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ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
30 May 2005
Ufficio Stampa
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI

 
1 - L’UNIONE SARDA
Cronaca di Cagliari Pagina 10
Rock nel parco, di mattina si può
Concerto a Monte Claro dopo le proteste
Rock a Monte Claro? Dipende. Se a organizzare è la consulta degli studenti, per giunta benedetta da un finanziamento ministeriale, no. Se sono un'associazione culturale, una parrocchia e un istituto magistrale, sì. Chi sì e chi no.
Così la Giornata dell'arte e della creatività studentesca ha dovuto traslocare: dal parco a un parcheggio, quello universitario di via Trentino, dove sabato sera si sono esibiti dodici gruppi studenteschi più cinque ospiti di prestigio (ne diamo conto nell'articolo qui sotto). Disco verde, invece, alla seconda edizione del Live aid Shtraze, organizzata dall'associazione Al. Po. (Alleviare la povertà), dalla parrocchia di Sant'Eulalia di don Mario Cugusi e dall'istituto magistrale Eleonora d'Arborea per raccogliere fondi da destinare alla costruzione di una scuola nella cittadina di Shtraze, in Kosovo, devastata dalla guerra: mercoledì mattina, sul parco provinciale, si esibiranno sette band studentesche (più una composta da professori) dedite a generi che vanno sì dal pop al jazz, ma anche dal punk allo ska-punk, dall'heavy al black metal. Cioè gli stessi generi che avevano fatto venire gli incubi a un mucchio di abitanti della zona, le cui rimostranze avevano spinto l'amministrazione provinciale guidata da Sandro Balletto a revocare l'autorizzazione.
Purché non sia di notte.
Le stesse proteste non si sono levate per la manifestazione di dopodomani: «Francamente non sapevo nulla di questo nuovo concerto», esordisce Vittorio Stevelli, consigliere circoscrizionale che si era fatto portavoce dei cittadini nella battaglia contro la Giornata dell'arte studentesca. «Posso sapere in che orari si suonerà? ». Il programma prevede musica dalle 9 alle 13,30. «Allora non ci sono problemi. A preoccuparci era la tranquillità notturna: per questo alla Consulta chiedevamo delle garanzie sull'orario di chiusura della manifestazione. In questo caso, se l'idea è di fare musica di mattina nel parco non ci vedo niente di male. E che siamo, talebani? Monte Claro deve vivere anche di questo tipo di manifestazioni, magari concordandole con la circoscrizione e i cittadini: se si dialoga, un accordo si può trovare». Una questione di formaDue pesi due misure? «Effettivamente - commenta Alessandra Pili, giovane e battagliera presidente della Consulta - ci sono rimasta male. Gli amici mi prendono in giro: a voi non hanno concesso il parco, mi dicono, mentre agli altri sì. Vorrei capire meglio, consultarmi con i colleghi della Consulta, sapere chi organizza la manifestazione del primo giugno e come mai per questo concerto non siano stati sollevati i problemi sollevati per la nostra iniziativa, peraltro supportata da provveditorato agli studi e Regione. Non voglio fare polemiche, anche perché il nostro concerto, sabato notte, è andato benissimo, ma credo che ci sia una questione di forma». Giuliano Usai, che in seno all'organismo rappresentativo degli studenti presiede la commissione Giornata dell'arte, ha una posizione più attenuata: «Credo che la grossa differenza stia nel fatto che noi proponevamo una giornata intera di iniziative, con concerti di sera, mentre la manifestazione di mercoledì si conclude in una mattina. Per chi abita attorno al parco il problema era legato essenzialmente al disturbo nelle ore serale. Sicuramente per noi sarebbe stato più bello poter organizzare il concerto in uno spazio verde, ma anche nel parcheggio che ci è stato concesso dall'università alla fine siamo stati bene e siamo soddisfatti così». Il programmaE dunque, via libera al concerto per aiutare la cittadina kosovara. Sul palco, secondo un programma messo a punto dalla giovane direttrice artistica Ilenia Cusumano, si alterneranno Contro Cultura, Lambruska, Grim Drawsiness, Feature, The upside of anger, la stessa Ilenia Cusumano, Valentina Mameli, Giacomo Deiana trio, Quartetto jazz, Reset e Punto. doc, formazione composta da soli docenti dell'Eleonora d'Arborea. Ma ci sarà spazio anche per una mostra di disegni realizzati dai bambini di una scuola materna, una di fotografie sulla ricostruzione in corso a Shtraze, e alcuni numeri di cabaret. Marco Noce
 
2 - L’UNIONE SARDA
Cronaca di Cagliari Pagina 10
Giornata dell'Arte 2005, folla per le band
Tremila sotto il palco di via Trentino Maratona musicale degli studenti
Oltre tremila persone hanno riempito i parcheggi dell'Ersu di via Trentino, sabato, per la Giornata dell'Arte 2005. Un evento, organizzato dalla Consulta di Cagliari, che non ha fatto rimpiangere luoghi più prestigiosi, come il parco di Monte Claro, negato agli studenti dell'organo studentesco che rappresenta le 53 scuole della Provincia. E la notizia che il parco di via Cadello ospiterà una manifestazione con gruppi scolastici, mercoledì prossimo, ha alimentato i malumori dei giovani. La giornataUn palco coperto, luci, fumo e un impianto audio un po' problematico, sono riusciti a far vivere l'emozione di un grande raduno musicale. Esattamente quello che gli studenti desideravano. «Dopo tutti i problemi che abbiamo avuto, siamo soddisfatti», commenta Alessandra Pili, presidentessa della Consulta: «Volevamo creare un luogo d'incontro, a prescindere dalla qualità, e ci siamo riusciti, senza registrare alcun incidente». I gruppiDodici band liceali si sono esibite dalla mattina al pomeriggio. Tre in meno rispetto al previsto, con qualche sostituzione dell'ultimo momento. Tra tutti si sono distinti i War Pigs, con un metal perfettamente eseguito, i Seven second to trust, da Carbonia, con un rock'n'roll accattivante, e gli Eguamia, ultimi a suonare prima della pausa serale, autori di un trash potente ed espressivo. Gli ospitiDalle 21 è stata la volta degli ospiti. Cinque formazioni sarde di spessore. Hanno iniziato i Balentia, con il loro hip hop convincente, suonato con passione, che rende credibile il loro stile, nonostante le origini del rap siano lontane dalla nostra terra. Dopo di loro i Contrabbanda, tecnicamente bravissimi e carismatici, con il loro repertorio che spaziava da Capossela a Carosone. I Ratapignata, gruppo ska coinvolgente e fedele al proprio spirito, mai finto punk o finto reggae. I Colazione Freak, molto applauditi, grazie alla loro sintesi rock sempre più personale ed originale. Hanno concluso, fino alle 24, i SikitikiS, che rispetto agli anni precedenti hanno dimostrato un notevole miglioramento, caratterizzato da una musica più di squadra, meno individualista, che ha lasciato da parte gli interventi singoli di ogni musicista per dar vita ad un prodotto maggiormente di qualità. Troppe coverSulla Giornata dice la sua Davide Catinari, musicista e produttore discografico che ha fornito, con Vox Day, il supporto logistico alla manifestazione: «È un peccato che in un ritrovo che valorizza la creatività ci siano state così tante cover. Sarebbe stato meglio se gli studenti si fossero presentati solo con canzoni proprie». Stefano Cortis
 
 
 

3 – LA NUOVA SARDEGNA
Pagina 43 - Cultura e Spettacoli
Mazzini e le radici del sardismo 
Il rapporto tra il pensiero del padre del Risorgimento e i movimenti autonomistici dell’isola 
In comune ideali e interpretazione dei processi storici 
Allo stesso Lussu viene attribuita l’appartenenza politica giovanile alla sezione repubblicana di Cagliari 
Pubblichiamo uno stralcio della relazione («Mazziniani e sardisti») letta da Aldo Borghesi, segretario della sezione sassarese dell’Istituto sardo per lo studio dell’Autonomia e della Resistenza, al convegno su Giuseppe Mazzini che si è tenuto venerdì e sabato a Cagliari per iniziativa dell’Università e dell’Istituto di storia del Risorgimento.
Oggi può sembrare paradossale, ma la conoscenza diretta delle fonti porta a constatare che combattentismo e Partito Sardo d’Azione affondano profondamente e prioritariamente le proprie radici nell’eredità mazziniana: i movimenti sardista e repubblicano hanno in comune presupposti ideali e interpretazioni dei processi storici: i dirigenti dei Quattro Mori sono spesso politicamente cresciuti nella sinistra democratica, allo stesso Emilio Lussu qualche fonte attribuisce un’appartenenza politica giovanile alla sezione repubblicana di Cagliari. Sulla base di simili presupposti, i repubblicani salutano l’impetuoso sviluppo del movimento dei reduci come la grande occasione per creare finalmente nell’isola un Partito Repubblicano con una base di massa, attraverso l’adesione dei combattenti che portano scritto nel loro programma la «forma repubblicana dello Stato con Federazione amministrativa».
In realtà i rapporti tra i due schieramenti conosceranno non pochi momenti di tensione. È vero che la principale rivendicazione sardista, l’autonomia, ricalca un tema tipicamente repubblicano, anche perché inserita dentro l’appartenenza della Sardegna alla compagine statale italiana; il rifiuto del separatismo è coerente con l’impostazione di tutta la sinistra di allora, che fonda la sua battaglia per la riscossa della Sardegna non sulla costruzione di una entità statuale distinta, bensì su un’integrazione quanto più ampia e profonda nello Stato-nazione italiano. Ma alla confluenza ostano non pochi fattori: anzitutto la dirigenza dei combattenti-Psd’Az, un gruppo giovane e convinto della propria legittimazione politica venuta dalla guerra, che non intende cedere il controllo del movimento, è fortemente critico nei confronti di tutti i “vecchi” partiti, non vuole vincolarsi a una dimensione nazionale scarsamente controllabile. La sua mente politica più lucida, Camillo Bellieni, cerca di dar vita a un partito dei combattenti, che del movimento repubblicano condividerebbe i presupposti ideali, ma sarebbe espressione del combattentismo e da esso controllato.
Il patto di alleanza del 1921 fra i partiti sardo e molisano d’azione - che si dichiarano «avversari del repubblicanismo insurrezionale perché stantio bolscevismo borghese» e «persuasi di continuare l’opera dell’antico Partito d’Azione che si prefisse come principale obiettivo l’unità della patria [...] riprendono il nome fatidico e intitolano Partito Italiano d’Azione il movimento risultante dalla collaborazione di tutte le energie regionaliste delle diverse parti d’ Italia» - non migliora i rapporti di concorrenza fra Pri e PsdAz. Ma la crescente pressione fascista li porterà ad accantonare le rivalità; dopo altre polemiche con la fusione sardo-fascista, all’opposizione stringeranno forti legami reciproci.
Un’eredità mazziniana sussiste anche tra uomini e forze del radicalismo, che per lo più si sono allontanati dal repubblicanesimo ufficiale durante l’età giolittiana, accettando le istituzioni e l’inserimento legalitario nella lotta politica. Il richiamo a Mazzini da parte della “democrazia”, non a caso uno degli obiettivi polemici di combattenti e repubblicani del PRI, viene oggi in genere liquidato come espediente elettorale per recuperare consenso popolare, agitando idee ormai accantonate nella prassi; e tale probabilmente è, se non rappresenta anche un modo per rinverdire le idee della giovinezza, almeno nelle forme meno compromettenti. Il cinquantenario mazziniano, nel marzo 1922, è anche su questo versante l’occasione per pubblicare scritti sul Maestro e partecipare a quelle cerimonie ufficiali che repubblicani e sardisti sdegnano, per non doversi confondere con gli odiati monarchici.
Questo ambiente approda infine al fascismo e al collateralismo: nel 1923 all’Unione Mazziniana Nazionale aderiscono, a Sassari e provincia, personaggi legati al gruppo democratico-radicale, come Filippo Garavetti e il vecchio deputato ozierese Pais Serra. C’è anche una cooperativa, quella di Pozzomaggiore, costituita all’inizio del secolo dal socialista Giovanni Antioco Mura e passata ora al campo fascista, pare in seguito ad una spedizione punitiva organizzata dagli squadristi di Sassari.
La cerimonia mazziniana del 10 marzo 1925 si tiene a Cagliari presso la redazione de «Il Solco», presenti uomini dei due partiti. Oratori due giovani repubblicani, Silvio Mastio e Cesare Pintus: l’uno scomodo corrispondente de «La Voce Repubblicana», l’altro capo delle Avanguardie Repubblicane, che ostentavano la camicia rossa e si definivano nel loro inno «gioventù ribelle / di fede mazziniana».
Con la caduta del fascismo il mazzinianesimo rimarrà in Sardegna patrimonio di una minoranza tenace ma ristretta; è tuttavia significativo che il Lussu del secondo dopoguerra, nello storico discorso alla Costituente per il federalismo, pur constatando che «storicamente ha sempre ragione chi trionfa e non chi perde» e che, pertanto, nel processo di costruzione dello Stato italiano non era stato Mazzini ad aver avuto ragione, bensì Cavour, senta il bisogno di chiudere affermando: «Non pertanto siamo fra quelli che vorrebbero che avesse trionfato Mazzini; anzi Cattaneo».
Aldo Borghesi
 
4 – LA NUOVA SARDEGNA
Pagina 7 - Sardegna
Psichiatria forense, Lorettu dopo Nivoli 
SASSARI. Dopo sei anni consecutivi il professor Giancarlo Nivoli lascia la Presidenza della Società italiana di psichiatria forense. A ricoprire il prestigioso incarico va una donna per la seconda volta, la professoressa Lilliana Lorettu, 48 anni, medico, psichiatra e criminologo clinico ad indirizzo psichiatrico forense, professore associato di psichiatria alla facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università di Sassari. È stata eletta dal Comitato scientifico al 7º congresso nazionale di psichiatria forense conclusosi ieri ad Alghero. Ha oltre un centinaio di pubblicazioni ed è coautrice del libro «L’omicidio per vendetta in Barbagia».
 
5 – LA NUOVA SARDEGNA
Pagina 9 - Sardegna
San Basilio spera nel cielo 
Pronto tra due anni il più grande radiotelescopio d’Europa
Parla Pino Cogodi appena rieletto alla guida del paese 
La grande parabola si eleverà per 64 metri Controllerà sonde spaziali e terremoti 
SAN BASILIO. La grande speranza è il radio-telescopio: la struttura scientifica più grande d’Europa, la terza nel mondo.
Sorgerà nella zona di “Pranu Sànguni”, la sua parabola si eleverà a un’altezza di 64 metri: capace di”leggere” le informazioni che vengono dalle onde radio, sarà pronta fra due anni e costerà quaranta milioni di euro (i denari vengono dallo Stato, la Regione interviene con un finanziamento di cinque milioni).
Tra due mesi la ditta tedesca che ha vinto l’appalto inizierà a costruire l’antenna. Il radiotelescopio di San Basilio controllerà le sonde spaziali.
Collegato con tutti gli altri radiotelescopi del pianeta, fornirà anche informazioni sui terremoti. Ma non emetterà radiazioni di alcun tipo: inquinamento, zero.
La scelta non è stata casuale, ovviamente. «Il Cnr cercava un sito adatto, lontano dalle città e a basso indice di radiazioni».
Avanza dunque l’economia del domani, per il sindaco di San Basilio Pino Cogodi, tornato alla guida del suo Comune d’origine dopo cinque anni. Cogodi è stato rieletto con una maggioranza di quelle schiaccianti, il 51,3 per cento (i voti delle due liste concorrenti, sommati, non raggiungono i 502 consensi ottenuti dal suo schieramento). Non si era mai verificato, a San Basilio.
«La fiducia - dice il sindaco - la leggo anche come una richiesta di impegno maggiore: il paese ha bisogno di essere amministrato.
E bene. Il risultato ci riempie di piacere e di orgoglio: vuol dire che ci si affida a un gruppo di persone dalle quali si attendono risultati tangibili, in un paese che ne ha bisogno come e forse più di altri». E allora partiamo dalla cronaca.
-Sarà facile o no?
«Si tratta di amministrare la comunità nella sua interezza: opere pubbliche, riordino urbanistico, creazione di posti di lavoro. Questo è il dato più evidente: quando non c’è lavoro, la gente scappa».
-Siamo in un paese in calo o la popolazione residente è stabile?
«San Basilio è rimasto stabile dal 1975, quando divenni sindaco per la prima volta, fino al 2000. Eravamo in 1512 e ci siamo stabilizzati sui 1500 per 25 anni. Gli altri paesi del Gerrei erano in calo, tranne Silius quando la miniera teneva bene. Ma negli ultimi cinque anni San Basilio registra 150 abitanti in meno».
-In più, i dati sull’occupazione sono allarmanti.
«Sì. In Sardegna il Gerrei, San Basilio compreso, ha il tasso di disoccupazione più alto: arriviamo al trentasei per cento. Naturalmente si tratta di un dato opinabile. Chi dice di più, chi di meno. Ma indicativamente la cifra è questa».
-Prospettive?
«Intanto la risorsa territorio. Saperla utilizzare significa collegarsi con i paesi vicini e pensare a percorsi di carattere culturale, naturalistico e archeologico. Quello emerso, a Pranu Mutedu di Goni, è il monumento più importante al mondo nel campo dei menhir e delle domus de janas. Inoltre abbiamo nuraghi, pozzi sacri, terme romane: una risorsa straordinaria. Ma averla e tenerla lì, inutilizzata come un cumulo di pietre, non serve. Bisogna metterla in produzione, in un circuito virtuoso che porti anche benefici economici».
-Cosa può dare il radiotelescopio?
«Molto o poco, dipende da come viene vissuto e da cosa gli si costruisce attorno. Non dà nulla, o dà pochissimo, se resta solo una struttura scientifica, per cui verranno gli scienziati, faranno le loro scoperte, ma ai cittadini di San Basilio non porterà niente. Ma può dare molto se il paese organizza una serie di attività indotte».
-Quali?
«Penso ad una modernizzazione dell’economia agro-pastorale. Il pastore avrà un valore aggiunto dal suo prodotto, con i benefici del radio telescopio. L’impianto porterà gente che verrà a studiare, anche dall’estero, oltre ai visitatori comuni. Tutti questi, però, non devono vedere la struttura e poi riprendere il pullman per ripartire subito».
-Come pensa di trattenerli a San Basilio?
«Offrendo servizi: ristorazione, impianti, svaghi, artigianato, prodotti agro-alimentari, visita agli stazzi, ai siti archeologici, itinerari a cavallo, tennis. Il luogo è bellissimo, ma questo non basta. Chi viene deve trovare prodotti della tessitura, formaggio, carne della zona con marchio di qualità garantita. E prodotti artigianali: cestini, coltelli, intaglio del legno».
-Produzioni che già esistono?
«In parte sì. Ci sono artigiani-artisti che lavorano in loco ma sono soli e non trovano sbocco. Occorre riunirli e organizzarli. L’economia non è una monocultura: si tratta di prendere iniziative diverse collegate tra loro. Uno è bravo a fare i tappeti ma non a venderli? Benissimo, tu fai i tappeti e un altro te li vende. Se uno fa un coltello e poi non lo vende, il coltello gli rimane nel cassetto. Se ne fai cento e non li vendi, smetti di lavorare».
-A ciascuno il suo mestiere, a cadaunu s’arte sua, come nei proverbi?
«Esattamente. Bisogna attrezzarsi anche con scuole di formazione. Il futuro è vicino: il radiotelescopio tra due anni entra in funzione. Dobbiamo accelerare in modo che tutto sia pronto in tempo utile: realizzare strutture per offrire ospitalità. Conto molto sui pastori, qui hanno resistito. San Basilio da solo ha più bestiame degli altri paesi del Gerrei messi insieme».
-La bontà del prodotto gioca un ruolo fondamentale.
«L’altitudine del territorio e le essenze erbose che altrove non crescono sono una bella risorsa, ma inutilizzata: non esiste un marchio di tutela. Il latte viene mischiato e tutto è pecorino: quello prodotto in stalla o in pianura e quello dei monti. Il che non è giusto né corretto».
-Un incremento dell’artigianato è possibile o già in atto?
«In una certa misura è già in atto. Qualcuno che sa di falegnameria ha fatto dei corsi di aggioramento e sta reimpiantando la sua azienda in paese. Chi era bravo a fare cestini li si sta rifacendo. I tappeti tradizionali si continuano a produrre. In più c’è l’iniziativa privata, di vera qualità».
-Un fenomeno di rilievo è la riscoperta dell’allevamento del cavallo.
«L’associazione ippica, costituita recentemente da un gruppo di ragazzi, la dice tutta sul ritorno all’amore per questo animale che rischiava di scomparire dal territorio. C’erano solo alcuni cavalli tenuti in campagna allo stato brado, neanche domati».
-Tutte le passioni possono essere passeggere. Non crede?
«Quelle individuali, forse. Ma questa è una passione collettiva».
-Mantenere un cavallo costa molto.
«Come lo tengono qui no. Si tratta di pastori che li governano personalmente. Poi c’è da considerare un altro dato: oltre alla parte sportiva, entra in gioco il rapporto con un animale nobile. Non è come la passione per la moto. Essere appassionati verso un animale vivo è tutta un’altra cosa: anche il rapporto tra gli esseri umani diventa più saldo, se c’è di mezzo il cavallo. Per via del cavallo, diverse persone che prima non si salutavano neppure hanno fatto pace e sono diventati amici».
-Come pensate di sostenere questa passione collettiva?
«La passione associata richiede strutture. Le prime necessità riguardano la pista per allenamenti e il maneggio. Chi non può permettersi un cavallo ma ha questa passione deve essere messo in grado di coltivarla. Io stesso sono un appassionato di cavalli ma non posso permettermi di averne uno: se ci fosse un maneggio ci andrei volentieri. Ancora: questa del cavallo è una risorsa che può creare qualche posto di lavoro. Vedo bene un ippodromo zonale: le associazioni ippiche del territorio lo riconoscerebbero come patrimonio comune. Pensiamo di realizzarlo nel circuito del radiotelescopio».
La lingua batte dove il dente duole. Da che mondo è mondo.
 
6 – LA NUOVA SARDEGNA
Pagina 17 - Cronaca
Giapponesi e danesi raccontano la Sardegna 
NUORO. L’isola dei Quattro mori raccontata da due angolature alquanto distanti l’una dall’altra. È la singolare proposta dell’Editrice Iris che domani pomeriggio alle 18,30, nell’auditorium della biblioteca Satta, presenta il volume «La Sardegna vista dai giapponesi», a cura di Hidenobu Jinnai, della Hosei University di Tokyo. Mercoledì alla stessa ora, invece, nella sezione sarda della Satta, verrà proposto il libro appena uscito «Sardegna. Isola sconosciuta», scritto dalla danese Marie Gamel Holten a seguito di un viaggio nella terra dei sardi effettuato nel primo decennio del Novecento. Entrambi gli appuntamenti saranno coordinati da Tonino Cugusi. Michele Ciusa, Angela Guiso e Giovanni Pigozzi saranno i relatori di domani (presenti l’autore e l’editore). Mercoledì, invece, parleranno della Sardegna vista dai danesi la scrittrice Maria Giacobbe e Annette Bodenhoff Salmon, traduttrice del testo.
 
 

7 – CORRIERE DELLA SERA
L’accusa: fretta eccessiva nell’affrontare certi temi e scarsa attenzione all’utilizzo dei concetti. Troppe materie ma approfondimento minimo. «La cultura da scritta è diventata audiovisiva»
Poco inglese e informatica, le superiori bocciate dall’università
I docenti degli atenei: alle matricole manca capacità di ragionamento. «E non possiamo perdere tempo a insegnare l’uso di Excel e Power point»
Formare la classe dirigente del futuro, garantire sbocchi lavorativi sicuri, trasformare i giovani in seri professionisti. Studenti e famiglie chiedono questo all’università: una serie di certezze che devono valere l’investimento (in tempo e denaro) fatto con tanti sacrifici. Un compito che sta diventando sempre più difficile, si lamentano i docenti universitari, per colpa della scarsa preparazione dei ragazzi. «Non hanno metodo, mancano di qualsiasi capacità di astrazione».
Cosa chiedono, allora, gli atenei alla scuola? «Capacità di ragionamento, inglese, informatica». Sono queste le lacune delle matricole secondo Andrea Beltratti, prorettore della Bocconi. «In particolare - dice - inglese e informatica sono i grandi buchi neri della scuola. Noi non possiamo perdere tempo a insegnare l’uso di Excel e Power point. Sono cose che vanno imparate fin dalle elementari. Quanto alla capacità di ragionamento, noi professori universitari riscontriamo, alle superiori, una fretta eccessiva nell’affrontare certi temi e una scarsa attenzione all’utilizzo di certi concetti».
Troppe materie, poco approfondimento. È l’accusa che i docenti universitari rivolgono ai colleghi delle superiori. «Le tecniche di insegnamento - commenta Marcello Fontanesi, rettore dell’università degli Studi Milano Bicocca - vanno più verso l’informazione senza costrutto: troppi contenuti che non formano lo scheletro necessario per affrontare certi studi».
E i numeri parlano chiaro: «Se togliamo un 15 per cento che non ha problemi - continua Fontanesi - la fascia media ha difficoltà a esprimersi e a comprendere i testi. Ci sono poi quelli che non sanno organizzarsi e altri che sbagliano nello scegliere il percorso universitario».
Colpa di una cultura che una volta era scritta e che negli ultimi sei anni è diventata «audiovisiva». L’analisi è di Giovanni Gobber, docente di Linguistica generale alla Cattolica e direttore della Siss (Scuola di specializzazione per l'insegnamento secondario): «A loro piace fare schemi, ma poi non li sanno sviluppare. Non riescono a elaborare un pensiero astratto, a categorizzare. Invece di tante materie servirebbero poche cose: soprattutto logica e matematica. Per organizzare il sapere e leggere la realtà».
Di cultura visiva parla anche Marcello Pignanelli, preside della facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali dell’Università degli Studi: «C’è un modo di ragionare legato ai nuovi mezzi di comunicazione che ha compromesso la capacità di riflettere. Ma l’analisi del fenomeno è difficile: può essere che alcune scuole abbiano funzionato peggio, che i genitori siano più lassisti. Il risultato è che per noi diventa molto difficile supplire a quello che non si è fatto prima. Potrebbe essere utile stabilire un maggior contatto con il mondo delle superiori e del lavoro». Secondo Giulio Ballio, rettore del Politecnico: «La scuola deve insegnare a studiare, a valutare, a collegare materie e argomenti».
Fatto sta che «il sistema scolastico si è impoverito e oggi l’università fa supplenza dei contenuti della scuola», commenta Giovanni Puglisi, rettore dello Iulm. «Il problema - continua - è che fin dai primi anni di formazione ci vuole una filosofia sistemica che purtroppo non c’è. Il sistema scolastico è in crisi paurosa». Ma. «Ma la colpa è anche del mondo accademico, visto che gli insegnanti di oggi sono i laureati di ieri. Allora l’università si rivaluti. E poi chieda alla scuola di fare la sua parte».
Annachiara Sacchi
 
 

8 – LA REPUBBLICA
Aumenta il numero dei "dottori"
L'identikit di 140mila laureati italiani. Divisi sul 3+2, critici sulla riforma
Il consorzio di atenei Almalaurea illustra l'indagine 2004 sulle caratteristiche e performance di chi conclude gli studi. Sono più assidui quelli delle discipline tecniche. Poche esperienze all'estero
ROMA - Quanti sono i laureati italiani, che fanno, cosa pensano della riforma. Sono alcuni dei temi del convegno promosso da Almalaurea a Firenze. Su "La qualità del capitale umano dell'università italiana" sono intervenuti nell'Aula Magna dell'ateneo fiorentino rettori, rappresentanti del mondo dell'industria, esponenti politici, portavoce degli studenti e del Miur. Il convegno è aperto anche all'osservazione internazionale, con le esperienze di rettori di università estere.
Almalaurea è un servizio nato nel 1994, su iniziativa dell'Osservatorio Statistico dell'Università di Bologna, per rendere disponibili on line i curricula dei laureati. A gestire il servizio è un consorzio di Atenei Italiani con il sostegno del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca: l'obiettivo è quello di mettere in relazione aziende e laureati, per essere punto di riferimento per tutti coloro che affrontano a vario livello le tematiche degli studi. Oggi Almalaurea presenta con il convegno di Firenze la VII Indagine sul profilo dei laureati, che fornisce una panoramica delle caratteristiche e performance dei laureati nel 2004.
Come ha spiegato il direttore di Almalaurea Andrea Cammelli, nell'illustrare l'indagine, "il rapporto restituisce alle 35 università coinvolte una documentazione (interamente consultabile online) completa, affidabile, aggiornata e articolata a livello di Ateneo, Facoltà (eventualmente per sede), corso e classe di laurea, a seconda che i laureati abbiano concluso studi del precedente ordinamento, oppure quelli post-riforma".
Un dato importante riguarda proprio i laureati di primo livello nei corsi triennali, avviati con la riforma universitaria. Fra i quasi 140mila laureati AlmaLaurea del 2004, assieme a coloro che hanno portato a termine corsi previsti nel precedente ordinamento, sono presenti infatti oltre 47mila laureati dei nuovi corsi triennali. Il loro identikit permetterà, pur con le cautele del caso, significative verifiche sullo stato di avanzamento della riforma universitaria.
Il direttore di Almalaurea ha sottolineato uno dei primi dati emersi dal rapporto, che riguarda lo stato della riforma. "Per tutta la fase di transizione, caratterizzata dalla graduale scomparsa dei tradizionali percorsi di studio e dal progressivo affermarsi del nuovo ordinamento - ha osservato Cammelli - il nodo centrale risiede nella compresenza di popolazioni diverse, nell'ambito delle quali i laureati tradizionali saranno sempre più caratterizzati da performances accidentate".
Il Rapporto analizza le caratteristiche dei laureati esaminando in particolare: età alla laurea, punteggio agli esami ed alla laurea, regolarità e durata degli studi, titolo di studio dei genitori, classe sociale di provenienza, diploma e voto di maturità, assiduità nel frequentare le lezioni, studio all'estero, esperienza di tirocinio o stage, tempo impiegato per la tesi, valutazione dell'esperienza universitaria, sostenibilità del carico di studio, conoscenza delle lingue estere, conoscenze informatiche, intenzione di proseguire gli studi, settore di lavoro preferito, caratteristiche del lavoro cercato.
L'indagine è tutt'ora in corso, ma i dati raccolti da Almalaurea consentono di conoscere ciò che gli studenti pensano della riforma. "I laureati intervistati, chiamati ad esprimere il proprio giudizio sulla Riforma universitaria - ha riferito il direttore del consorzio - si dividono equamente tra favorevoli e contrari al "3+2". Ma il sistema riformato è valutato "decisamente migliore" solo dal 15 per cento degli interpellati, la metà di quanti ritengono, invece, "decisamente migliore" il modello precedente; un modello quest'ultimo, che ottiene un indice di gradimento ancora più elevato tra i laureati regolari under 23 (37 per cento assegnato al "decisamente migliore")".
I tempi della laurea. Tra i dati che spiccano nel rapporto, quello sul numero di chi si laurea nei tempi previsti, oggi sono il 32,5% del totale contro appena il 9,5% del 2001. Secondo l'indagine Almalaurea, sono soprattutto gli studenti del gruppo medico a concludere nei tempi il percorso: ci riesce, infatti, il 60%. Si laurea in corso anche il 46% degli appartenenti al gruppo psicologico, mentre più lenti sono gli architetti (18,6%) e i gli studenti delle discipline giuridiche (15,4%). Sono ancora molti quelli che si laureano in ritardo di almeno cinque anni, rispetto ai tempi previsti dagli ordinamenti, che sfiorano il 17%. Di questi, oltre il 90% si concentra fra i laureati pre-riforma.
Età e voti dei laureati. Fra il 2001 e il 2004, l'età media alla laurea scende da 28 a 27,3 anni, per effetto della riduzione della durata legale degli studi, ma anche del minore ritardo con cui si arriva al traguardo, nonostante aumenti l'età di immatricolazione. Se si considerano i risultati conseguiti, fra il 2001 e il 2004 il punteggio degli esami è rimasto costantemente pari a una media di 26,2. Alla laurea, invece, la votazione media è passata da 102,5 su 110 a 103.
Le esperienze all'estero. Piuttosto basso il numero di chi fa esperienze all'estero: solo l'11,3% nel 2004 ha lasciato l'Italia per ragioni di studio. La partecipazione a programmi comunitari di studio all'estero è superiore fra i laureati pre-riforma in tutti i gruppi disciplinari. Stupisce anche che siano pochi i i laureati dei gruppi medico, chimico-farmaceutico, scientifico e geo-biologico (meno del 4 %) che hanno fatto esperienze in alboratori o strutture stranieri, mentre il 25,8 di quelli del gruppo linguistico ha svolto programmi dell'Unione europea), seguito a distanza dal politico-sociale (10,7%) e da architettura (8,7%).
Le aspirazioni per il futuro. Una volta finita l'università, l'82% dei laureati cerca un lavoro che consenta l'acquisizione di professionalità. Seguono, tra gli obiettivi, in ordine decrescente di rilevanza, la possibilità di carriera, la stabilità del posto di lavoro e il guadagno. I laureati triennali, rileva Almalaurea, rispetto a quelli dei precedenti ordinamenti, attribuiscono maggiore importanza alla stabilità del posto di lavoro (60% contro 55%). Le donne aspirano più degli uomini alla stabilità (10,6% in più), alla coerenza con gli studi (+8,7%) e alla rispondenza a interessi culturali (+6%). Gli uomini, invece, tendono ad attribuire più importanza, rispetto alle donne, alla carriera (+7,8%) e al guadagno (+2,9%). A livello contrattuale, quasi l'80% propende per una soluzione a tempo indeterminato e a tempo pieno. Gli altri tipi contrattuali previsti, nel loro insieme, raccolgono solo il 16,7% delle preferenze dei laureati.
26 maggio 05
Cristina Nadotti
 
9 – LA REPUBBLICA
Affari & Finanza > RAPPORTO
MULTIMEDIA pag. 26
Nasce fra la Bocconi e la Normale di Pisa un sodalizio in nome dell’arte e della cultura
Economia e beni culturali, binomio sempre più inscindibile. La Bocconi di Milano e la Normale di Pisa si ritrovano unite nella Fondazione Erga (Economia, ricerca e gestione per le arti e la cultura), con il fine di sviluppare, valorizzare e conservare il patrimonio e le industrie culturali. L’intesa è nata in seguito ad una serie di colloqui tra Salvatore Settis, direttore della Normale; Angelo Provasoli, Rettore della Bocconi; Paolo Fresco, presidente della Fondazione e del centro di ricerca Ask Bocconi; e Stefano Baia Curioni, direttore nell’Ateneo milanese della laurea in economia e management per le arti. Spiega quest’ultimo: «Erga è una nuova entità che ha lo scopo di integrare, al più alto livello qualitativo culture economicogestionali e storicoartistiche. Per la Bocconi è importante acquisire delle competenze sia culturali che artistiche ed archeologiche e creare dei team di lavoro che abbiano ben presenti gli obiettivi. Ci siamo trovati sulla stessa lunghezza d’onda e l’alleanza nasce dalla consapevolezza comune dei problemi che interessano il sistema italiano dei beni culturali e dei modi per contribuire al miglioramento».
Tra i primi progetti affrontati dal tandem BocconiNormale c’è la musealizzazione delle navi romane emerse recentemente dagli scavi di San Rossore, per il quale la Fondazione Erga ha studiato un progetto di recupero: «Purtroppo - spiega Baia Curioni – con il cambio ai vertici del ministero delle Attività Culturali – abbiamo subito una battuta di arresto, ma entro breve la situazione dovrebbe sbloccarsi e il museo prendere forma. In questo caso il team formato da economisti ed archeologi ha risolto il problema di fattibilità del museo». Non manca un tono di polemica nei confronti del sistema italiano: «Nel corso degli ultimi anni si sono evidenziate una serie di iniziative legislative e gestionali che hanno trascurato il carattere di sistema del patrimonio italiano sul territorio», spiega il direttore della Scuola Normale di Pisa, Salvatore Settis. «Tra gli avversari di un’armonica evoluzione del rapporto tra patrimonio culturale e sistema economico e sociale ci sono la carenza strutturale di risorse, lo smantellamento del sistema delle pubbliche amministrazioni e l’incoerenza dell’evoluzione degli assetti normativi. Dare un futuro coerente ed organico ad uno dei settori più strategici del sistema Paese, nel solco della tradizione delle politiche di tutela garantite dalla Costituzione, deve essere l’obiettivo primario per tutti noi. Erga potrà dare sicuramente il suo qualificato contributo».
L’Associazione è finanziata dalla Bocconi, dalla Normale e dallo stesso Fresco: «E’ un personaggio che ama l’arte – spiega Baia Curioni – ed è convinto che il patrimonio culturale può diventare un fattore di sviluppo. L’Italia ha una grande tradizione sul piano della tutela e della valorizzazione, mentre sul piano dell’efficienza c’è molto da fare». L’ipotesi di cui parla di più è affidarlo ai privati: «Il modello di gestione pubblico non è più sostenibile, bisogna trovarne un altro, ma non è facile. Ci vuole un travaso di competenze dall’economia ma non può essere fatto in modo indiscriminato. Bisogna comunque in qualche modo costruire un sapere nuovo che metta assieme le tradizioni umanistiche e le competenze economiche per un sistema che renda possibile un passaggio da una gestione completamente pubblica ad una in cui il privato giochi un ruolo rilevante».
Renata Fontanelli
 
10 – LA REPUBBLICA
Affari & Finanza > RAPPORTO
MULTIMEDIA pag. 31
L’industria entra nell’università alla ricerca del confronto con gli studenti
Le aziende hanno bisogno di parlare ai giovani. Lo fanno entrando nelle Università, cercando un ponte tra mondo accademico e mondo del lavoro. Il ponte è la tecnologia, ancora meglio se la tecnologia entra nelle aule con un progetto, un concorso con tanto di viaggio premio, come il Nokia University Program che Nokia ha indetto per il secondo anno consecutivo presso l’Università di Roma Tor Vergata, l’Università di Roma Tre, il Politecnico di Milano e l’Università di Catania. Studenti di Economia, Lettere e Ingegneria gestionale si sono sfidati sul tema "Mobile business: vivere in mobilità tra business e quotidiano. Quali scenari per chi entrerà nel mondo del lavoro?". La premiazione del gruppo di lavoro che ha formulato il miglior piano marketing per il lancio del Nokia 9500 Communicator è stata l’occasione per aprire un dialogo tra aziende (erano presenti rappresentanti di Ibm, Nokia e Indesit) e mondo accademico.
Al centro della tavola rotonda alcuni dati incoraggianti (fonte Eurisko) sui futuri lavoratori: il 60% dei giovani tra i 20 e i 24 anni usa il computer a casa, solo il 20 a scuola o all’università; il 62 nella stessa fascia di età si è collegato a Internet negli ultimi tre mesi del 2004 e il 5 per cento di essi ha utilizzato un palmare o un cellulare per navigare. Quasi tutti (il 97%) utilizzano un telefonino e il 26% invia e riceve Mms. La mobilità non è dunque un’arte che va insegnata ma una utilità già ben conosciuta dai giovani. «La tecnologia in sé non serve a nulla se non trova applicazione», spiega Francesco Gazzoletti di Ibm. «Ha un senso solo se viene utilizzata per ottimizzare i processi, sui quali agisce in due modi, o li modifica o li semplifica. Aiuta a gestire la complessità, rendendo i processi più veloci e riducendo i tempi di timetomarket».
Non è un caso che sia stato scelto il 9500 Communicator, lo smartphone che Nokia ha prodotto per soddisfare le esigenze di chi lavora in movimento. La possibilità di essere sempre online potrebbe però trasformarsi in un boomerang e far prevalere un modello di tipo giapponese, in cui non si stacca mai la spina dal lavoro? «Ci vuole un’educazione al lavoro in mobilità», dice Alessandro Lamanna, capo di Nokia Mobile Phones Italia. «L’Enterprise Solutions deve essere un driver di crescita per fornire non più solo terminali mobili ma soluzioni complete per la mobilità. Terminali, architetture di rete, software e applicazioni devono semplificare il business e migliorare il rapporto tra vita privata e lavorativa. Evitando gli eccessi appunto del modello giapponese dove la gente lavora, guadagna ma non ha il tempo di spendere. Da noi il turn over dei dipendenti è vicino allo zero perché diamo una grande importanza alla qualità della vita».
Il concorso è un momento di verifica per osservare come si lavora nelle università, soprattutto a livello di formazione etica, di sviluppo della responsabilità. «Il mondo accademico è la prima fonte di capitale umano, infatti la maggior parte dei manager che oggi lavorano in Nokia sono stati presi dagli atenei pubblici e privati tramite stage e poi sono stati formati internamente. Questo programma è un’opportunità che diamo ai giovani per vedere da vicino come funziona un’azienda e un’occasione che noi abbiamo per poter cogliere quei giovani che dimostrano di avere un approccio positivo alla risoluzione dei problemi e una particolare attitudine a lavorare in team».
Agnese Ananasso
 
11 – LA REPUBBLICA
Affari & Finanza > RAPPORTO
PRIMO PIANO pag. 10
Che cosa faremo con i chip da mille miliardi di transistor
«Oggi su un chip di un centimetro di lato abbiamo circa un miliardo di transistor. Nel 2020 arriveremo a mille miliardi. Poi si vedrà che cosa fare. Ma la strada verso i mille miliardi di transistor è già aperta". Paolo Gargini è il capo della ricerca tecnologica di Intel, la maggiore azienda del settore. E è convinto che la legge di Moore (uno dei fondatori di Intel), enunciata nel 1965 che predisse il raddoppio della capacità dei chip ogni dodici mesi, sia ancora valida.
Paolo Gargini è in questo momento in Italia per una serie di contatti e di conferenze, ma sta sempre in giro per il mondo e vede una quantità enorme di laboratori di ricerca e di aziende del suo stesso settore. Seduto di fronte a me, a un certo punto chiede: «Posso farle una fotografia». Ma certo, ma perché? «Beh, vedo che prende ancora appunti con carta e penna, questa è una rarità. In America o in Giappone non si fa più».
Sta scherzando?
«No, no. All’Università di Stanford, ad esempio, hanno abolito la carta. Si fa tutto in elettronico. E’ una specie di punto d’onore, ma la carta non la usano più. Lei è uno degli ultimi che usa ancora la penna».
Torniamo ai chip. Che cosa ce ne faremo di un chip con dentro mille miliardi di transistor, cioè mille volte più potente di oggi?
«Tutto quello che vogliamo — allarga le braccia Gargini — qualunque cosa ci verrà in mente».
E’ un po’ vaga come risposta.
«E’ la domanda che era impropria. Ma si consoli, non è il solo. Molti anni fa uno scienziato del settore, appresa la notizia che stavano per mettere 65 mila transistor in un chip, sbottò: Ma che cosa se ne faranno mai di tutti questi transistors?". Oggi lavoriamo tutti con dei chip che arrivano a un miliardo di transistor e ci troviamo benissimo».
Rimane il fatto che mille miliardi di transistor fanno un po’ impressione.
«Ma saranno utili».
Per fare che cosa, insisto.
«Ogni volta che si va in Giappone, ogni ditta ti porta a vedere la "casa elettronica" che hanno messo insieme. Le luci si accendono schioccando le dita e ci sono molte altre meraviglie come questa. L’unica cosa che non ti fanno vedere è che dietro le pareti della casa c’è un computer grande come la casa stessa. Ecco, tutto questo è destinato a ridursi con il progresso dei chip e quindi anno dopo anno diventerà sempre più alla nostra portata».
Proprio in quel momento uno dei miei smartphone si mette a suonare e a me scappa uno: "Ma stai un po’ zitto".
Gargini non perdona: «Vede, ha appena fatto una cosa molto naturale: ha cercato di parlare con il suo apparato, ma lui oggi non può capirla. Fra qualche anno la capirà benissimo. Dobbiamo solo dargli una maggiore capacità di elaborazione. A questo servono i chip sempre più potenti. Da un certo momento in avanti tutti parleremo con i nostri computer. La stessa cosa accadrà con le automobili e con altri oggetti».
Vuole parlare con le automobili?
«In Giappone si fa già. Ci sono automobili, e costano appena 30 mila dollari, dove ad esempio i comandi per la radio si danno a voce: alza il volume, abbassalo, ecc. E ci sono anche sistemi di navigazione ai quali basta dire: portami a casa. E il sistema disegna subito la "rotta" per casa e comincia a dare istruzioni al guidatore. In avvenire si potrà fare il modo che sia il sistema a guidare letteralmente la vettura».
Tutto questo grazie ai chip?
«I chip sono ciò che rende possibile tutto questo. E con costi sempre più bassi. Abbiamo calcolato che nel 1978 un volo New YorkParigi costava 900 dollari e richiedeva sette ore. Se il trasporto aereo si fosse evoluito come i chip, oggi quello stesso viaggio costerebbe meno di un centesimo di dollaro e durerebbe meno di un secondo».
Però si va avanti.
«Sì. Più potenza abbiamo, più sono piccoli gli apparati elettronici, più cose si possono fare. Ci sono attività che richiedono molta potenza di elaborazione e molta memoria. L’evoluzione dei chip serve a mettere a disposizione della gente tutto questo».
Domanda idiota: dove finiremo?
«Si sa già. Una risposta semplice si trova sempre in Giappone. Dove ho visto delle cabine telefoniche dove non c’è più il telefono, ma solo uno sgabello. Uno si siede lì, chiude la porta e con il suo cellulare telefona. Ma possiamo andare più avanti e dire che finiremo in un mondo in cui saremo tutti collegati in rete e in cui i nostri apparati (pc, notebook e telefonini) saranno collegati in rete e nel giro di pochi istanti potranno dare una risposta a qualsiasi nostra domanda. Lo sforzo attuale è quello di portare i computer a ragionare sempre di più al nostro posto. Ma questo richiede che essi imparino a fare valutazioni di probabilità e questo richiede enormi capacità di elaborazione. Capacità che stanno arrivando».
Lei è molto ottimista, positivo. Ma ogni tanto si sente dire che siete ormai arrivati al limite. Che non si possono fare chip con dentro ancora più transistors.
«Faccio questo mestiere da trent’anni e sento dire questa stessa cosa regolarmente ogni cinque anni. In realtà stiamo andando avanti e arriveremo a mille miliardi di transistor entro il 2020. Poi si inventerà qualcosa. Anche se abbiamo già qualche idea».
Tipo?
«Lei sa che nei transistor gli elettroni viaggiano da un punto all’altro aprendo o chiudendo circuiti. Fra l’altro, è questo "viaggiare" che provoca il calore. Adesso si sta lavorando sull’utilizzazione dello spin degli elettroni, cioè sulla rotazione che fanno su se stessi. In avvenire, quindi, avremo degli elettroni che stanno fermi, non si muovono più, ma che ruotando su se stessi aprono e chiudono circuiti».
Voi all’Intel avete messo a punto il Centrino, cioè il chip che si collega agli impianti WiFi nel raggio di poche decine di metri. E’ vero che siete pronti a fare un balzo in avanti.
«Assolutamente, il successore di Centrino potrà collegarsi con antenne sistemate anche a decine di chilometri di distanza. Tecnicamente non ci sono problemi. Molto dipenderà da quello che decideranno gli operatori e le autorità. Penso che si partirà con collegamenti, via radio, nel raggio di alcune centinaia di metri. Ma noi, ripeto, possiamo già arrivare a decine di chilometri».
Come è organizzata la vostra ricerca?
«Quando Intel ha cominciato, il modello era quello dei Bell Laboratories. Grandi complessi con grandi concentrazioni di ricercatori. Tutti molto costosi. Intel ha scelto una strada diversa. Poca gente al centro, ma moltissimi contratti con ricercatori esterni e con moltissime università».
Con quante entità esterne oggi lei ha contatti?
«Qualche centinaio. Si fanno dei contratti di un anno o due, poi si vede. Oggi Intel, che in ricerca spende 5,2 miliardi di dollari all’anno, va avanti grazie a una sorta di intelligenza planetaria. In questo momento c’è gente che sta pensando per noi in tutti i Continenti».
Qui in Italia si continua a dire che dobbiamo fare più ricerca. Ma, da quello che lei dice, mi sembra di capire che siamo fritti, forse ci conviene lasciar perdere e continuare a fare delle pizze.
«No. Per fare una buona ricerca servono due cose: il talento e la capacità di scegliere gli obiettivi. Il talento è ovunque, non è esclusiva di questo o di quel paese. E le scuole italiane sono come le altre. Io mi sono laureato a Firenze e poi sono andato in America. Non ho mai avvertito lacune nella mia preparazione e la stessa cosa è capitata a altri italiani che sono venuti a lavorare in America. Quindi sul piano dei talenti e della preparazione scolastica l’Italia è a posto».
Allora possiamo partire …
«Certamente. Dovete però fare molta attenzione: c’è infatti il secondo problema, e cioè saper scegliere che cosa cercare. E questa è la parte davvero difficile. E poi dovete rendervi conto che i tempi, in questo mestiere sono purtroppo lunghissimi. Ricordo sempre che i brevetti per i transistor risalgono agli anni Venti. Ma per vedere qualcosa di concreto abbiamo dovuto aspettare qualche altra decina di anni».
Questo un po’ scoraggia …
«No. Si tratta di partire. Poi si vedrà. All’Intel, ad esempio, io ho già i piani di ricerca fino al 2015 fatti, ho la gente nei laboratori e ciascuno sa che cosa deve fare. Qualcuno troverà dei buoni risultati, qualcuno no. Ma tutti sono al lavoro per cose che io so che mi arriveranno dopo il 2010».
E lei intanto che cosa fa?
«Sto cercando di scegliere come impostare il lavoro dal 2015 in avanti. Ci sono diversi progetti, dobbiamo scegliere quali strade imboccare, su che cosa investire soldi e talenti e cosa lasciar perdere».
Giuseppe Turani
 
12 – LA REPUBBLICA
Affari & Finanza > RAPPORTO
ATTUALITA pag. 16
Cellule staminali, il momento della verità
La ricerca sulle cellule staminali desta ancora una volta novità clamorose. L’ultimo caso apparso su Science è quella del medico coreano Woo Suk Hwant, dell'Università Nazionale di Seul, che insieme a 22 colleghi sudcoreani e a 2 ricercatori americani hanno creato 11 linee cellulari embrionarie personalizzate per altrettanti pazienti. Al momento non si sa come utilizzarle per curarli, ma forse serviranno in futuro, anche se non si sa quanto remoto. Si tratta di questo: utilizzando forti dosi di ormoni, Hwang ha fatto maturare contemporaneamente molte uova nelle ovaie di 18 giovani donne. Le ha poi prelevate, ne ha tolto il nucleo centrale che contiene il patrimonio genetico delle donatrici, e al loro posto ha inserito il ‘tuorlo’ di cellule della pelle di 11 pazienti di età compresa fra 2 e 56 anni affetti da varie malattie: 9 avevano subito lesioni del midollo spinale, uno soffriva di una malattia genetica congenita, un altro di diabete giovanile. Il processo di fusione ha avuto successo in 129 cellule su 185 uova raccolte ma solo 31 si sono comportate come cellule fecondate e sono giunte allo stadio successivo di embrioneblastocisti (cioè 5 giorni dopo la fecondazione), e solo 11 a loro volta hanno sviluppato una linea cellulare, cioè hanno cominciato a differenziarsi come fa un embrione.
In realtà tutta l'operazione ha avuto un indice di successo basso, del 5,9%. Per ora non ci sono applicazioni pratiche e le cellule clonate non sono utilizzabili per curare i malati dai quali le cellule della pelle erano state prelevate perché le cellule staminali generate con l'uso delle cellule dei pazienti sono probabilmente difettive, cioè non si comportano come una cellula staminale normale: non si sa cosa possono combinare e quindi non possono essere usate nei pazienti.
A distanza di 24 ore dalla notizia proveniente dalla Corea, è stato annunciato che ricercatori britannici dell'università di Newcastle hanno creato in laboratorio il primo embrione umano clonato in Gran Bretagna. Obiettivo della ricerca, mettere a punto embrioni "fotocopia" le cui cellule possano essere impiegate per curare diverse malattie. In pratica, gli autori dell'esperimento hanno prelevato gli ovuli da undici donne, hanno rimosso il materiale genetico e lo hanno sostituito con il Dna prelevato da cellule staminali embrionali.
Non si tratta di clonazione riproduttiva, sottolineano i ricercatori, una pratica fuori legge nel Regno Unito dal 2001. Nella ricerca condotta a Newcastle, tre degli embrioni clonati si sono sviluppati in laboratorio per tre giorni, e uno è sopravvissuto per cinque giorni. Come mai tanta attenzione per le ricerche sulle staminali se però i fondi per la ricerca arrivano solo per ora dal settore pubblico? Come spiega Claudio Bordignon direttore scientifico dell’Istituto scientifico del San Raffaele «mentre il settore pubblico è interessato comunque a finanziare le ricerche sulle cellule staminali perché pressato dalla pubblica opinione e dai media, le multinazionali farmaceutiche non investono perché le ricerche sono davvero lunghe e per ora non si prevedono terapie. Inoltre, le ricadute cliniche non sono prevedibili e comunque ogni paziente dovrebbe avere una terapia fortemente personalizzata». Il settore pubblico rimane dunque per ora l’unico interessato a finanziare la ricerca sulle staminali, ma sono piccoli fondi se comparati con gli investimenti che le aziende farmaceutiche solitamente fanno per portare un farmaco alla fase di sperimentazione umana. Forse si arriverà a poter disporre di cellule staminali di base che poi si potranno adattare ad ogni singolo paziente. Si sta anche cominciando ad investire nello sviluppo di molecole che regolano la produzione di staminali direttamente nel paziente, ma sono scenari ancora futuribili e che comportano anche enormi investimenti sulle strutture sanitarie. Angelo Vescovi, direttore del gruppo di ricerca sulle cellule staminali nervose allo Stem Cell Research Institute dell’ università di Edimburgo e condirettore dell’Istituto di ricerca sulle cellule staminali del San Raffaele sottolinea: «Il tempo per parlare di terapie è davvero di là da venire. Queste sono notizie sensazionalistiche. Che la scienza sia arrivata a poter clonare un uomo già si sapeva, quello che ci sarebbe da chiedersi è che senso ha farlo».
Laura Kiss
 
13 – LA REPUBBLICA
Affari & Finanza > RAPPORTO
MULTIMEDIA pag. 20
Il Cern sperimenta Internet2
Un flusso continuo di dati provenienti dal Cern di Ginevra e diretti verso sette diversi centri in Europa e negli Stati Uniti, a una media di 600 megabyte per secondo, per dieci giorni consecutivi: è il nuovo record della rete Grid del progetto di Ginevra. Il test (il secondo dei quattro programmati) effettuato nei giorni scorsi ha ottenuto successo segnando cosi un importante passo avanti per la realizzazione del progetto Lhc computing Grid.
La prova, che consisteva nella trasmissione di un enorme quantitativo di dati a raggiera da un server centrale verso migliaia di terminali nel mondo, ha superato le aspettative, sostenendo circa un terzo della portata di megabyte prevista con l’entrata in funzione di Lhc, Large Hadron Collider, l’acceleratore di elettroni del Cern. Sono stati infatti raggiunti picchi di oltre 800 megabyte al secondo. Un passaggio chiave dunque nella gestione dell’enorme flusso di dati che si prevede saranno generati da Lhc e che comincera a funzionare nel 2007.
Si tratta di una particolare strumentazione che si usa nell’ambito di ricerche fisiche particellari a cui si devono i nuovi traguardi degli ultimi anni soprattutto nel campo della ricerca di base delle nuove tecnologie e le sue svariate applicazioni. Al suo interno collideranno raggi protoni a una velocità di 14 TeV (1 TeV, l’energia di movimento prodotta dal volo di una zanzara). Gli scienziati potranno quindi per la prima volta studiarne le reazioni, in uno scambio continuo di dati.
Internet, o meglio Internet2 o la nuova autostrada informatica superveloce, è ormai elemento ormai imprescindibile dalla ricerca scientifica. Con la rete Grid infatti sarà possibile incamerare enormi flussi di dati disponibili in tempo reale da migliaia di terminali collegati.
Sono oltre sei mila, infatti, i ricercatori nel mondo negli oltre 200 centri di ricerca impegnati negli esperimenti con l’acceleratore di ioni del Cern, il piu grosso strumento di questo tipo nel mondo. Large Hadron Collider, nel 2007, produrrà qualcosa come 15 milioni di gigabyte o 10 petabyte di dati annualmente.
Tradotto in termini semplici vuol dire più di mille volte la quantità di libri prodotti annualmente nel mondo e quasi il 10% di tutte le informazioni e dati che l’uomo produce ogni anno, incluso immagini digitali. L’unico modo per rendere accessibile questa quantità di dati (ancora maggiore se si considera che verranno archiviati i dati prodotti dagli esperimenti del Cern degli ultimi dieci anni) alla comunità scientifica sembra quindi la tecnologia "Grid".
Una tecnologia che potrebbe poi espandersi fuori dalla Comunità scientifica e raggiungere un più vasto numero di utenti. Prime fra tutti le università, la cui mole di dati in ricezione e trasmissione attraverso i sistemi informativi diventa sempre più alta. E poi, i centri di produzione industriale a cui non dispiace certamente di poter utilizzare una rete potente e ad altissima velocità per le comunicazioni tra sedi distaccate in tutto il mondo.
Il sistema Grid, infine, potrebbe avere anche risvolti commerciali più "normali" per la trasmissione ad alta velocità di segnali video e audio, per il broadcast e per la telefonia mobile. Per questo, si vanno anche studiando soluzioni che consentono forme di comunicazione "wireless". Infine, l’Internet 2 potrebbe arrivare a sostituire l’ormai relativamente lenta rete mondiale di comunicazione attraverso il Web.
Susanna Jacona Salafia

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