Press review

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
17 April 2005
Ufficio Stampa
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI

 
1 – L’Unione Sarda
Pagina 43 – Gallura
Tempio «Nessuno vuol cancellare la sede universitaria»
Nessun taglio ai finanziamenti per la sede tempiese dell'Università di Sassari. Semmai un nuovo percorso avviato dalla Giunta Soru, con l'obiettivo di rilanciare le realtà come quella che ha portato all'istituzione dei corsi tecnica eboristica e tossicologia degli inquinanti ambientali. Il circolo tempiese di Progetto Sardegna in una nota respinge l'accusa rivolta alla Giunta regionale di aver voluto penalizzare la sede gemmata tempiese. «I fatti sono ben altri ? spiega il consigliere regionale di Progetto Sardegna, Chicco Porcu ? rispetto agli ultimi anni la spesa per l'università è rimasta invariata. Semmai è stato scelto un diverso approccio che punta sostanzialmente a due obiettivi. Intanto è importante per noi che le università istituiscano delle cattedre permanenti e corsi legati alle realtà territoriali; poi ci interessa che le sedi gemmate formino persone che abbiano tutti i titoli per poter affrontare il mercato del lavoro». Progetto Sardegna rivolge un invito agli amministratori comunali di Tempio: «Non c'è nessuna volontà di cancellare queste esperienze ? prosegue Chicco Porcu ? piuttosto la Regione vuole dire la sua e gli amministratori comunali hanno la possibilità di cercare l'accordo per l'istituzione di sedi gemmate che siano a tutti gli effetti poli d'eccellenza per la formazione». (a. b.)
 
 
2 – L’Unione Sarda
Pagina 37 – Provincia di Nuoro
Oliena/1. Le prime lezioni nel 1985 all'ateneo di Bologna, ora un progetto a Cagliari
Il ballo sardo si studia all'università
Così Peppino Palimodde ha esportato la cultura isolana
Ha fatto attraversare i stretti confini della Sardegna alla raffinata arte del ballo sardo, mettendola a disposizione di appassionati e studenti universitari di mezza Italia. Un'operazione culturale e di promozione delle tradizioni isolane che Peppino Palimodde, olianese doc, porta avanti da vent'anni. Gli inizi«Ho amato i canti e i balli della mia terra fin da bambino: una passione innata che ho cercato di trasmettere ai giovani del mio paese fondando un gruppo di ballo sardo che ho guidato dal '76 al '90». Palimodde è uno dei tanti operai che ha lottato davanti ai cancelli delle industrie chimiche di Ottana per difendere il posto di lavoro. Consapevole, forse, che si sarebbe trattato di un miraggio, incompatibile con le variegate espressioni culturali di un popolo custode e amante delle proprie tradizioni e della terra. Peppino e la sua passioneQuando parla di ballo sardo, canti a tenore e poesia in "limba" gli brillano gli occhi, piccoli e scuri. La sua è una passione innata, che trasmette, insegna e racconta da ventenni, in sordina, nei circoli culturali e negli atenei del Continente. E che gli ha conquistato l'amicizia dell'etnomusicologo Pietro Sassu, il cui talento è rimbalzato fuori dagli ambienti accademici solo quattro anni dopo la morte, come di solito accade ai grandi uomini, riservati. Le esperienze nella Penisola«Il primo seminario di ballo sardo lo tenni nel 1985, davanti a una platea di studenti universitari di Bologna, dove allora Pietro Sassu insegnava. Era dovuto andar via dalla Sardegna per poter insegnare la musica della sua terra. Era riuscito a trasmettere ai suoi studenti la passione per il ballo sardo, tanto da incuriosirli e decidere di invitarmi a uno dei suoi seminari di tradizioni popolari per spiegare le differenze tra una danza sarda e l'altra. Rimasi stupito: non credevo che, oltre noi sardi, ci fossero tante persone interessate a questo genere di cose». Tramite l'etnomusicologo Pietro Sassu conobbe Giuseppe Michele Gala, presidente dell'associazione Tarànta, erede del laboratorio fiorentino di Danza popolare. Anch'egli, pur non essendo sardo, rimase stregato dalla naturalezza di genti e luoghi, prima ancora che delle espressioni artistiche popolari. Ne nacque una collaborazione articolata che, con brevi pause, è andata avanti fino ai giorni nostri. I segreti del ballo sardoSeduto davanti al caminetto della sua accogliente casa svela i segreti che distinguono le varianti locali de "su passu torrau", "ballu tundu" e "dillaru". «Tempi e musica sono più o meno uguali in tutti i paesi della Sardegna, sono i movimenti che vengono interpretati in maniera diversa da paese a paese». Peppino Palimodde e compagni saranno maestri della variante olianese, insieme ai tre balli esclusivi del solo paese ai piedi del Corrasi: "arciu" in tre tempi, "arciu antigu" in sette tempi e "durdurinu", fatto di tremolii della schiena scanditi dall'accompagnamento di una voce solista. Una volta rientrato in Sardegna, Peppino Palimodde esordirà come relatore nella facoltà di Lettere dell'Università di Cagliari, in un convegno sulla poesia estemporanea sarda organizzato da Ignazio Macchiarella. Tocca a lui (con la collaborazione di Palimodde) realizzare il sogno che fu del suo mentore Pietro Sassu: insegnare in un'università sarda la musica popolare della sua terra.
Maria Bonaria Di Gaetano
 
 
3 – L’Unione Sarda
Pagina 25 – Cagliari
L'esperienza del capo Roberto Siguri, in Antartide con la Marina militare
«Lì al Polo attenti allo skua»
I consigli di un cagliaritano al team dell'Ateneo
In due mesi d'Antartide Roberto Siguri ha imparato a guardarsi da due nemici che di solito un cagliaritano non conosce: il freddo e lo skua. Il primo al Polo Sud ti può costare la vita. Il secondo, al massimo, una giacca: «È un uccello malefico, aggressivo. Se ti prende di mira sono dolori: appena invadi il suo territorio si alza in volo e te la fa addosso. E ha anche un certa mira, devo dire». Tra le foto ricordo della sua esperienza all'altro capo del mondo Siguri, sottufficiale di Marina quarantenne, guarda con un fremito di fastidio solo quella del pennuto dei ghiacci, una specie di gabbiano brunastro dall'aria torva. Le altre, che siano tramonti antartici o reggimenti di pinguini, gli fanno sfuggire un sorriso nostalgico. È sceso dal mercantile Italica a fine febbraio ma potendo ci tornerebbe volentieri senza aspettare molto. Per ora può riassaporare i ricordi, sorridere dei concittadini che si lamentano della primavera fredda e dare un paio di dritte alla squadra dell'Università di Cagliari che a novembre, per la prima volta nella storia dell'ateneo, farà una spedizione scientifica al Polo Sud. E magari potrà evitare di commettere le ingenuità in cui a volte i principianti dei ghiacci incorrono. Non solo fidarsi dello skua, ma per esempio - pare succeda soprattutto agli italiani - preoccuparsi troppo del bagaglio: «Puoi portare con te venti chili: c'è chi spreca spazio e peso tra jeans e qualche giacca per la vita in base o a bordo della nave, poi scopri che tutti usano tute da ginnastica e indumenti in pile». Altro errore, evidente per logica ma facile da fare quando ci si trova sul posto, è tirare la giornata per le lunghe pensando che c'è ancora luce, «ancora un po' e poi me ne vado a letto. Sbagliato, sbagliatissimo: il sole non tramonta mai». E infatti i primissimi giorni al Polo Sud li si passa abbastanza rintronati, finché il ciclo sonno-veglia non si stabilizza. E finché non si smaltisce il jet lag che si accumula in un viaggio che, da Cagliari all'ultimo aeroporto utile della Nuova Zelanda, dura 24 ore e 40 minuti di volo effettivo. Poi ci sono dieci giorni di navigazione, spesso trascorsi col cerotto antinausea sulla pelle se c'è l'onda lunga, e poi si attracca. A quel punto ci vogliono due giorni per scaricare il materiale, a cominciare dall'attrezzatura per le "mele", che sarebbero i monolocali del pack: delle tende sferoidali dove ci si rifugia se si deve stare per qualche motivo lontani dalla base. Un'esperienza interessante per chi sostiene di amare la solitudine: «Ho avuto la percezione esatta del fatto di essere in Antartide qualche giorno dopo essere arrivato, quando l'elicottero è atterrato lontano dalla nave e il pilota ci ha fatto portare giù uno zaino enorme. È l'equipaggiamento d'emergenza, ha spiegato: se resti isolato lì ci sono le cose che ti servono per sopravvivere». Visto che il pericolo è il freddo, nell'equipaggiamento del turista antartico è tutto o quasi all'insegna dei materiali tecnici: abbigliamento in intratex, goretex, dermizax. Ma una volta che ti sei bene imbacuccato e hai la radio con te, non ci sono altri elementi ostili da cui guardarsi: «I pinguini sono curiosi, piuttosto socievoli, e comunque se anche diventano aggressivi al massimo cercano di schiaffeggiarti le cosce con le ali. Quanto alle foche, poverine, quando ti avvicini devi fare rumore così si accorgono che stai arrivando: se ti vedono all'improvviso si spaventano moltissimo, soffrono». Se proprio ti va male, il vero colpo basso te lo rifilano i compagni di viaggio nel rituale d'iniziazione per le matricole polari: alla festa di bordo, sul mercantile, per evitare la penitenza ogni novizio deve trovare un oggetto indicato dagli organizzatori. Una sedia a sdraio, un pallone, un nano di gesso. Al Polo Sud ci si diverte così.
Celestino Tabasso
 

 
4 – La Nuova Sardegna
Pagina 52 - Cultura e Spettacoli
I villaggi scomparsi? Miniere d’oro 
«Rilanciati sul piano archeologico, i paesini potrebbero produrre grande ricchezza»
 PIER GIORGIO PINNA
I tesori del passato sono una ricchezza per il futuro. Non è uno spot coniato per la Borsa del turismo. Piuttosto un dato di fatto. Destinato però a scontrarsi con realtà difficili, spesso caratterizzate da indifferenza e lassismo. Come succede nel caso dei villaggi scomparsi in Sardegna: paesi un tempo popolatissimi e oggi abbandonati. Miniere d’oro da valorizzare. La loro riscoperta frutterebbe parecchi vantaggi: culturali, economici, sociali. «Soprattutto perché - spiegano gli esperti - questi borghi rappresentano patrimoni unici nel Mediterraneo: tante testimonianze di epoche remote, così significative sotto il profilo degli insediamenti umani, si trovano solo nell’isola». Da qui l’esigenza di un cambiamento di rotta. Con un traguardo finale: puntare sulle risorse del passato in chiave alternativa rispetto a scelte non altrettanto paganti compiute sinora.
 Lo sottolineano gli stessi specialisti che hanno scandagliato nei meandri del Medioevo e dei secoli successivi: l’isola rappresenta uno scenario magnifico, straordinario. Può fare da laboratorio per un’operazione scientifica non sempre agevole altrove. Cioè l’individuazione di modelli per comprendere meglio le situazioni storiche. Non a caso, quando si parla di borghi scomparsi nell’ultimo millennio, sono numerosi gli studiosi, anche stranieri, che guardano alla Sardegna come a una delle regioni più interessanti. E non da oggi. Già nel 1965, a Monaco, durante il terzo convegno internazionale di Storia economica dedicato ai villages desertèes, il fenomeno dell’abbandono delle biddas sarde era stato analizzato da due ricercatori stranieri. Una era Cristhiane Klapisch Zuber. L’altro quel John Day che tanta parte ha avuto nella catalogazione dei borghi. Si deve a lui, infatti, la stesura di un saggio-chiave: pubblicato a Parigi come gli altri atti del congresso, il testo costituisce una delle pietre miliari nelle indagini del ’900 in questo campo.
 L’idea di approfondire certi temi, comunque, risale addirittura ai secoli precedenti. Alla fine del Cinquecento Giovanni Francesco Fara aveva compilato un elenco dei villaggi scomparsi e di quelli esistenti nella sua epoca. Altri erano stati stilati nel 1639 da Francesco Vico, nel 1677 da Giorgio Aleo e nel 1769 da Vincente Mamely de Olmedilla. Più tardi, nell’Ottocento, le descrizioni di tanti viaggiatori. Primo fra tutti, Alberto La Marmora, che col suo «Voyage en Sardaigne» ha lasciato tantissime, e preziose, informazioni. Segni, questi, di un interesse non casuale. «Un’attenzione sicuramente determinata dalla visibilità che nelle campagne dovevano avere i resti delle biddas deserte attorno a chiese non di rado ancora aperte al culto», rileva in proposito Marco Milanese, docente che insegna archeologia medievale all’università di Sassari e che opera nell’isola da una quindicina d’anni.
 In ogni caso, al di là delle indagini compiute sinora, non tutti i problemi sembrano di semplice soluzione. Una delle questioni più scottanti - osserva il professore - deriva dall’interpretazione dei documenti, in modo particolare dalle diverse terminologie con le quali vengono indicati gli insediamenti rurali. A volte li si segnala come ville, altre come domus. Ci sono poi ulteriori ostacoli. Le tracce utili per gli studiosi, nei periodi presi in esame, si basano quasi esclusivamente su documenti di carattere fiscale. Di molte epoche, infatti, non rimane più niente dal punto di vista demografico e sociologico: su come vivesse la gente qualsiasi - dunque la grandissima parte della popolazione - si possono ricavare solo dati indiretti. Si può farlo, per esempio, dai registri monastici, i condaghes, che custodivano raccolte di notizie su usi e costumi nei borghi.
 Spiega Milanese: «In Sardegna molti villaggi rurali medievali appaiono abbandonati già prima del Trecento. Probabilmente a causa delle dinamiche di spostamento degli abitanti sul territorio e della forza d’attrazione esercitata dalle città e dai centri maggiori». Di più: «Tra il 1350 e il 1450 la grande crisi demografica, le carestie, le pestilenze, le guerre investirono l’intero continente europeo. L’isola non venne risparmiata. Anzi. La presenza endemica della malaria contribuì a rendere disastroso il quadro complessivo. Sui trasferimenti influirono anche altri fattori, come per esempio la forte pressione fiscale esercitata dagli Aragonesi all’inizio del XIV secolo, dopo la conquista dell’isola».
 L’instabilità degli insediamenti nelle campagne risulta frequente in tutta Europa, sino all’età contemporanea. In certe circostanze si può parlare di abbandoni temporanei dei villaggi, in altre di distacchi definitivi. Ma se si considera che nel Medioevo quasi tutta la popolazione del continente era formata da contadini, si comprende meglio un altro significato: capire come si viveva in un borgo vuol dire capire come viveva la maggioranza degli europei, sardi compresi. In questa direzione le problematiche d’indagine sono però state affrontate nell’isola soltanto dalla metà del Novecento. Soprattutto grazie all’apporto dato negli anni Settanta da studiosi come Marco Tangheroni, Francesco Cesare Casula, Giuseppe Meloni, Angela Terrosu Asole e altri ancora.
 Anche sotto questo profilo, comunque, si sono rivelati vincenti i risultati di alcuni scavi archeologici. Tra loro, conserva particolare attenzione quello di Geridu, tra Sorso e Sassari. Qui, secondo quanto riportato dallo stesso Milanese in diverse opere monografiche, si è stati in grado di delineare i punti chiave del’abitato, le case, la chiesa, il cimitero, un «palazzo» (forse la residenza del parroco). Non solo. Il microscopio dell’archeologia ha permesso inoltre di ricostruire i principali elementi alla base dell’alimentazione e le cause di morte tra gli abitanti. «Dopo le prime campagne di ricerca, gli approfondimenti continuano - è la conclusione del docente -. Gli studi sono adesso indirizzati all’organica comprensione di come scorreva l’esistenza nel villaggio. Se infatti nella curatoria della Romangia erano presenti diversi altri insediamenti rurali, solo Geridu rappresenta un modello eccezionale per la comprensione di fenomeni di più ampio respiro».
 Potranno così trovare risposte tanti interrogativi. Nelle biddas sarde esistevano quartieri riservati a persone privilegiate? Dove lavoravano gli artigiani? Com’era distribuita la ricchezza fra gli abitanti? A che tipo di trasformazioni sono stati soggetti i villaggi? I paesaggi circostanti erano molto diversi da quelli attuali? Altre piste d’indagine riguarderanno l’età attribuibile ai borghi abbandonati, la loro grandezza effettiva, l’organizzazione sociale interna, i metodi di costruzione, le risorse economiche, le principali malattie.
 Da queste soluzioni comincerà il lungo viaggio per il rilancio di un patrimonio inestimabile. Sempre che l’isola voglia tutelare i propri beni a vantaggio delle nuove generazioni. E’ infatti vero ciò che ha scritto con efficace sintesi il poeta libanese Khalil Gibran: «I vostri figli abiteranno in case future, e voi non potrete conoscerle neppure in sogno». Ma è altrettanto vero che ai padri, di quelle case, resta comunque il dovere di costruire le fondamenta.
 
 
 
5 – La Nuova Sardegna
Pagina 2 - Cagliari
Gianluigi Piras, neo presidente del Consiglio degli studenti universitari, spara a zero sulle incongruenze dell’ateneo 
Università, ‘le nostre lauree servono a ben poco’
“Bisogna investire sulla qualità, un aumento delle tasse è privo di senso”
Lasciano a desiderare anche i servizi. “Stanno peggio le umanistiche”
  CAGLIARI. L’istituzione di nuove facoltà come quella di psicologia? Un modo per tenere in piedi altre cattedre. La mensa universitaria di via Premuda? Troppo lontana dalle esigenze degli studenti. Cinque giorni dopo la sua elezione a presidente del Consiglio degli studenti (il massimo organo di rappresentanza degli universitari), Gianlugi Piras, 27 anni, studente di giurisprudenza ed espressione della Sinistra universitaria (Ds) spara già ad alzo zero sulle incongruenze dell’ateneo. Dalla qualità dell’offerta formativa al paventato aumento delle tasse universitarie, quei mille punti su cui, secondo Piras, occorre sedersi e discutere, perché mai più i giovani fuggano dalla Sardegna alla ricerca di qualcosa di meglio.
Quasi un libro dei sogni verrebbe da dire, e invece no: lucida analisi del pianeta universitario, che in Sardegna ancora arranca. «Il primo problema, comune a tutti gli atenei d’Italia, è la diminuzione delle risorse economiche - dice il giovane - la conseguenza più probabile è che questo porti a un aumento delle tasse: il rettore lo da quasi per inevitabile, argomentando che siamo l’ateneo italiano dove si paga di meno». Detto così non farebbe una piega. Eppure, dice il presidente del Consiglio degli studenti, ci sono almeno due cose che il rettore omette: «La prima è la qualità dei servizi dell’ateneo, che non da le stesse prospettive delle altre università, la seconda è il contesto sociale di partenza: la Sardegna non è l’Emilia Romagna o la Lombardia». Due parole per spiegare meglio: «Rispetto ad altre università - dice Piras - da noi si punta sulla generalizzazione degli insegnamenti. Perché istituire nuove facoltà, come psicologia, quando ancora per molte lauree di primo livello non c’è la corrispondente laurea specialistica?». La parola d’ordine diventa allora: investire con intelligenza. «Le risorse vanno utilizzate per creare competenze - non si stanca di dire Piras - faccio un esempio: a Urbino le tasse sono più alte, ma è anche vero che la preparazione è tale che una volta laureati i neo dottori sono ricercatissimi dal mondo del lavoro». Non solo: l’ateneo, dice il presidente, ha poche risorse e per sopravvivere ha bisogno di laureare quanti più studenti possibile. Ancora una volta a scapito della qualità: «Certo - dice - le eccellenze esistono, ma per il resto siamo in una situazione dove lo scotto da pagare è alto: la laurea qui diventa un titolo poco spendibile. Ecco perché secondo me un aumento delle tasse sarebbe privo di senso».
 Dai titoli poco spendibili, perché non abbastanza specialistici ai servizi non sempre al massimo: «Le facoltà umanistiche stanno peggio di tutte - annuncia Piras - mancano aule, mancano insegnanti, molti ragazzi laureandi in psicologia hanno dovuto sostenere nuovi esami perché col passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento, sono stati persi crediti preziosi che invece dovevano essere assicurati».
 Un’altra nota dolente: la mensa universitaria. «Quella di via Premuda, sia per gli orari sia per la lontananza fisica, non va bene a soddisfare le esigenze degli studenti - dice PIras - piuttosto abbiamo un nuovo progetto: una nuova mensa nel polo giuridico che funga anche da sala studio e che magari la notte possa fungere da locale notturno». Una proposta presentata anche al presidente dell’Ersu (Ente regionale per il diritto allo studio universitario) e che proprio in questi giorni è in fase di valutazione. E a proposito di servizi, ecco invece un esempio di disservizio che gli studenti non vorrebbero mai vedere: «Gira voce - dice Piras - che parte dei parcheggi per gli universitari inaugurati in viale Buoncammino qualche mese fa, sarà fatta diventare a pagamento. E così che aiutano gli studenti squattrinati? sia chiaro: se questo fosse vero già da ora promettiamo battaglia».
Sabrina Zedda
 
 
 
6 – La Nuova Sardegna
Pagina 8 - Sardegna
L’assessore alla Cultura alla conferenza delle città storiche del Mediterraneo 
Pilia parla della centralità dell’isola
  CASTELSARDO. Per tre giorni Castelsardo è stata la capitale delle città storiche mediterranee. La Sala XI del Castello dei Doria ha ospitato i lavori, da giovedì a sabato, della “Conference Permanente des Villes Historiques de la Mediterranée”. Ma il clou si è avuto con la presentazione del piano regolatore di Betlemme, donato dalla Conferenza Permanente e dalla Regione Lazio alla città palestinese, che lo ha recentemente adottato. A presentarlo è stato il coordinatore dell’equipe internazionale che lo ha elaborato, il Prof. Mario Docci dell’Università La Sapienza di Roma, che ha illustrato come il noto muro innalzato di recente fra Israele e Cisgiordania, andrà ad incidere sulle scelte di pianificazione adottate. Un tema di grande attualità ripreso dal consigliere comunale di Betlemme, Elias Dieck, che ha partecipato alla stesura del documento e che ha riferito sulle numerose problematiche affrontate nel realizzare il progetto. Nel corso dei lavori, ai quali hanno partecipato i rappresentanti delle tredici nazioni coinvolte nell’iniziative, è intervenuto anche l’assessore regionale ai Beni culturali, Elisabetta Pilia, che ha esaltato la vocazione naturale dell’isola per il confronto tra le città del Mediterraneo, ricordando che anche la Regione si sta muovendo nella stessa direzione delle municipalità coinvolte nella conferenza e che si attiverà per coinvolgere le comunità internazionali, al fine di intraprendere azioni che possano esercitare le dovute pressioni per abbattere il muro che circonda Betlemme. Pilia nel suo intervento ha anche ricordato che la Regione ha recentemente sottoscritto l’atto costitutivo dell’Eurimed, un organismo del quale fanno parte, oltre alla Sardegna, la Corsica, Creta e le Baleari, per un confronto trale città che si affacciano sul Mediterraneo. Alla riunione hanno partecipato sindaci e docenti delle università appartenenti alla Conferenza, fra gli altri: Betlemme (Palestina), Byblos (Libano), Réthymnon (Creta), Lorca (Spagna), e rappresentanti delle Università Birzeit (Palestina), Bari, La Sapienza (Roma), Valencia (Spagna), Torino, IUAV (Venezia), Malta e Sorbonne (Parigi). Per l’Italia, oltre a Castelsardo, le città associate sono: Alghero, Bosa, Anagni, Gallipoli, Mondovì, Sant’Agata dei Goti e Valmontone. La segreteria è curata dall’Isprom, l’Istituto di studi e programmi per il Mediterraneo, mentre la presidenza dell’assemblea è affidata al sindaco di Betlemme e quella della commissione al sindaco di Lorca (Spagna), Leoncio Collad.
 
 
 
7 – Il Tempo
Elena, ventenne campobassana, è la reginetta dell’Università
RIPALIMOSANI - Anche per quest’anno l’Ateneo ha la sua reginetta della bellezza. Giovedì sera al “Blue Note Club” di Ripalimosani c’è stata l’elezione di Miss Università del Molise, valevole come selezione del concorso nazionale Miss Università «La Studentessa più Bella e Sapiente degli Atenei Italiani». Il connubio vincente tra bellezza e cultura ha incoronato quest’anno la ventenne campobassana Elena Florio iscritta al corso di laurea in Scienze Giuridiche; al secondo e al terzo posto, rispettivamente Teresa Papadopulo di San Severo (FG), iscritta al corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria e la campobassana Fausta Felaco iscritta al corso di laurea in Economia                                                                 
 
 

Questionnaire and social

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