell'Istituto in vista della imminente riforma complessiva degli Enti regionali. Ma l'incontro ha toccato anche la questione delle funzioni della società Suberservice. (a. b.)
 
 

3 – LA NUOVA SARDEGNA
Pagina 23 - Fatto del giorno
Sassari: ormai non si può più aspettare 
Sanità, la speranza è legata al segnale di cambiamento 
I viaggi della speranza. Quel doloroso peregrinare, a volte, di nostri cittadini da un centro sanitario all’altro, spesso nel Continente, a volte anche all’estero, alla ricerca di una soluzione ai propri problemi di salute, problemi che le strutture sanitarie del loro territorio non sono in grado di risolvere. Sono una costante per la nostra isola, è inutile nasconderlo.
In contrapposizione vediamo l’assessore torinese alla sanità che va in giro per la Sardegna al fine di verificare di persona lo stato dell’arte della sanità sarda.
Organizza interessanti convegni e indica scadenze che poi non onora. Si vede ancora il direttore generale modenese che clandestinamente si intrufola nella fila dei pazienti che fanno il ticket, per poi dichiarare alla stampa che bisogna radere tutto al suolo e ricostruire l’ospedale daccapo. Magari nel paese dei balocchi.
E c’è poi una Commissione Sanità itinerante che va contemporaneamente in giro per la Sardegna perché a sua volta ci vuole vedere chiaro.
Anche questi sono forse viaggi della speranza.
Insomma, tutti vogliono sapere, vedere, toccare con mano (e tutto questo va bene), ma si ha l’impressione che ognuno intervenga per proprio conto. Non si ha la sensazione di un intervento coordinato. Notizie non controllabili danno addirittura la Regione in stretto dialogo con una holding milanese per la costruzione di un ospedale ad Olbia.
Tutto legittimo. L’importante ormai è parlare, discutere, fare dichiarazioni a volte anche strampalate, esprimere giudizi, intervenire sulla stampa. Un chiacchierio continuo e disordinato.
Unico intervento deciso, anche se maldestro, è stato quello che ha visto assegnare alla sanità del nord Sardegna 270.000 euro di finanziamento riguardo ai progetti di ricerca di educazione sanitaria, contro 1.230.000 euro assegnati a Cagliari, da una Commissione di «parte» che ha usato la spada dell’arroganza convinta di avere la verità nel cuore.
 E intanto mentre a Roma si discute, Segunto brucia. Le condizioni della sanità sassarese vanno ulteriormente deteriorandosi. Leggiamo tutti i giorni richieste di aiuto da parte di strutture sanitarie, di operatori del settore e di comuni cittadini. Si denuncia la condizione da terzo mondo di alcune realtà.
Tuttavia, la gente non vuole la luna, non pretende la costosa eccellenza, ma semplicemente un servizio sanitario di livello almeno nazionale. La gente chiede e pretende con forza la stessa protezione sanitaria del cittadino laziale o veneto.
La necessità è quindi di creare un background di offerta sanitaria accettabile, l’eccellenza si costruisce partendo da questa e non il contrario. L’attivazione del centro trapianti di fegato insegna. Chi lavora nel mondo della sanità e della formazione Universitaria aspetta un segnale di cambiamento, reale, incisivo, operativo e trasparente, perché la situazione è grave.
Non si può più aspettare. Gli stessi protocolli d’intesa giacciono, impolveriti e forse dimenticati, mentre la Regione chiede all’Università di aumentare il numero degli studenti da ammettere ai corsi delle lauree sanitarie. Tanto è l’Università, che con le poche risorse a disposizione deve da sola far fronte alle spese.
Malgrado tutto bisogna scacciare il pessimismo e sperare.
Si racconta in terra di Barbagia la storiella del pastorello filosofo che nel tentativo di guadare un fiume in piena viene travolto dalle onde. Mentre lotta fra i flutti solleva un braccio e rivolto ai pastori sulla riva escalama: «Inocche bi cheria su ponte» (tradotto: qui ci vorrebbe un ponte).
ordinario di Fisiologia Umana e Bioingegneria dell’Uomo alla facoltà di Medicina dell’Università di Sassari
 
4 – LA NUOVA SARDEGNA
Pagina 31 - Sassari
Pedagogisti: «Le leggi li tutelano» 
SASSARI. «Il pedagogista deve aver conseguito una laurea di secondo livello ad indirizzo specificamente pedagogico, e compiuto un percorso abilitante allo svolgimento di compiti organizzativi, gestionali, didattico-formativi e di coordinamento nelle istituzioni sociali ed educative. Non è quindi, almeno in teoria e quasi sempre nella pratica un “esperto di merendine”».
Il riferimento della delegata territoriale della Società Sarda di Pedagogia Alessandra Sanna è a un articolo pubblicato qualche tempo fa riguardante le proteste di alcuni educatori sulla scarsa considerazione per una professione importante. «Anche gli educatori - continua Sanna - devono conseguire almeno una laurea di primo livello (triennale), abilitante all’esercizio delle professioni educative; titolo che è certamente richiesto nei concorsi finalizzati allo svolgimento della professione di educatore nei vari enti pubblici. Va comunque ricordato che entrambe le figure citate trovano una precisa collocazione nel piano socio-assistenziale regionale e nei piani operativi regionali e nazionali.
Nella nostra regione è attiva da parecchi anni la Società Sarda di Pedagogia, che conta numerosi iscritti e persegue l’obiettivo di tutelare il loro profilo professionale attraverso le specifiche sezioni dell’albo; essa ha il compito di vigilare sugli eventuali abusi dell’esercizio professionale e quello di orientare i giovani laureati (ed anche i meno giovani) informandoli sulle opportunità occupazionali, oltre a quello di indirizzarli verso lo sbocco lavorativo più adeguato alle competenze acquisite.
 
 

5 – CORRIERE DELLA SERA
Dibattito sugli atenei
Vicepresidente di Confindustria
Rocca: basta burocrazia e più qualità Le università diventino imprese culturali
L’imprenditore: investire nello sviluppo e nell’accoglienza. Ma i cda devono avere coraggio
«Più coraggio». Gianfelice Rocca, presidente di Techint e vicepresidente di Confindustria, con delega per l'Education, la vede come una sfida: «Le nostre università per competere devono trasformarsi in vere e proprie "imprese culturali" che gareggiano a livello internazionale. Devono accettare maggiori responsabilità e rischi e chiedersi quali mezzi siano realmente necessari per raggiungere gli obiettivi». Vista da un manager: le università di Milano sono un valore aggiunto o un potenziale non sfruttato?
«Oggi la competizione è più che mai competizione intellettuale: per questo le università rivestono un ruolo basilare. Le imprese chiedono ai giovani qualità, capacità innovativa, una laurea conseguita in tempi brevi. Questi fattori vengono garantiti dagli studi ma anche dall’ambiente in cui si studia, che deve essere trasparente, meritocratico, internazionale».
Tutto questo avviene?
«A me pare che gli atenei milanesi si siano appannati sulle capacità. Eppure nel nostro sistema industriale le università sono interlocutore imprenditoriale: possono diventare motori del cambiamento».
Ma bisogna lavorarci. Da dove si parte?
«Il punto di partenza deve essere l’approfondimento del dibattito sull’autonomia e sugli organi di governo dell’università. Occorre nominare consigli di amministrazione non numerosi in grado di essere forti e responsabili promotori del rinnovamento. Darei anche più importanza al ruolo dei rettori, che oggi rappresentano una nuova tipologia di management: anche per questo, non dovrebbero essere eletti solo da docenti».
Lei parla di sfide. I rettori dicono che mancano soldi. Come ne usciamo?
«Il deficit di finanziamenti è un dato di fatto, ma è anche enorme la possibilità di usare meglio quello che c’è. Quindi, direi che si potranno reclamare più soldi soltanto quando si avrà la certezza di una cambiamento radicale nell'organizzazione del mondo universitario. Guai anche ad aumenti di finanziamento a pioggia: sosteniamo i successi con i fondi aggiuntivi e aiutiamo chi merita».
Perché lei invoca più coraggio?
«Perché bisogna essere meno timidi nell’affrontare le sfide del cambiamento. In questa fase, ci si aspetterebbe che le università milanesi siano al centro di un dibattito. Ma bisogna rapportarsi con i migliori atenei, almeno d’Europa».
Ad esempio?
«Chiediamoci come vanno le nostre università rispetto ad altre università tecniche di eccellenza. Per esempio, nel caso degli ingegneri, dobbiamo confrontarci con Zurigo, Losanna, Aachen, Darmstadt, München, École Politecnique, Catalogna, Madrid, Delft, Duvène, Royal Politecnico di Svezia, Trondheim in Norvegia, Baumann a Mosca, Helsinki».
Ragioniamo sui mezzi: in che modo le nostre università diventano competitive?
«Rispondo con altre domande: è possibile essere competitivi con questi vincoli burocratici e corporativi? Non mi si dica che c’è la riforma: perché è timida la riforma e timido il supporto che le università milanesi forniscono a questo cambiamento. E poi: ha senso il valore legale del titolo? Fintanto che le università saranno distributrici di un titolo che poi viene usato dalla pubblica amministrazione e dagli ordini, questo elemento sarà di freno. E il reclutamento dei professori? Perché non reclutare i propri docenti nell’ambito degli idonei?».
Vincoli corporativi, valore legale del titolo, carriere dei docenti... Dottor Rocca, non sta puntando troppo alto?
«Visto che i nostri concorrenti sono quelli che abbiamo citato prima, non dobbiamo farci trascinare al ribasso. Piuttosto, facciamo a Milano ragionamenti politicamente non corretti: anche sui fondi».
Cioè?
«Lancio una provocazione: le Università milanesi sarebbero disposte a farsi giudicare da organi autonomi per accedere ai fondi messi a disposizione, per esempio, dalla Regione?».
Come giudica i neo laureati milanesi?
«Le nostre università producono ancora molti studenti eccellenti. Certo, soprattutto per chi consegue la laurea breve è più difficile riassorbire le carenze della scuola secondaria: direi che quello che manca davvero è un metodo di studio e di approccio alla conoscenza».
Milano è una città accogliente per chi vuole studiare?
«Non molto, soprattutto per il problema della casa. Ma facciamo attenzione: questi aspetti sono sicuramente utili ma non sono quelli che trasformano le università».
Che compito hanno le istituzioni?
«Soprattutto la Regione. Intanto perché potrebbero muovere cifre non grandi ma sufficienti per dare il senso di un’influenza sul sistema. In secondo luogo, potrebbe indurre le Università ad affidarsi a sistemi di valutazione autonomi, accettando la comparazione con i migliori atenei d’Europa. Infine, le Regioni potrebbero finanziare aree specifiche della ricerca legate alla struttura economica del territorio si potrebbero concentrare i fondi su progetti specifici: Insomma: cominciamo in Lombardia a finanziare il successo e i meritevoli. Più coraggio, appunto».
 
Gianfelice Rocca, laureato in Fisica a Milano e specializzato alla Harvard Business School, è presidente del Gruppo Techint e dell'Istituto Clinico Humanitas. Come vicepresidente di Confindustria, ha la delega per l’Education: è membro della Trilateral Commission e dello European Advisory Board dell’Harvard Business School e del Comitato Esecutivo di Aspen Institute
Servono più alloggi, spazi ricreativi e una buona rete di trasporti
Milano rivaluti l’università. Non crea la nuova classe dirigente
L’università ha perso punti. Molti laureati non avranno un futuro
Rinnovamento urgente, non è un dramma perdere matricole
 
6 – CORRIERE DELLA SERA
La conclusione dopo una serie di ricerche di scienziati australiani «Chi ama vive di più. Sospende il tempo» Non solo «amore romantico e carnale» ma ogni attività in cui si è «totalmente concentrati». E chi non ama nessuno? Meditazione
SYDNEY - Chi ama, vive di più e meglio. Non è un proverbio ma il risultato di una serie di ricerche passate al vaglio da scienziati australiani. L'amore non sarà tutto nella vita, ma di certo aiuta anche a vivere più a lungo, perchè rallenta l'orologio biologico. E questo spiega in parte perchè le donne sono più longeve, aggiungono i ricercatori australiani.
Il professore di medicina complementare Marc Cohen, dell'università di tecnologia di Melbourne, ha spiegato giovedì ad una conferenza su salute e longevità a Brisbane, che vi sono evidenze multiple per affermare che l'amore, specie se abbondante, è un fattore primario di vita lunga e di alta qualità. Ha sottolineato però che non si riferisce solo all'amore romantico e carnale ma lo definisce come «ogni attività che ci fa sentire come se il tempo si sia fermato».
Quindi chi ama il giardinaggio, o la pittura, o i videogiochi, e vi si immerge al punto di dimenticarsi di mangiare, si apre la strada verso la longevità. Avrà invece dei problemi chi odia il proprio lavoro e passa la giornata a guardare l'orologio, che si avvicina lentamente all'ora di staccare.
«Tutte le attività in cui si è totalmente concentrati e si perde la nozione del tempo sono attività di amore», ha spiegato Cohen. «Vi sono crescenti prove cliniche che queste attività aiutino ad allungare la vita». Questo spiega anche perché le donne generalmente vivono più a lungo degli uomini. «Le donne operano con i bambini che hanno bisogno d'amore, la loro occupazione principale è l'amore. È logico che vivano di più, perchè nella loro vita c'è più amore».
Lo studioso ha citato una ricerca negli Stati unti in cui i conigli accarezzati e coccolati dagli assistenti di laboratorio vivono il 60% più a lungo degli altri, alimentati con la stessa dieta ad alto contenuto di grassi. Un altro studio su 1.000 uomini israeliani che soffrivano di cuore ha concluso che quelli che si sentivano amati dalla moglie o compagna accusavano il 50% di meno di angina e di attacchi cardiaci rispetto ai pazienti con problemi nella relazione. Un terzo studio della Fondazione australiana per il cuore indica che l'isolamento sociale e la mancanza di un gruppo di supporto sono fattori significativi nelle malattie cardiache quanto il colesterolo alto, la pressione alta e il fumo. «Le connessioni sociali positive sono di per sè una potente terapia», ha dichiarato.
E per gli sfortunati che al momento non hanno nessuno da amare e sono soli, il consiglio dello studioso è di praticare la meditazione, come maniera efficace per stimolare quella magica sensazione che il tempo si sia fermato.
 
7 – CORRIERE DELLA SERA
La Sapienza apre le porte alla Cina
Il rettore all’inaugurazione dell’anno accademico: scambi culturali, borse di studio e il Centro Confucio
Le parole di Vittorio Bachelet, nipote del giurista ucciso: senza un fisco serio, l’aumento delle tasse limita il diritto allo studio
Il rettore dedica all’argomento solo un passaggio: «Particolare attenzione verrà data ai programmi di cooperazione e interscambio scientifico, didattico e culturale con le istituzioni universitarie cinesi». È l’inaugurazione dell’anno accademico della Sapienza, e nell’intervento del Magnifico, Renato Guarini, evidentemente non c’è tempo per entrare nel dettaglio. Dopo, sì. È così che si scopre che «la nuova frontiera», per usare le parole del preside di Studi Orientali, Federico Masini, è proprio quella, la Cina. Non c’è un embargo in mezzo, e non ci saranno missioni di Condoleezza Rice: è deciso, quello tra Sapienza e Cina è un ponte che già esiste e che sarà rinforzato. Dal prossimo anno, ecco borse di studio e un centro studi romano con finanziamenti cinesi. Ma non è che l’inizio. «Il prossimo anno - spiega Masini - si costituirà questo centro Confucio per la diffusione della lingua e della cultura cinesi. Noi metteremo le strutture, loro i finanziamenti». Non è che uno degli «interscambi», come dice Guarini. Prima di altro futuro, però, ecco un po’ di presente: «Alla Sapienza, dopo l’inglese e lo spagnolo, c’è il cinese. È la terza lingua studiata - sostiene, con un tono soddisfatto, Masini - abbiamo 150 matricole ogni anno, un boom inatteso. Si può dire che gli studenti abbiano capito, prima di molti altri, da quale parte va il mondo...». È così che nel giorno della tradizioni, delle stole d’ermellino, si scopre che parte del futuro della Sapienza, va in una direzione esatta: «Nel fondo straordinario dato alla nostra università per i 700 anni - annuncia Masini - abbiamo 135 mila euro per borse di studio a studenti cinesi. Si tratta di una cifra già in bilancio, che sarà trasformata in ospitalità per studenti asiatici dal prossimo anno». L’obiettivo di fondo è «intercettare gli studenti cinesi in quei settori per i quali La Sapienza può offrire una formazione d’avanguardia». Eccoli, tra gli altri, i settori. Architettura, Ingegneria, Medicina: facoltà che, guarda caso, hanno già avviato corsi e master destinati proprio a quel Paese. Dalla Cina, come detto, arriveranno studenti meritevoli premiati con borse di studio. «Il problema su operazioni di questo tipo ma in grandi numeri, è l’accoglienza», dice Masini. Ed è talmente evidente che lo stesso Guarini, del discorso, punta l’indice proprio su quest’aspetto, gli alloggi, anche per gli studenti italiani. Guarini, ha chiesto con forza un’ inversione di tendenza «rispetto al disimpegno dei governi, all’improvvisazione della politica, alla cattiva gestione delle risorse». Ha parlato di rilancio della Sapienza, Guarini: tra i prossimi progetti dell’ateneo, «Tele-Sapienza» e una radio. Ovviamente, la preoccupazione principale è per i finanziamenti: «Consentono a malapena la sopravvivenza». Al suo fianco, Vittorio Bachelet, matricola a Giurisprudenza, che porta il nome del nonno, docente ucciso dalle Brigate Rosse. Il ragazzo, che alla vigilia ha chiesto il permesso di non indossare la cravatta, ha usato toni pacati e concetti forti: «Finché non avremo un fisco serio, ogni ogni aumento delle tasse universitarie si risolverà in un’ulterioere riduzione del diritto all’accesso all’università dei capaci e meritevoli». Alcune segretarie, l’hanno ascoltato impassibili. Senza conoscere, per loro stessa ammissione, la vita di suo nonno, né la sua morte.
Alessandro Capponi
 
8 - CORRIERE DELLA SERA
L’INTERVENTO
Una rete tra gli atenei nel segno dell’innovazione
Il problema del ruolo delle università lombarde fa tutt’uno, oggi, con la reinterpretazione del territorio lombardo quale rete di identità molteplici e diversificate. Oggi in Lombardia ci sono tante università, e ogni città di un certo peso valorizza i suoi corsi di laurea tradizionali e si impegna per aprire nuovi corsi di laurea. D’altra parte Milano stessa - invece di «svuotarsi» parzialmente rispetto a questo processo di decentramento - moltiplica e diversifica al massimo le sue offerte formative. La diversificazione e la moltiplicazione delle esperienze consente di esplorare uno spettro di possibilità che esperienze più standardizzate, per quanto eccellenti, non potrebbero nemmeno toccare. Ma perché questa diversità produca innovazione, i singoli itinerari di ricerca devono essere comunicati e integrati. Senza l’obiettivo strategico della costruzione della rete, il valore delle esperienze delle università lombarde rischia di restare a un livello virtuale. Le università lombarde dovrebbero essere all’avanguardia nel porre il dibattito della reinterpretazione del territorio lombardo come rete, nella costruzione di una regione che definisce la sua identità non attraverso il confine fra un «dentro» e un «fuori», ma attraverso la qualità e la quantità dei circuiti e delle relazioni locali, nazionali e internazionali che riesce ad annodare. E invece le università non soltanto sono sconnesse da questo dibattito, ma sono esse stesse atomizzate, provincializzate, separate da barriere anacronistiche, immerse in una concezione antica del territorio. Oggi che tutto si delocalizza le università rischiano localizzarsi, di essere frenate da una fedeltà al «luogo» staticamente inteso! Già nella vita di ogni singola università uno degli aspetti più sconcertanti - e più dannoso, per una politica dell’innovazione - è la quasi totale assenza di luoghi e di tempi deputati allo scambio dei contenuti e delle esperienze fra diversi docenti, fra diverse discipline.
Anche questo, del resto, dipende da un’antica idea del territorio, dall’idea che le singole discipline siano spazi separati da presidiare e da non contaminare. Ma oggi una delle politiche delle istituzioni regionali non dovrebbe forse essere quella di creare le condizioni urbanistiche e le motivazioni adeguate perché la diversità dei saperi coltivati nelle università di tutta la Lombardia abbiano occasioni periodiche e rituali per incontrarsi, per fare bilanci sullo stato dell’arte, per tracciare nuove piste di ricerca e formazione? La Milano dei grandi progetti non dovrebbe elaborare piazze ed agorà della cultura in cui le università stesse inizino a pensarsi come unite senza rinunciare ad essere autonome? In una città-regione reticolare non ha senso che ogni parte aspiri a divenire il tutto. Le università devono necessariamente specializzarsi, ma la specializzazione apre all’esigenza dell’integrazione, della creazione di aggregazioni a geometria variabile, mutevoli a seconda dei problemi e degli obiettivi in gioco e delle competenze individuali e collettive.
Mauro CERUTI
Università degli Studi di Bergamo
 

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