Press review

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
12 June 2005
 Ufficio Stampa
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI

 
1 – L’Unione Sarda
Pagina 22 – Cagliari
Tra le soluzioni un uso intelligente dei multipiano e una diversa politica tariffaria
I mali di una città in sosta vietata
«Accessi sovraffollati, strade ingombre»
Per chiunque di noi è una maledizione, per lei oggetto di studio. Il traffico - con le sue patologie come gli ingorghi alle porte del centro abitato, le strozzature provocate dalla sosta selvaggia e gli squilibri nell'uso dei mezzi pubblici, di cui parliamo nell'articolo in basso - è da anni sotto il microscopio dell'ingener Elisabetta Cherchi, PhD in Tecnica ed economia dei trasporti, post-dottorato in Scienza dell'ingegneria, autrice insieme al professor Italo Meloni delle 300 pagine dedicate alla "Gestione della mobilità nelle aree urbane - Interventi per la riduzione dell'inquinamento da traffico". A chiederle una diagnosi sul traffico cagliaritano, risponde che non sarà agonizzante come può sembrare agli automobilisti che si incolonnano su viale Marconi, «ma neppure sano. Le centraline che rilevano l'inquinamento atmosferico ci dicono che non siamo certo ai livelli milanesi, per intenderci. Anche se quando leggiamo quei dati bisogna ricordare che qui il vento spazza via l'inquinamento. Diciamo che comunque, quando va male, uno spostamento che richiederebbe venti minuti può portare via tre quarti d'ora. Un ritardo relativamente accettabile. Ma nell'arco di una vita, quanto incidono molti ritardi contenuti?». Quali sono i punti critici? «Gli ingressi della città, evidentemente. L'asse mediano va bene, ma proprio il fatto che funzioni egregiamente impone un'altra domanda: una volta che fai entrare la gente in città, dove la metti? Gli automobilisti che scorrono senza problemi lungo l'asse mediano a un centro punto dovranno fermarsi e trovare un parcheggio». Al tempo, si è sempre detto che i parcheggi sono attrattori di traffico. «Tutti gli interventi che migliorano l'offerta attraggono traffico. Anche agire per rendere più fluida la circolazione fa aumentare il traffico. E anche i parcheggi, certo, che però servono. Direi che c'è una carenza oggettiva, il problema di fondo è liberare le strade e lasciarle aperte ai pedoni, ai mezzi di trasporto collettivo e ai pedoni». Più che altro c'è una carenza oggettiva di clienti: i multipiano sono semivuoti. «E questo è il punto. Una delle leve è una politica tariffaria differenziata, con i parcheggi stradali da destinare alla sosta breve e quelli di scambio che costano sempre meno con il passare delle ore. Ma al tempo stesso bisogna sgomberare dai parcheggi gli assi di scorrimento principali, a quel punto si decongestiona la strada e i multipiano vengono utilizzati. A una condizione: che ci sia controllo, in modo da impedire la sosta vietata». In effetti tra multipiano e striscia blu la sosta vietata per molti è una terza via. «No, è la prima via. In dieci minuti in giro per Cagliari ho raccolto una documentazione fotografica desolante su auto in doppia fila e in divieto di sosta. Ci sono molti modi per scoraggiare la logica del lascio l'auto un momentino ed entro a comprare il pane. Per esempio cambiare la pavimentazione nelle zone dove le auto non devono passare: psicologicamente è un deterrente piuttosto efficace vedere che in un'area c'è, per esempio, un selciato esteticamente gradevole; dove vede asfalto, l'automobilista si sente più o meno autorizzato a parcheggiare. Ma anche sistemi fissi o semifissi che impediscano la sosta. Ma soprattutto il controllo, lo ripeto». Bisogna militarizzare la città? «Militarizzare è una brutta parola, ma dall'anarchia totale alla repressione ferrea c'è una tutta gamma di possibilità». (cel.ta.)
 
i dati Mezzo milione di spostamenti ogni giorno
E se l'ora di punta, incubo di ogni automobilista, fosse un falso problema? Secondo uno studio del "Centro ricerche modelli di mobilità" diretto dal professor Italo Meloni, solo il 10 per cento dei 100 mila veicoli che entrano ogni giorno a Cagliari (dati del 2000) lo fa nell'ora di maggior congestione, all'inizio della mattinata. Il cosiddetto momento critico della circolazione sembra essersi dilatato molto, e l'utilizzo dell'auto resta a livelli molto massicci. Nell'area all'interno della 554 gli spostamenti sono quasi un milione al giorno (950 mila). Dentro Cagliari siamo oltre il mezzo milione (540 mila), per la gran parte effettuati in automobile. E quel che è peggio, per la gran parte le automobili hanno a bordo il solo guidatore: su cento soggetti che si muovono dentro la città, quelli che usano l'autobus sono 7 o 8, mentre 44 guidano l'auto, 19 viaggiano in automobile come passeggeri e 29 scelgono altre soluzioni. Eppure il rifiuto degli autobus non è una scelta ideologica: secondo lo studio del Crimm il 78 per cento dei 60 mila che ogni giorno raggiungono il Poetto lo fa in auto, ma oltre l'80 per cento ha preso in considerazione l'idea di utilizzare i mezzi pubblici. Poi non ha fatto, certo. Ed è questo il problema da aggredire.
 
 
 
2 – L’Unione Sarda
Pagina 32 – Provincia di Cagliari
Il Comune aspetta il via libera ai lavori
La Regione prende tempo per lo svincolo sulla 554
La Regione lascia in ponte la città per lo svincolo sulla 554. I due assessorati regionali che da mesi sembrano nuotare in direzioni differenti sul progetto escono allo scoperto: dall'Urbanistica soltanto un silenzio assoluto, dai Lavori pubblici arriva solidarietà per il Comune. Risultato: la spada di Damocle della valutazione d'impatto ambientale sollevata sul maxi svincolo dal Comitato tecnico regionale all'Urbanistica è ancora sospesa. Dopo l'appello del rettore Pasquale Mistretta al Governatore Soru, e le parole del sindaco Antonio Vacca che invita la Regione a decidere una volta per tutte, nessun documento ufficiale che chiarisca la sorte del progetto è arrivato a destinazione. A svelare qualcosa in più è Carlo Mannoni, assessore regionale ai Lavori Pubblici. «All'inizio del mio mandato ho già trovato tutto fatto, quindi non posso vantare paternità sull'approvazione del progetto», dice Mannoni, «ma posso dire che condivido le scelte passate. Ancora non ho avuto copia della decisione presa dal comitato tecnico all'urbanistica ma ufficiosamente ho saputo che i tecnici hanno preso atto della richiesta di Monserrato della variazione urbanistica e quindi delle controdeduzioni». Però? «Il comitato sembra che raccomandi in sede esecutiva del progetto di avere una valutazione d'impatto ambientale». Nessun no al ponte perciò? «Non so niente di ufficiale ma se variazioni dovranno essere fatte si faranno in seguito». Mannoni ribadisce l'appoggio del suo assessorato al maxi ponte. «Spero che l'Urbanistica si esprima in merito il prima possibile e mi auguro che approvi l'opera anche perché Monserrato rischia di diventare l'anello debole dell'intera faccenda quando in realtà non ha colpa». Nessuna dichiarazione da Gianvalerio Sanna, assessore regionale all'Urbanistica: «Io non c'entro niente con il Comitato tecnico», dice, demandando spiegazioni sulla decisione presa al direttore generale del settore, Paola Lucia Cannas. Difficile però avere una risposta alle mille domande che in questi giorni si stanno ponendo Comune, Provincia e Università. L'ingegnere che firmò a gennaio le osservazioni alla richiesta potrebbe però rilasciare il suo parere al più presto.
Serena Sequi
 
 
3 – L’Unione Sarda
Pagina 47 – Cultura
Convegni. Sabato prossimo si incontreranno per discuterne studiosi sardi e spagnoli
L'affascinante storia del Marchesato di Orani
L'Associazione Culturale Orani nel mondo organizza sabato prossimo, 18 giugno, un convegno-studio sulla storia del Marchesato di Orani. Interverranno come relatori importanti accademici sardi e spagnoli con l'obiettivo di rendere pubbliche le ricerche documentali fatte in terra spagnola da un gruppo di ricercatori guidati dal professor Pedro Moreno Meyerhoff dell'Università di Lleida. Il Convegno sul Marchesato di Orani, un periodo storico che abbraccia quasi quattrocento anni, nasce da una curiosa coincidenza. L'associazione gestisce da anni un sito internet dedicato al paese (www.orani.it) dove confluiscono notizie, informazioni ed articoli di qualsiasi genere riguardanti la comunità. Duue anni l'associazione fu contattata dal professor Meyerhoff, che aveva già avviato le sue ricerche sull'argomento, ed così si scoprì che il titolo di Marchese di Orani era un titolo nobiliare ancora esistente: si trattava più precisamente di una Marchesa, María del Rosario Cayetana Fitz James-Stuart y Silva, nobile spagnola di Madrid, erede del titolo in questione. Il Professor Meyerhoff aveva non solo ritrovato l'attuale Marchesa di Orani ma aveva ricostruito tutta la linea del titolo a partire dal primo Marchese di Orani Dona Ana De Portugal y Borja sino all'attuale Marchesa (pagine pubblicate sia in spagnolo che in italiano sul sito). L'argomento, che comprende la storia di diversi paesi che si collegavano ed attivamente partecipavano con il Marchesato di Orani (dalla Curatoria di Dore ad Arborea , dal Ducato di Mandas alla Baronia di Gemini-Gallura, dalla Barbagia di Ollolai alla Curatoria di Bitti etc.) è risultato di grande interesse storico culturale sia alla Associazione che alle varie autorità e studiosi: così è nata l'idea di approfondire i vari temi. Il primo sicuramente di carattere storico (considerate la grandi lacune della storia sarda) : riportare alla luce un periodo della storia che, per quanto discutibile, ha lasciato segni indelebili nel territorio. «Capire le motivazioni e rileggere gli accadimenti di quel periodo attraverso la lente di ingrandimento di storici qualificati sia sardi che spagnoli può essere uno stimolo importante per creare un flusso positivo di interesse verso argomenti che riguardano il nostro recente passato», dice una nota dell'associazione. L'altro obiettivo, non secondario rispetto al primo, è quello di creare un ponte tra culture molto simili, in modo tale che attraverso scambi di questo tipo si vengano a creare delle sinergie positive che favoriscano la crescita di entrambi. Sabato oltre alla visione digitale di documenti storici , sarà esposta alla vista del pubblico , uno dei più antichi paramenti sacri attualmente esistenti in Sardegna , " Pianeta " raffigurante uno degli stemmi del Marchesato di Orani, di proprietà della Parrocchia di Orgosolo , gentilmente concessa in prestito dal Parroco Don Casula.
 
 
4 – L’Unione Sarda
Pagina 46 – Cultura
Ogni anno si estinguono diecimila specie viventi: strage da fermare
Parla Renato Massa docente a Milano di Biologia animale e autore de "Il secolo della biodiversità"
L'emergenza terra continua. Archiviata la giornata mondiale dell'ambiente, scatta l'avventura del secolo della biodiversità, collegata alla Giornata mondiale della diversità biologica istituita dal protocollo di Rio nel 1992. L'evento, che secondo Kofi Annan, il segretario generale delle Nazioni Unite, deve trasformarsi in una quotidiana "consapevolezza globale del valore della diversità biologica e soprattutto dare il massimo per conservare la nostra inestimabile fonte di vita ", per l'Italia sarà celebrato a Napoli, dal 22 al 26 giugno alla Villa Comunale. Il richiamo dell'alto funzionario è un fondato grido d'allarme. Il mondo è sull'orlo del disastro. I progressi industriali e tecnologici, il consumo sfrenato di risorse naturali e l'inquinamento, hanno messo alle corde il nostro pianeta e le migliaia di specie che lo abitano. Diecimila, forse trentamila ogni anno spariscono inghiottite da un processo d'estinzione che si è fatto sempre più rapido e aggressivo. Per questo, il XXI Secolo dovrà essere quello della difesa della biodiversità, o per la terra non si potrà più parlare di futuro. A questo argomento sempre più pressante, Renato Massa, docente di Biologa Animale e di Conservazione della Natura all'Università degli Studi di Milano Bicocca, ha dedicato un saggio incalzante come un'inchiesta ed esaustivo come un reportage Il secolo della biodiversità (Jaca Book, pagine 202, euro 14). Quante specie sono esistite sulla terra? Quante ne esistono oggi? Qual è la durata media della loro esistenza? È a rischio anche l'uomo? Lo chiediamo al professor Massa. «È anche possibile- spiega lo studioso ? che il collasso della natura sul pianeta Terra possa coinvolgere milioni di specie, ma non necessariamente l'uomo. Bisogna però considerare che se il pianeta dovesse rispondere in modo attivo all'erosione di biodiversità oggi in atto, alla distruzione degli ambienti più ricchi che esso è riuscito a creare con i suoi meccanismi evolutivi in centinaia di milioni d'anni, è possibile che lo spazio ecologico della nostra specie venga a mancare così com'è avvenuto in passato per lo spazio di altre specie che hanno preparato da sole la loro rovina». Professore, che cos'è la biodiversità? «La biodiversità è la varietà della vita ai suoi diversi livelli: dal livello di gene a quello di biosfera relativamente a quello che conosciamo, poiché attualmente ignoriamo presenze di vita in altri pianeti. I geni preservano le caratteristiche delle forme viventi, che sono plastiche e si evolvono in continuazione, e la loro evoluzione dipende dalle pressioni selettive dell'ambiente. Ad ogni livello, l'ambiente in cui viene a trovarsi un organismo, determina le caratteristiche delle forme viventi. È una cosa alla quale raramente pensiamo, ma la testimonianza più semplice, sono gli animali domestici che hanno passato migliaia d'anni a contatto con l'uomo come armenti nelle stalle o nelle aie, e questo li ha trasformati profondamente perché sono stati soggetti a pressioni selettive completamente diverse». Perché il XXI secolo è stato proclamato il secolo della biodiversità? «Perché siamo arrivati al punto critico: già nel secolo ventesimo la biodiversità è andata in crisi, e l'idea di continuare per altri cento anni con questo ritmo di distruzione è impensabile. Consumando e distruggendo, non abbiamo la più pallida idea di che cosa potrebbe essere la terra alla fine del XXI Secolo. Recentemente, alcuni sindaci delle città americane hanno deciso di applicare il protocollo di Kioto anche se il presidente Bush è contrario, perché le città ormai sono invivibili». Ma qual è il problema più pressante in questo momento? Il problema è l'estinzione di migliaia di specie ogni anno, che deve essere fermata. Le forme di vita presenti sulla terra rispondono all'esistenza energetica di sfruttare le risorse esistenti. C'è chi mangia le foglie, chi gli insetti, o i funghi. Un utilizzo oculato delle risorse permette a più specie di trovare di che vivere in una determinata area. Dell'estinzione delle specie ne parlano solo le associazioni ambientaliste, in una maniera a mio parere molto parziale che rischia di farlo vedere come un problema secondario. In realtà con tutte le specie che si estinguono, e che non sono solo la tigre o il panda, ma anche gli insetti e le piccole piante, che vanno a costituire la trama che ci consente di mangiare e di vivere, la terra rischia davvero grosso. Ma esattamente, che cosa sta accadendo al pianeta terra con la moderna crisi ecologica? «Sarà successo anche in passato che alcune specie modificano l'ambiente, rendendolo inadatto alle loro stesse necessità. Questo non sarà successo per i dinosauri, rimasti probabilmente vittime di un disastro cosmico, ma è una cosa che vediamo capitare sempre più spesso. Ci sono animali, delle zone umide o piante che contribuiscono all'interramento, e poi nella zona interrata non possono vivere, e preparano la strada ad altri organismi. E per loro natura, tutte le diverse forme in cui si presenta la vita, sono sensibilissime ai cambiamenti del loro ambiente chimico ? fisico e anche biologico. Per questo nel corso della storia hanno subito un continuo rimodellamento, e una continua estinzione di modelli non più all'altezza della situazione. È sempre esistito un normale tasso di estinzione, ma attualmente il numero delle specie che scompare aumenta vertiginosamente rispetto alla media generale presunta: possiamo permetterci un simile spreco?». La scomparsa di tante specie animali, non potrebbe rientrare in un processo evolutivo alla Darwin, anziché in una degenerazione della terra? «Questo tipo di evoluzione avviene, ma le estinzioni sono talmente numerose che sono fuori dal normale e uguali a quelle dei periodi speciali, come la fine del permiano o del cretaceo. In questo quadro di estinzioni numerose e ravvicinate scompaiono interi ecosistemi, e il rischio è che alla fine scompaia anche l'uomo». Una delle ragioni più importanti della scomparsa di tante specie, pare sia la deforestazione. È davvero così professore? «La deforestazione a ritmi insostenibili è una grave minaccia. Ogni anno un'area grande circa la metà dell'Italia è deforestata, e questo provoca anche dei cambiamenti climatici. Non sto affermando che lo tsunami asiatico sia avvenuto per colpa della deforestazione, ma lo tsunami, così come il disastro della Valtellina, che avvenne tanti anni fa, sono eventi straordinari che succederebbero anche se gli esseri umani si comportassero in modo migliore con la natura; ma ci sono altre cose, venti o piogge in forme violente, peggioramenti climitaci che sono certamente dovuti alla deforestazione».
Francesco Cannoni
 
 
5 – L’Unione Sarda
Pagina 35 – Sulcis Iglesiente
Fluminimaggiore Due tesi di laurea su ambiente e miniere
Delle problematiche legate all'avvio del Parco geominerario e dell'importanza che questa risorsa rappresenta per il Sulcis Iglesiente, si è parlato ieri durante un convegno nel centro culturale di via Asquer. L'incontro, è servito anche per presentare due importanti lavori di ricerca e di studio, eseguiti da due giovani di Flumini, che si sono laureati con una tesi sul Geoparco. Davanti ad un numeroso pubblico, Antonio Congia, laureato in Scienze forestali e ambientali all'Università di Sassari, ha presentato il suo lavoro dal titolo "Rinaturalizzazione delle discariche minerarie di Fluminimaggiore e Buggerru". Un lavoro di ricerca sulle possibilità di recupero e ripristino delle aree minerarie dimesse del Fluminese. Cristina Riola, che si è laureata in Ingegneria all'Università di Cagliari, con una tesi dal titolo "La verifica delle compatibilità delle previsioni urbanistiche con le determinanti geografiche e con gli scenari storici delle attività e degli insediamenti dell'uomo". Al convegno, sono intervenuti i docenti universitari Piero Castelli dell'Università di Sassari e Maurizio Mulas dell'Ateneo Sassarese, Giampiero Pinna e Renzo Pasci dell'associazione Pozzo Sella, il presidente della Provincia Gaviano e numerosi politici.
Federico Matta
 
 

 
6 – La Nuova Sardegna
Pagina 9 - Regione
In giunta 
Piano interno di stabilità per l’isola
  CAGLIARI. La giunta guidata da Renato Soru ha dato il via libera al «Patto di stabilità interno» per il 2005, nel rispetto di un accordo stipulato il 31 marzo scorso con il ministero dell’economia. È stabilito che la Sardegna, per quest’anno, non aumenterà le spese correnti e in conto capitale di una percentuale superiore al 4,8% rispetto all’esercizio del 2003. Saranno escluse da questo calcolo le spese per i trasferimenti in conto capitale verso i Comuni. Il livello dei pagamenti totali, non vincolante per il rispetto del Patto, è stato programmato in 5.685 milioni di euro, con un incremento dello 0,7% rispetto all’esercizio 2004. La Regione conta ovviamente che il ministero dell’Economia versi le quote tributarie spettanti alla Sardegna per il 2005 e la quota Iva per il 2004 (due decimi del tributo riscosso nel territorio regionale), oltre che sulle entrate da mutui, per un importo di 223 milioni di euro. Sono state approvate inoltre dalla giunta le linee di indirizzo per l’organizzazione delle attività delle Agenzie regionali per l’attrazione di investimenti esterni e la promozione delle produzione di eccellenza regionali. Via libera, infine, al programma d’intervento per la concessione di contributi a fondo perduto per il superamento e l’eliminazione delel barriere archiettoniche negli edifici privati. Su proposta dell’assessore ai lavori pubblici, Carlo Mannoni, sono stati stanziati due milioni di euro da ripartire tra i Comuni della Sardegna. Nell’ultima seduta la giunta ha deliberato di riconoscere all’universita di Sassari un finanziamento di 4.408.325 di euro a conguaglio della spesa sanitaria erogata per gli anni 2000-2003 dal policlinico universitario.
 
 
 
7 – Corriere della Sera
FORMAZIONE
Competitività, per due su tre
Boeri: «I ragazzi italiani si spostano raramente da casa per frequentare università di qualità»
DAL NOSTRO INVIATO

VENEZIA - La perdita di competitività, il declino, la recessione? Hanno radici profonde, che si innervano fino agli anni dell’università. E anche prima, ai tempi della scuola superiore. Anni in cui gli studenti italiani hanno imparato poco di utile alla loro carriera futura e molte cose inutili, al punto che oggi due lavoratori su tre dichiarano che quanto appreso nel periodo della formazione non serve per svolgere l'attuale lavoro. Tecnicamente il fenomeno è il mismatch : fotografa la differenza tra la quantità e la qualità delle nozioni apprese e quelle richieste. Un fenomeno non solo italiano, ma che qui sta assumendo dimensioni preoccupanti: nell’Europa dei 15 solamente il Portogallo (71%) sta peggio dell’Italia (67%), contro una media Ue inferiore al 45%.
I dati sono frutto di una ricerca realizzata dalla Carlo Erminero & C. nella prima settimana di giugno su un campione di 550 diplomati e laureati, tra i 20 e i 30 anni, e sono stati presentati ieri dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti. «Questo mismatch - sottolinea Tito Boeri, docente alla Bocconi di Milano - nasce da una serie di cause, le più allarmanti delle quali si riconducono alla conoscenza. Al momento di scegliere se e a quale università iscriversi, i ragazzi italiani attingono informazioni da fonti poco qualificate: genitori, parenti, amici. Pochi seguono la loro passione, pochissimi si informano direttamente nelle sedi delle università». Ad acuire le difficoltà degli studenti, due caratteristiche diffuse: pigrizia e poca disponibilità a investire. Pigrizia perché con 97 università sul territorio italiano spesso la scelta cade sulla facoltà più vicina, piuttosto che sulla più qualificata. Scarsa disponibilità a investire perché la diffusione orizzontale dell’offerta spinge verso i corsi più comodi, brevi, meno impegnativi.
«Decidere di trasferirsi per seguire la propria vocazione di studente - continua Boeri - rappresenta un investimento di tempo e denaro che già da solo favorisce il raggiungimento del successo. Invece, i ragazzi italiani si spostano raramente da casa». L’università spesso è inadeguata, ma talvolta si trova a dover svolgere una funzione di supplenza rispetto agli studi che le matricole dovrebbero aver svolto nel quinquennio precedente. «Oggi - dice Salvatore Modica, docente di Economia politica a Palermo - lo studente arriva al primo anno di università molto meno preparato di quanto avvenisse solo 20 anni fa. Al punto che talvolta vorrei vedere i compiti di matematica alla maturità di queste matricole. Le facoltà devono migliorarsi, l’università di massa è stato un errore, ma la scuola media superiore deve cambiare. La soluzione? Obbligo fino ai 16 anni e tempo pieno per tutti».
Che il male della scuola italiana non si limiti alle accademie lo conferma l’economista Francesco Giavazzi. «Se all’aumentata competitività di tutti i mercati, l’università italiana risponde con un abbassamento della qualità dell’insegnamento, non è che la scuola superiore faccia meglio. E lo prova la classe insegnante, che in Italia è troppo numerosa, troppo anziana e mal pagata. Solo il 12 per cento dei docenti delle superiori in Italia ha meno di 39 anni. La percentuale sale in Francia al 42 e tocca il 51 in Corea. Se a questo si aggiunge un difetto della domanda, orientata alla bassa qualità, essendo le imprese focalizzate soprattutto sulla ricerca di venditori, il quadro è completo».
Stefano Righi
 
 
 
8        - Il Mattino
«A Napoli l’architettura ideale»
 
 


Maria Iacuzio Sweeney
 
«Sono tre i grandi movimenti che hanno influenzato la mia vita professionale: il Formalismo di Colin Rowe, lo strutturalismo di Manfredo Tafuri e il post-strutturalismo di Jacques Derrida» dice Peter Eisenman, architetto e intellettuale di fama internazionale, definito l’anima teorica dei Five Architects (Peter Eisenman, Charles Gwathmey, John Hedjuk, Richard Meier e Michael Graves) che vennero presentati al MoMa di New York da Kenneth Frampton nel 1969. Nel gruppo ognuno dei «cinque» sviluppò il proprio stile, e Eisenman venne più tardi affiliato a quello decostruttivista. I suoi successi professionali sono stati scottolineati da numerosi riconoscimenti: il Guggenheim Foundation Fellowship, la laurea ”honoris causa” in Architettura assegnatagli dalla Sapienza di Roma nel 2004 e nello stesso anno il Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia. La sua architettura, la sua vocazione di «sabotatore dei confini del progetto», fa discutere ed è stata il punto di riferimento per generazioni di architetti. Dopo l’inaugurazione, avvenuta il 10 maggio scorso a Berlino, in occasione del sessantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale, il suo Memoriale alle vittime dell’Olocausto è stato al centro di numerose polemiche. Il Memoriale sorge vicino alla porta di Brandeburgo ed è composto da un labirinto di 2.711 colonne di cemento che esprimono l’angoscia del ricordo del genocidio degli ebrei d’Europa. Architetto, ritiene che l’approccio professionale europeo sia diverso da quello americano? «La maggior parte del mio lavoro si svolge in Europa attraverso concorsi, che vedono competere studi professionali con un proprio modo di avvicinare l’architettura e che non sono solo interessati a costruire edifici, ma hanno anche un approccio critico verso di essa. I concorsi sono organizzati e pensati in maniera diversa da quelli che si svolgono negli Stati Uniti. Partecipare a un concorso in Europa significa presentare la migliore idea possibile, e non solo limitarsi a trovare la migliore soluzione spaziale e funzionale per un edificio. In Europa c’è più interesse per quello che qui viene definito ”progetto meta-critico”, ossia si lavora su ciò che è al di là del progetto. Questo non succede negli Stati Uniti, dove di solito grandi studi concorrono per grossi progetti che non possiedono né contenuti architettonici né critici, per non parlare poi dei contenuti meta-critici. È questa la differenza principale tra gli Stati Uniti e l’Europa». Lei ha avuto modo di conoscere Napoli quando ha partecipato al concorso per la stazione ad alta velocità. Che ne è stato del suo progetto? «A Napoli abbiamo perso. Il progetto a me piaceva molto, ma su questo le opinioni personali non contano. Napoli mi ha lasciato invece un ricordo stupendo, per vari motivi. Innanzitutto per il paesaggio, il golfo con il Vesuvio alle spalle e la costa di fronte, e la vista che si gode guidando lungo la costiera amalfitana, tutti elementi che la rendono una città spettacolare. Architettonicamente, poi, è unica: da una parte c’è il Museo di Capodimonte, in alto con la sua bellissima collezione, dall’altra ci sono tra i più bei palazzi dell’epoca fascista, come quello dellaa Posta Centrale, che costituiscono un magnifico esempio di architettura italiana degli anni Trenta. Inoltre ci sono anche magnifici edifici della fine XVII e inizio XVIII secolo. Tuttavia penso che Napoli soffra un po’ del cosidetto fenomeno di ”southerners”, allo stesso modo di altre città del Sud come Palermo, Reggio Calabria e Taranto, trattate a distanza dagli italiani del Nord. In un certo senso c’è una situazione molto simile a quella del Sud degli Stati Uniti». Il suo rapporto con la città? «Io comunque amo Napoli. È un luogo molto forte, una vera città con una bellissima struttura urbana. È incredibile il modo in cui le colline si connettono con il fronte mare. E poi Napoli riesce a combinare contemporaneamente modernità e storia. Non è solo una città museo come Roma o Firenze, e non è solo moderna come Milano, ma possiede presente e passato in una sintesi speciale che la rende unica. Per me rappresenta il migliore esempio di capacità di realizzare lavori contemporanei in un centro storico». Ha sempre avuto un un rapporto speciale con l’Italia. A che cosa è dovuto ? «Principalmente al fatto che ho molti amici italiani. Da anni seguo il campionato di calcio. Nel 1961 ero in Italia e ho visto la mia prima partita di serie A. Quando ci sono i Mondiali tengo per l’Italia. Mi piace il cibo italiano, il vino italiano, lo spirito del paese e mi piace tantissimo stare in Italia». Lei è riuscito a coniugare brillantemente lavoro professionale e vita accademica. Ha insegnato presso prestigiose università come Cambridge, Princeton, Yale e Harvard e l’anno scorso è stato «visiting professor» a Venezia e tuttora continua ad insegnare negli Stati Uniti e a pubblicare libri. Quale suggerimento si sente di dare ai futuri architetti? «Il mio primo consiglio a un giovane, indipendentemente da cosa faccia, è di essere paziente. Tutti i miei progetti richiedono sette, otto o anche nove anni di lavoro e questo significa che devi essere davvero paziente mentre stai facendo o mentre stai aspettando i risultati di un concorso. Consiglio ai giovani americani di andare in Europa per lavorare e per vedere l’architettura, e, al contrario, consiglio ai giovani italiani di lavorare e vivere in un altro Paese. Consiglio di imparare a vedere il proprio Paese e se stessi in relazione a un Paese straniero. Se se ne ha l’opportunità, consiglio anche di insegnare, perché l’insegnamento è uno dei modi per imparare a conoscersi. Inoltre, bisogna essere preparati a correre dei rischi, sia nel proprio lavoro che economicamente. Se non si hanno soldi per realizzare qualcosa, è sempre meglio chiederli in prestito piuttosto che rinunciare». Potrebbe parlarci di uno dei suoi sogni? «Quando mi hanno consegnato il Leone d’oro a Venezia ho detto che mi piacerebbe costruire in Italia. Che mi piacerebbe progettare un autogrill sull’Autostrada del Sole, vicino ad Afragola, per esempio. Questo è il mio vero sogno. Non voglio fare un grosso progetto, ma uno che abbia a che fare con la gente. Le mie ambizioni sono modeste e penso che un autogrill sia un progetto molto interessante perché è una struttura che può stare a cavallo dell’autostrada e la si può vedere da lontano. È un progetto entusiasmante e al tempo stesso per me sarebbe qualcosa di simbolicamente bello da realizzare in Italia. Mi piacerebbe costruire qualcosa vicino all’acqua. Amerei fare un progetto nel Sud. Se il Napoli si trovasse in serie A, mi piacerebbe progettare un nuovo stadio di calcio per la squadra. Ne ho fatto uno in Germania, uno in Spagna, uno in America e adesso mi piacerebbe realizzarne uno in Italia. Gli stadi sono importanti perché rappresentano lo spirito di un luogo». Se dovesse realizzare il Memoriale Ebraico oggi, al di là delle polemiche che lo hanno accompagnato, lo rifarebbe allo stesso modo? «Certamente, non cambierei nulla».
(11.6.05)
 
 
 
 
 
 
 

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