Press review

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
16 April 2005
Ufficio Stampa
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI

 
1 – L’Unione Sarda
Pagina 13 – Lettere & Opinioni
L'opinione L'angusto dibattito sull'eterno Rettore
di Paolo Pani*
Nei diversi progetti di riforma universitaria, quelli ministeriali e quelli suggeriti, almeno nelle linee generali, dalle diverse parti del mondo accademico, non compare mai un approfondimento sulla carica rettorale, se non in modo molto marginale e contingente. Il lungo e faticoso processo di "democratizzazione" dell"'Università italiana ha compreso, ma forse in modo subordinato, anche i meccanismi elettorali della nomina del Rettore, delegati, oggi, alle norme statutarie dei singoli Atenei. Vediamone i risultati. I Rettori sono eletti, oggi, da un ampio corpo elettorale, che comprende dal corpo docente ai rappresentanti del personale tecnico-amministrativo e degli studenti. In altre parole è un meccanismo che, con buona approssimazione, possiamo definire di "democrazia diretta" e di "politica del consenso democratico". Tale meccanismo ha permesso una più larga partecipazione politica di tutte le componenti universitarie contro l'antica gestione "verticistica" del periodo dei "baroni universitari". Sarebbe stato però auspicabile che questa tendenza fosse stata accompagnata dalla persistenza, nell'Università, di un continuo movimento politico-sindacale riformatore, che però si è fortemente attenuato, appiattendosi forse nei modi della conservazione e negli eccessi di spirito corporativo. È opportuno, a questo punto, chiarire alcuni concetti: da una parte il carattere, originario, "critico" (anche propositivo, quello definito altrimenti come "cultura") del ruolo universitario e dall'altra la necessità "tecnica" di un processo riformatore al suo interno. Il carattere di "cultura" della nostra Università (di autonomia e di libertà della ricerca) è istituzionale: è, infatti, sancito nella nostra Carta costituzionale. È un carattere che non può certamente esaurirsi nell'Università dei ""movimenti", i quali rappresentano, nella storia universitaria, episodi pur significativi, ma contingenti. D'altra parte, la stessa Conferenza nazionale dei Rettori riflette il carattere "partecipativo" dell'attuale Università, di "politica del consenso", ma forse, oggi, definibile meglio come "consenso corporativo", che segna la sua distanza dal rigore degli interessi istituzionali (della "cultura" universitaria). Questa tendenza è nazionale, ma è tanto più evidente negli Atenei della periferia (vi comprendiamo quelli di Cagliari e Sassari), in un periodo della storia universitaria di eccessi di localismo accademico. Si è detto di una caduta di una tensione riformatrice e di rigore istituzionale, ai diversi livelli a partire dalla stessa carica rettorale. A Cagliari, il dibattito è, infatti, molto angusto, confinato al nome di un singolo Rettore, che ripropone se stesso ai limiti di una ragionevole decenza istituzionale. Un processo riformatore può, anzi dovrebbe, partire all'interno dell'Università. Le elezioni per il Rettore potrebbero rappresentare un'occasione se solamente il corpo dei docenti riuscisse ad uscire dalle strettoie del "consenso corporativo", di una difesa acritica delle carriere e degli interessi particolari, ed a individuare le necessarie priorità, in primo luogo quelle dell'efficienza amministrativa e gestionale.
*Professore ordinario Facoltà di Medicina e Chirurgia Sezione di Patologia sperimentale Università di Cagliari
 
 
 
2 – L’Unione Sarda
Pagina 9 – Economia
Nonostante i segnali di miglioramento
Certificazione di qualità, Sardegna ancora debole
Il comparto agro-alimentare e i servizi alle imprese nell'isola sono i settori che hanno fatto registrare il miglioramento più significativo. Questo è quanto emerso dal secondo rapporto sulla certificazione di qualità in Sardegna che ha messo in luce il fatto che, per quanto riguarda la diffusione della certificazione ISO 9000, va assolutamente confermata la debolezza dell'isola rispetto alle altre regioni italiane e allo sesso Mezzogiorno, ma ciò nonostante alcuni settori stanno riscontrando un trend positivo. In particolare, il comparto agro?alimentare, che negli ultimi anni si è aperto sempre più ai mercati esterni, spinto dalle politiche dei servizi reali, allineato alle medie nazionali. Lo studioQuesto secondo rapporto, un lavoro a più mani, realizzato da Item, Crenos (Centro Ricerche Economiche Nord Sud delle Università di Cagliari e Sassari) e Disaaba (Dipartimento di Scienze Ambientali Agrarie e Biotecnologiche Agro?Alimentari), ha permesso di aggiornare il precedente quadro conoscitivo, rilevato con il primo rapporto, e di approfondire alcuni importanti aspetti della certificazione in Sardegna. Questo fenomeno è stato esaminato per la prima volta nel 2003, e il rapporto è stato articolato in due parti. La prima ha come oggetto la diffusione della certificazione in Sardegna con riferimento agli standard ISO 9000 e ISO 14000. L'indagine ha riguardato le province e i settori di attività economica e il confronto di questi con altre aree e regioni italiane. «La seconda parte», ha spiegato Giovanni Sistu del Crenos, «rappresenta invece il risultato di un'indagine sul campo, realizzata somministrando un questionario a un campione di imprese che hanno ottenuto la certificazione ISO 9001. In questo modo, si sono potute individuare le motivazioni alla base dell'adozione dello standard e valutarne i costi e i relativi benefici». La certificazioneLa certificazione di qualità è una modalità attraverso cui le organizzazioni intendono garantire all'esterno la capacità di rispettare gli impegni assunti verso i clienti ed è ormai considerata un presupposto di base per la competizione sui mercati globali. «Nell'indagine», ha precisato Emanuele Cabras dell'Item, «è stata data particolare importanza anche alla certificazione volontaria dei sistemi di gestione». RisultatiL'indagine, effettuata su un campione rappresentativo (216 imprese sarde certificate), ha messo in evidenza che, nonostante il processo per ottenere la certificazione sia spinto da esigenze di mercato, il maggior vantaggio che le attività di impresa ricavano dagli standard ISO 9000 è senza dubbio legato ad aspetti organizzativi. «Questo soprattutto per il fatto che», ha continuato Giovanni Sistu, «la maggior parte delle imprese isolane è di piccole dimensioni, si concentra sul mercato regionale e su una clientela privata. Infine», ha concluso, «il 60% delle aziende dichiara di avere un beneficio economico che però non deriva dall'aumento degli acquisti, ma dalla diminuzione delle lamentele da parte della clientela».
Eugenia Rinaldi
 
 
3 – L’Unione Sarda
Pagina 35 – Ogliastra
Devastato un nuraghe da valorizzare
 
Il nuraghe Ursu, preso di mira dai tombaroli è sull'altopiano di Taccu, in territorio di Lanusei. Il comune ogliastrino è destinatario di finanziamenti per la tutela dei siti archeologici. «Sarebbe opportuno destinare fondi - sostiene Michele Castoldi - alla messa in sicurezza e al recupero del nuraghe Ursu». Un esempio di tutela è l'attività finanziata dall'università degli studi di Sassari con la supervisione scientifica della professoressa Maria Grazia Melis, docente di paletnologia dell'Università di Sassari e seguito dal Comune di Barisardo attraverso l'assessore alla Cultura Roberto Pilia. Riguarda il censimento e la catalogazione informatica dei siti archoelogici.
 
 

 
4 – La Nuova Sardegna
Pagina 3 - Olbia
SANITÀ 
Università, un convegno sulle malattie cardiovascolari
  OLBIA. Le nuove tecniche di intervento cardiologico: più veloci da eseguire, meno problematiche e, soprattutto, meno pericolose per il paziente. Si parlerà anche di questo, questo pomeriggio, nell’aula magna dell’università all’aeroporto Costa Smeralda: è qui che si svolgerà il meeting «Nuovi orientamenti nei trattamenti delle malattie cardiovascolari». Parteciperanno, tra gli altri, i migliori cardiochirurghi del Villa Torri di Bologna che hanno cominciato un tour nell’isola: prima tappa a Cagliari e ora a Olbia. I lavori del convegno, organizzato dall’Unità di terapia intensiva e servizio di Cardiologia dell’ospedale, cominceranno alle 15. Sarà il primario Piero Zappadu, che farà la parte del moderatore, a fornire i primi dati. Quelli che interessano soprattutto il territorio della Asl 2: non prima di aver comunicato i numeri relativi alle procedure cardiologiche e e agli interventi cardiochirurgici nei centri di riferimento per la Gallura (Sassari e Cagliari).
 «Per quanto riguarda olbia - spiega Piero Zappadu - presenterò una relazione sull’incidenza dell’infarto miocardico in Sardegna, con dati che riguardano ciascuna Asl. Un lavoro, questo, che risale al 1999 dopo il quale però non c’è stato aggiornamento. Un esempio: nella nostra Asl l’incidenza degli infarti rispetto al numero della popolazione è superiore alle altre aziende dell’isola. C’è un motivo, però. Anzi due: il vertiginoso aumento della popolazione durante la stagione estiva e il numero dei domiciliati che non hanno la residenza. Ancora: un elemento importante è il basso tasso di mortalità per infarto a Olbia. Le spiegazioni possono essere diverse: nella nostra zona gli infarti colpiscono persone più giovani e, nello stesso tempo, l’intervento all’interno dell’ospedale, dal momento in cui il paziente arriva al pronto soccorso, è tempestivo: siamo in grado di fare tutto ciò che è necessario nel giro di 10, 20 minuti al massimo. E considerato che il fattore tempo è fondamentale, riusciamo a raggiungere ottimi risultati».
 Piero Zappadu prenderà anche in considerazione le motivazioni che giustificherebbero la nascita di un centro di emodinamica a Olbia. «In Sardegna - dice ancora il primario - ce ne sono quattro: due a Cagliari, una a Carbonia e una a Sassari. Ne sta per nascere uno anche a Nuoro. Ebbene: quando ci sono 600 coronarografie un terzo delle quali determinano angioplastiche, serve l’emodinamica. Nel caso della nostra Asl ci sono molti fattori da tenere in considerazione: l’imminente istituzione della provincia, il traffico portuale e aeroportuale e le distanze che ci separano da Nuoro e Sassari».
 Il convegno di oggi, al termine del quale verrà consegnato un attestato di partecipazione, si concluderà intorno alle 20,30.
 
 
 
5 – La Nuova Sardegna
Pagina 2 - Cagliari
Qualità, la corsa alla certificazione 
Le aziende col bollino dell’Ue «poche rispetto alla Penisola»
  CAGLIARI. Certificazione di qualità: in Sardegna è Cagliari la provincia che nell’ultimo anno si è vista lasciare il maggior numero di attestazioni sulle garanzie offerte dalle aziende. In generale nell’isola la situazione è migliorata rispetto all’anno scorso, ma se paragonata al resto d’Italia, e allo stesso Mezzogiorno, la constatazione è una sola: la situazione è di estrema debolezza. A dirlo è il “secondo rapporto sulla certificazione di qualità in Sardegna”, stilato da Item, Crenos (Centro ricerche economiche Nord Sud), Università di Cagliari e Sassari, e Dipartimento di scienze ambientali agrarie e biotecnologie agroalimentari.
 Nel 2004 il numero di certificazioni Iso 9001 (sigla che definisce i requisiti di organizzazione necessari a un’azienda per soddisfare al meglio le esigenze del cliente) che organismi accreditati hanno rilasciato nella provincia è stata pari a 644: il 47,1 per cento del totale.
Seguono la provincia di Sassari con 426 certificazioni, quella di Nuoro con 202 e quella di Oristano con 95. Il rapporto è stato presentato ieri sera a Scienze politiche, e a ben guardare i dati raccolti dicono molto altro. Dicono ad esempio che la provincia di Cagliari è prima anche nel numero di certificazioni di qualità distribuite in base alla ripartizione secondo le nuove province: ha nelle sue mani infatti il 39 per cento delle aziende che hanno ottenuto riconoscimento, mentre le province del Medio Campidano, dell’Ogliastra e Iglesias-Carbonia si presentano più deboli con rispettivamente 65,38 e 57 certificazioni. Ancora: secondo il rapporto presentato ieri i comparti che hanno registrato le migliori prestazioni sono quello delle costruzioni (registra il 33 per cento dei certificati emessi), del commercio, e dell’istruzione. Risultati positivi anche per la Iso 14.000, certificazione ambientale che attesta non solo che l’impresa opera nel rispetto delle norme sull’ambiente, ma che fa anche di più, usando ad esempio sistemi produttivi meno inquinanti, o facendo un uso più intelligente delle risorse, come ad esempio dell’acqua. Anche in questo caso la palma per il maggior numero di certificazioni va alla provincia di Cagliari col 44 per cento del totale, seguita da Sassari (25,9 per cento), Nuoro (22,4 per cento) e Oristano (7,8 per cento). Se nella maggior parte dei casi, il motivo che spinge l’azienda a chiedere la certificazione è quello di ottenere una maggior fiducia da parte della clientela, e quindi un incremento delle vendite, nei fatti a guadagnarci veramente sono soprattutto gli aspetti organizzativi e produttivi. Insomma, il trend è in crescita ma nonostante tutto i numeri sono lontani dalla media nazionale: solo per le certificazioni 9001 la Sardegna rappresenta l’1,7 per cento del totale nazionale. Colpa delle nostre imprese, poco interessate a vedersi riconosciuta la qualità? «No, colpa piuttosto del nostro mercato ancora troppo chiuso», osserva il presidente del Crenos, Raffaele Paci. Conferma tutto Emanuele Cabras, consulente dell’Item, secondo cui in un mercato globale, dove la competitività è fondamentale per lo sviluppo delle imprese, la Sardegna si presenta con «un tessuto produttivo ancora troppo debole».
Sabrina Zedda
 
 
 
6 – La Nuova Sardegna
Pagina 51 - Cultura e Spettacoli
Si è svolto a Cagliari un convegno di studi su un conflitto al di là del tempo: l’uomo e il male 
Avere il diavolo in corpo
Le oscure pulsioni dietro i soprusi contro i propri simili 
 Intervista con Alessandro Bucarelli, direttore dell’istituto di medicina legale dell’università di Sassari «Siamo tutti potenziali criminali, la violenza alberga dentro di noi»
 ANDREA MASSIDDA
 Non erano malati di mente gli hutu che nel ’94 in Ruanda hanno massacrato a colpi di machete un milione di tutsi. O i responsabili dell’eccidio di bambini alla scuola di Beslan, in Ossezia, appena sette mesi fa. Esattamente come non lo erano gli autori di tutti gli olocausti della storia, Shoah in testa. Il fatto è che ognuno di noi si porta dentro la propria «bestia». Alessandro Bucarelli, direttore dell’Istituto di Medicina legale all’Università di Sassari, allarga le braccia e conferma. Anzi, aggiunge: «E’ dimostrato che in determinate situazioni il male può manifestarsi all’improvviso anche nella persona più mansueta: spesso a macchiarsi dei gesti crudeli sono proprio i cittadini insospettabili». Affermazione inquietante che suscita sempre curiosità. Forse è per questo che Bucarelli, approfittando dell’inaugurazione della mostra sugli strumenti di tortura (a Cagliari negli spazi del centro culturale «Il Ghetto»), sabato scorso ha organizzato un seguitissimo convegno dal titolo, appunto, «L’uomo e il male». Con lui, nel ruolo di relatori, il sociologo Alberto Merler, l’anatomo-patologo Gavino Faa, i giuristi Paolo De Angelis, Francesco Sitzia e Federico Palomba. «Il mio lavoro di medico legale e di criminologo mi porta a incontrare il male e il dolore tutti i giorni - spiega Bucarelli -. E’ normale, quindi, che io abbia cercato di approfondire il tema del comportamento aberrante, della perfidia, della brutalità».
 - Professor Bucarelli, che cos’è il male?
 «Dipende. Il male lo si può definire sul piano filosofico e sul piano teologico. Campo, quest’ultimo, nel quale forse è più semplice dare risposte. Ma dal punto di vista pratico, quello dell’uomo comune, il male non ha una precisa definizione. Lo si può inquadrare soltanto contrapponendolo al bene, che invece è facilmente spiegabile con il senso del benessere, della gioia, dell’estasi. In questa chiave, il male implica disordine nell’armonia del mondo, nella natura e nell’uomo».
 - Ma davvero siamo tutti potenziali criminali?
 «C’è un testo di Richard Glickman Simon, docente di psichiatria alla Georgetown Medical School di New York, che s’intitola “Gli uomini malvagi compiono ciò che quelli buoni sognano”. E’ duro ammetterlo, eppure le cose stanno proprio così. Ma la risposta alla sua domanda si trova anche nel pamphlet della giornalista Hannah Arendt, “La banalita del male”, che racconta del processo al nazista Adolf Eichmann, nel ’62. Quest’uomo grigio e poco appariscente, autore di crimini efferati, spiegava con naturalezza ai giudici di aver rispettato soltanto la sua ideologia e quindi di non sentire affatto il dovere di pentirsi. Citerei poi il libro “Un terribile amore per la guerra”, nel quale l’autore James Hillman sostiene che la violenza appartiene alla nostra anima e che con essa vi è un vero rapporto d’amore. Un rapporto che niente è stato capace di soppiantare».
 - Quindi?
 «Quindi il male c’è e bisogna isolarlo, circoscriverlo. Purtroppo, in guerra, dove i soldati sono autorizzati a commettere atti atroci, le nefandezze non hanno limiti».
 - Il nostro codice penale come si rapporta con il male?
 «Ha una propria configurazione del male nelle aggravanti previste dall’articolo 61, quello che si riferisce ai delitti perpretati per motivi abietti, all’uso delle sevizie, alla depravazione, all’umiliazione sessuale».
 - Però manca ancora una legge specifica sulla tortura. Dopo lo scandalo dell’emendamento della Lega che sostituiva l’espressione «violenze o minacce gravi» con «violenze o minacci gravi e reiterate» il testo è tornato in Commissione Giustizia. Ed è fermo lì.
 «Che dire? Le diatribe parlamentari sui formalismi eccessivi rischiano di portare anche a questo tipo di arretratezza, di inciviltà».
 - La pratica della tortura è antica quanto l’uomo?
 «Sì, ma nel passato, prendiamo ad esempio il periodo dell’Inquisizione, la tortura ha avuto quasi sempre l’obiettivo di far espiare al reo i suoi peccati. Oggi la logica è cambiata e non si usano più certe macchine diaboliche. In compenso si obbliga il soggetto che deve confessare a rimanere per ore in piedi con la faccia rivolta verso il muro. Oppure gli si crea una deprivazione sensoriale immergendolo in una camera buia, assolutamente afona e con pareti leggere. Gli studi fatti in questo campo rivelano che si tratta di una violenza terribile: il malcapitato percepisce la morte».
 - Davanti ai “classici” strumenti di tortura, invece, quale caratteristica colpisce di più un medico legale?
 «In generale il fatto che siano stati studiati per generare dolore non solo fisico, ma anche psichico».
 - Ma perché c’è chi sente il bisogno di tormentare, umiliare, violentare esseri inermi?
 «Spesso, in chi non ha un proprio ruolo culturale, sociale e relazionale, avere la percezione di poter dominare un’altra persona può generare un senso di gratificazione mostruoso, aberrante, ma certamente intenso. Negli anni Sessanta uno psichiatra americano svolgeva esperimenti di elettrochoc per attenuare l’aggressività dei detenuti. Per fortuna nostra non riuscì a dimostrare la sua tesi, ma si accorse di un fatto altrettanto inquietante».
 - Che cosa scoprì?
 «Scoprì che i suoi assistenti incaricati di stimolare elettricamente i detenuti si sentivano sadicamente gratificati nel vedere gli spasmi del dolore di quei poveretti. Furono loro stessi a confessarglielo».
 - Possibile?
 «Già. Erano consapevoli di provocare un dolore atroce, ma il fatto di non sentirsi direttamente responsabili li sollevava dalla questione morale e lasciava spazio a un senso di piacere. Nel carcere di Abu Ghraib, in Iraq, è accaduta più o meno la stessa cosa».
 - L’opinione pubblica è rimasta scioccata nel constatare che tra gli aguzzini dei prigionieri c’erano anche soldatesse.
 «Secondo una convinzione mitica la figura femminile è debole, meno incline agli atti di forza. Ma l’immagine di una soldatessa che addirittura si pavoneggia mentre esegue una tortura è l’ulteriore dimostrazione di quanto dicevo: non c’è limite per l’eviscerazione del male. Anche una donna può commettere gesti efferati quando è investita di autorità e si sente legittimata a farlo da una divisa. Proprio come chiunque altro essere umano».
 
 
 
7 – Corriere della sera                                         
«Investire su cervelli e infrastrutture» L’ospedale dei primati lancia la sfida
Pavia, i responsabili del San Matteo: ricucire il rapporto fra ricerca e industria
DAL NOSTRO INVIATO
PAVIA - Cure e ricerca. L’eterna vocazione del Policlinico San Matteo di Pavia. Dove l’anima del medico affianca quella dello scienziato. Un’isola quasi felice: terra di primati, scoperte, menti brillanti. Una tradizione che si rinnova, anno dopo anno, nel ricordo del premio Nobel Camillo Golgi e dello pneumologo Carlo Forlanini, fino al genio più recente di Mario Viganò, luminare dei trapianti di cuore, e di Franco Locatelli, oncoematologo pediatrico.
Risultati premiati con i più alti contributi riconosciuti agli Irccs (Istituti scientifici di ricerca e cura) nazionali. Ma nel panorama della ricerca, all’interno del dibattito avviato dal «Corriere» con l’intervista al nuovo coordinatore regionale Adriano De Maio, il San Matteo non rappresenta un’eccezione. Da un lato, forti investimenti per il rinnovamento delle infrastrutture e l’acquisto di nuovi macchinari (in prima linea il ciclotrone, uno strumento unico in Italia, del valore del due milioni e mezzo di euro, che verrà usato per la diagnosi e la cura dei tumori); dall’altro carenza di fondi e debiti da ripianare. Come emerge dal confronto tra Enrico Solcia, direttore scientifico del Policlinico e coordinatore degli istituti scientifici italiani, e il commissario straordinario Giovanni Azzaretti.
«Siamo soddisfatti del lavoro - spiega Solcia -. Ma resta un problema: non ci sono mai abbastanza soldi. Né per noi né per la ricerca in generale. Quello che lamentiamo soprattutto è non poter gratificare i nostri scienziati. Faccio un esempio: Franco Locatelli, il medico che sta spianando la strada alla cura delle malattie genetiche negli adulti grazie alla moltiplicazione delle cellule staminali, guadagna come un normale primario».
Annuisce Giovanni Azzaretti, commissario dal 2001, già direttore sanitario per 20 anni: «La verità è questa, ma non ci fa paura: qui si lavora anche per passione e non solo per soldi. I nostri ricercatori ce la mettono tutta: giorno e notte, senza risparmio, con sacrifici. In pratica vivono qui. Certo, qualcuno se n’è andato, ma in genere, se uno è bravo, facciamo di tutto per trattenerlo. Anche a costo di grandi sforzi. Così studiamo contratti di consulenza, ruoli importanti, possibilità di insegnare all’Università. E poi ci sono gli investimenti: costruzione di nuovi padiglioni, acquisto di macchinari all’avanguardia, ristrutturazione delle camere. Anche così attiriamo i cervelli».
Scuote la testa il professor Solcia: «Facciamo leva sull’amore per la ricerca, ma non è giusto. Chi produce di più andrebbe incentivato. Il problema è grande: in Italia ci sono pochi fondi e spesso e volentieri sono spesi male. Credo che il coordinatore regionale De Maio sia d’accordo con me: i contributi andrebbero selezionati meglio e andare soltanto a chi lavora bene. In più, dovrebbero essere concentrati laddove la ricerca può avere ricadute applicative. Basta con i finanziamenti a pioggia».
Un piccolo sfogo che non finisce qui: «Alla base della ripartizione, poi, ci dovrebbe essere la capacità di valutare i progetti - aggiunte Solcia -: se in Italia manca, allora bisogna rivolgersi all’estero». La pensa diversamente il commissario Azzaretti: «Non sono sicuro che in Italia si spenda poco per la ricerca. Forse non si sa esattamente neppure quanto si investe. Soldi pubblici e privati arrivano da moltissime fonti: Stato, fondazioni, Comunità europea. Il fatto è che manca un coordinamento. La soluzione? Si dovrebbe definire prima quanto è il budget totale, e poi spenderlo bene. In pratica, invece, ognuno ha il suo e non sa che cosa fa l’altro».
Ma Solcia va oltre: «Nella ricerca biomedica andrebbe anche ricucito il rapporto con l’industria. Non bisogna accontentarsi del prestigio culturale. E’ d’obbligo, invece, cercare tutti i possibili risvolti pratici. Faccio un esempio: in Italia l’industria farmaceutica non esiste più, perché sono mancati i brevetti. Un collegamento più stretto con l’Università che non ha adeguati mezzi economici sarebbe un vantaggio per entrambe. Credo che sia questa la strada da seguire. Eppure, devo ammettere che, nonostante il bisogno di cambiare rotta, resta la vecchia mentalità fra i ricercatori di sporcarsi le mani se lavorano per l’industria. Dico che bisogna assolutamente metterla da parte».
Difficile immaginarlo di fronte al dato che al San Matteo esiste una lunga lista d’attesa di ricercatori assunti in aziende, desiderosi di passare nei laboratori del Policlinico. Sono soprattutto biologi. Ma l’ingresso è con il contagocce. «Non riusciamo a soddisfare le richieste - spiega Azzaretti -, ma rimane il piacere di sapere che c’è la fila per venire da noi».
Solcia, però, non si lascia ammorbidire: «Va bene la passione, ma non si vive di sola gloria». E lo spunto è l’occasione buona per parlare di etica, sempre con riferimento al tema finanziamenti: «La questione è semplice: dal momento che i contributi sono legati ai risultati, assistiamo spesso a una corsa a dare pubblicità a esiti di ricerche molto lontane dalla cura concreta di certe malattie - sottolinea il direttore scientifico -: è un tema delicato che ci sta molto a cuore». E nella mente appare nitida un’immagine: «Tutti i giorni, tra le corsie, vediamo gente in fin di vita, che farebbe qualsiasi cosa pur di mantenere un filo di speranza. Non poche volte ho visto pazienti andar via, spinti da promesse di guarigione, in realtà senza fondamento. E’ così che la scienza finisce al servizio di individui venali che non hanno rispetto per l’umanità. Conclusione? Dico che bisogna stare molto attenti: chi fa ricerca dovrebbe avere ben chiaro il suo ruolo. I soldi servono, ma prima viene l’etica, il comportamento corretto, necessario tanto più è delicato il campo in cui si opera. Nella ricerca conta anche questo».
gmottola@corriere.it Grazia Maria Mottola
 
Il professore-coordinatore
Enrico Solcia, milanese, 68 anni, si è laureato nel ’61 all’Università di Pavia. La sua è una lunga carriera di ricercatore e docente che comincia nel 1962 come assistente in anatomia patologia. Si diploma alla scuola di oncologia e nel 1973 diventa direttore del Centro ricerche in istopatologia. Dal 1993 è direttore scientifico del Policlinico San Matteo, dal 1997 coordinatore dei direttori scientifici degli Irccs italiani, nel 2002 riceve l’incarico di direttore scientifico del Centro nazionale di adroterapia oncologica (Cnao)
 
 

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