Press review

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
01 September 2005
 Ufficio Stampa
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI

1 - La Nuova Sardegna
Pagina 33 - Inserto Estate
Da ogni testo, incentrato su un singolo termine, un viaggio che alla fine porta ai concetti sociali 
L’alfabeto della democrazia
Ricostruite le conversazioni di Antonio Pigliaru alla radio
 GUIDO MELIS
 Quando, nell’autunno del 1966, tenne dai microfoni di Radio Cagliari la serie di conversazioni ora raccolte in questo «Le parole e le cose», Antonio Pigliaru non aveva che quarantaquattro anni. Da sette, però, era l’autore del suo libro maggiore, «La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico», una straordinaria indagine sulla conflittualità dei codici tra comunità del noi-pastori e sistema del diritto moderno che sarebbe divenuto uno dei classici della questione sarda e insieme una delle più orginali applicazioni della teoria del pluralismo degli ordinamenti alla realtà contemporanea. Professore di dottrina dello Stato nell’università di Sassari, Pigliaru era già il direttore delle due fortunate serie della rivista di cultura «Ichnusa», da lui trasformata da quel periodico prevalentemente artistico-letterario ch’era stato nell’immediato dopoguerra nel manifesto degli intellettuali sardi «impegnati» sulla linea del nuovo rapporto politica-cultura tracciato in Francia da Jean Paul Sartre e ripreso in Italia da Norberto Bobbio. Animava, guidava e ispirava un gruppo composito di intellettuali, in parte militanti nei partiti marxisti della sinistra, in parte esponenti del cattolicesimo sociale pre-giovanneo, in larga parte ex azionisti, radicali, lettori accaniti del «Mondo» di Mario Pannunzio e dell’«Espresso» di Eugenio Scalfari: da Giuseppe Melis Bassu, che gli era stato compagno a vent’anni nelle generose esperienze della militanza nei Guf e nella polemica giovanile contro il fascismo dei gerarchi (in nome di quella questione morale che avrebbe costituito il terreno di maturazione della «generazione degli anni difficili») ai più giovani Salvatore Mannuzzu, Manlio Brigaglia, Luigi Berlinguer, Bastianino Brusco, Giorgio Macciotta, Paola Ruju, Angiolina Arru.

A Nuoro aderiva a «Ichnusa» l’avvocato Gonario Pinna, socialista, uno dei massimi esponenti del ceto forense barbaricino. A Cagliari Sandro Maxia, Francesco Cocco, il bittese Michelangelo Pira e un folto gruppo di giovani e giovanissimi, appena laureati o ancora studenti. «Ichnusa», divenuta una rivista autorevole, non si era però limitata ad andare puntualmente in edicola o in libreria, ma aveva figliato un’interminabile serie di iniziative collaterali: scuole di alfabetizzazione politica nelle città, circoli di impegno culturale sparsi nei paesi della Sardegna interna, gruppi di lavoro nei diversi settori dell’attività culturale, associazioni di maestri democratici, aggregazioni di giovani e giovanissimi, mostre, università per adulti, e soprattutto quella fortunata serie dei dibattiti del sabato che, tenuta con puntuale ostinazione a Sassari, portò nel capoluogo della Sardegna settentrionale i più bei nomi della cultura italiana degli anni Cinquanta e Sessanta (persino uno «scandaloso» - per allora - Alberto Moravia).
 Pigliaru aveva, nonostante le precarie condizioni di salute, un’inesauribile capacità di coagulare, organizzare, mettere reciprocamente in relazione energie che altrimenti sarebbero andate probabilmente disperse. Era l’animatore insostituibile di decine di iniziative (in quegli anni, per citarne una soltanto, aveva creato un gruppo di mobilitazione contro la bomba atomica, sull’esempio dello scienziato Fornari), ma anche l’acuto stratega di quel «partito degli intellettuali» che avrebbe giocato negli anni della Rinascita un ruolo di stimolo nient’affatto secondario, collocandosi alle spalle dei partiti e costituendo per la nuova classe politica sarda un fondamentale punto di riferimento.
 I testi che Rina Pigliaru ha ritrovato tra le carte del marito (pare siano andati perduti invece i nastri originali) sono una testimonianza di come Pigliaru affrontasse seriamente l’impegno del lavoro culturale, persino nelle sue espressioni più quotidiane e apparentemente divulgative. Si tratta di brevi pezzi in voce di 15 minuti ciascuno, destinati ad andare in onda la sera, subito dopo l’edizione del «Gazzettino sardo». Forse facevano parte di una serie più articolata, nella quale furono trasmesse anche conversazioni di altri (ad esempio Melis Bassu ricorda di aver tenuto, in quegli stessi mesi e forse sotto lo stesso titolo, una serie di analoghe lezioni in radio sul tema della giustizia, e specificamente sull’aspettativa di giustizia nella Sardegna agro-pastorale allora insanguinata dal banditismo: «La casa di vetro della giustizia», si intitolava il pezzo di apertura di quella piccola serie).
 Tutto ciò certamente si inseriva in quella stagione fertile e pionieristica nella quale Radio Cagliari fu capace di dar voce a tensioni, domande e attese diffuse anche nei ceti meno colti e meno raggiungibili dalla politica ufficiale. Era il 1966: l’anno della politica contestativa di Paolo Dettori alla Regione. Di lì a pochissimo sarebbe sopravvenuto l’irripetibile sommovimento di coscienze del 1968, con i movimenti studenteschi all’opera anche negli atenei sardi; e poi il 1969 operaio, con le prime grandi mobilitazioni degli operai della petrolchimica. La radio, come le era capitato già nell’immediato dopoguerra, ai tempi eroici di Radio Brada (così si chiamarono quelle prime emissioni alla macchia del 1943), ben più della televisione avrebbe rappresentato la colonna sonora di questa Sardegna in movimento. Emerge in questi testi anche lo stile di lavoro caratteristico di Pigliaru. Scriveva questi brevi interventi almeno tre volte: una prima in certi foglietti, a macchina ma coperti di fitte correzioni a penna (in pratica quasi li riscriveva), in quell’inchiostro azzurro che era tipico della sua stilografica; una seconda volta in una versione, sempre dattiloscritta, ancora non definitiva; infine nella versione destinata alla lettura, con le pause già segnate e le indicazioni per quando avrebbe registrato. Poi andava in via Roma, a Sassari, nella sede Rai, e lì, pazientemente, incideva.
 Erano testi ognuno incentrato su una diversa parola, riflessioni «a caldo» sui termini della politica corrente, entrati disordinatamente nel lessico un po’ specialistico e un po’ approssimativo di quello che oggi definiremmo forse il politichese degli anni Sessanta. Di ogni parola Pigliaru spiegava con acribia filologica le radici, il senso recondito, l’impiego semantico. E attraverso quel lavoro apparentemente erudito, volutamente tecnico, costruiva i capitoli di un suo dizionario della politica contemporanea.

Le parole le aveva scelte lui. Ne aveva proposto un indice, più volte riveduto e corretto secondo la sua proverbiale cura dei pur minimi dettagli. Si variava dai termini tipici del linguaggio delle istituzioni («regione», «regionalismo», «democrazia», «Stato democratico») a quelli dell’economia («pianificazione», «programma», «incentivi»), sino ai temi del lessico politico vero e proprio («crisi», «vertice», «chiarificazione», «verifica»). Ho un ricordo diretto, sebbene fossi allora un adolescente, della voce di Pigliaru in quelle conversazioni radiofoniche. Calda, dai toni pacati, con una cadenza gradevole che tradiva la sua origine barbaricina ma era allo stesso tempo educata e colta. Il respiro corto, un po’ affannoso, segnale della malattia che si portava dentro, sembrava il metronomo della sua voce: le imprimeva un ritmo di serietà e insieme di verità cui l’ascoltatore, anche volendo, non poteva sottrarsi. Avrei ritrovato quella stessa sensazione ascoltando, tre anni più tardi, nella facoltà di giurisprudenza di Sassari le sue lezioni universitarie sulla democrazia governante: le ultime, prima che ci lasciasse all’improvviso, durante una dialisi, in una piovosa giornata del marzo 1969.
 
 
 
2 –Corriere della Sera
BOCCONI:
Lauree specialistiche Studenti: negata l’iscrizione
L’ateneo: entrano i migliori
Sono 262 gli studenti della Bocconi che, laurea triennale in tasca, non potranno iscriversi alla specializzazione biennale per il prossimo anno accademico. Colpa della regola di ateneo: si entra solo su concorso (l’85 per cento dei posti riservato ai bocconiani, il 15 a laureati di altri atenei) stabilito in base al punteggio medio degli esami. «Non siamo stati avvertiti - protestano i neodottori -: al momento dell’iscrizione non c’era scritto da nessuna parte che esisteva un criterio di ammissione per la laurea specialistica». La protesta è rivolta al rettore, Angelo Provasoli. Che risponde: «Le regole relative all’ammissione ai bienni sono quelle approvate il 29 novembre 2004 e sono state comunicate a tutti. Gli studenti non ammessi sono meno del 13 per cento di coloro che hanno fatto domanda». Si difende Provasoli: «Con la riforma universitaria i due cicli di studi sono completamente separati. La Bocconi da sempre applica criteri di selezione. Il primo biennio è stato attivato lo scorso anno accademico. Nel ’99, quando sono nati i trienni, non potevamo ancora conoscere quali criteri avremmo adottato per le lauree specialistiche». Niente da fare, indietro non si torna. Gli studenti «peggiori» si rassegnino. A meno che non vogliano aspettare un anno. E, nel frattempo, aumentare i propri crediti formativi. «Gli studenti non ammessi - continua Provasoli - potranno ripresentare domanda alla selezione per l’ammissione il prossimo anno accademico. Intanto potranno acquisire esperienze formative e professionali che potranno ottenere riconoscimento in termini di crediti formativi universitari». Il rettore conclude: «Dobbiamo garantire un lavoro a tutti i nostri laureati: è questa una delle priorità della Bocconi».
 
 
 
3 - Corriere della Sera
ROMA:
Più di duecento mila iscritti. Una tribù che studia
Più di duecento mila iscritti. Una tribù che studia. Quella dei tre atenei romani. Che colora l’università colmandola di idee, di iniziative. E di cultura. Ma gli spazi riescono a coprire le attività e le esigenze formative del popolo studentesco? A volte sì. Altre, tante, no. «Andavo tutti i giorni a lezione - dice Tiziana, laureanda fuorisede alla Sapienza - frequentavo la biblioteca e i miei colleghi. Mi svegliavo alle cinque ogni mattina, corsa al pullman, ma i posti in aula… già presi. Ora studio da casa, ma con difficoltà». In facoltà, ci va solo per l’esame. «Lo scorso anno - aggiunge Luca, studente di Roma Tre residente in provincia di Frosinone - ho preso una camera. Ma quest’anno i prezzi sono alti. Così tutti i giorni alzataccia, studio all’università e poi ritorno a Sora». A casa. Alle nove di sera. Vita da fuorisede. All’università, ci vanno per un titolo, ma anche per socializzare e integrarsi in una città-patchwork come la nostra. Per i più volenterosi la soluzione si trova, ma non sempre quella ideale, anzi. Né per lo studio né, tantomeno, per le tasche. Ma un’inversione di tendenza è in atto. Ampliamento, decentramento, flessibilità, sono le parole chiave del progetto che darà luce ai tre nuovi campus di Pietralata, Romanina e Acilia. Necessaria. «meglio tardi che mai», dice Matteo Morelli, rappresentante studenti di Laziodisu, che da tempo raccoglieva le grida di chi deve pagare «fino a 500-600 euro mensili a stanza», e auspica che «la nuova sensibilità cresca fino a risolvere la drammatica questione economica, che negava a troppi il diritto allo studio». Intanto, settemila posti letto, aule, laboratori di ricerca e palazzotti polivalenti collegati con la metro B, e nuove linee in arrivo, sommati a «piscine, campi da tennis, da calcio, da volley, palestre coperte» come descrive Luigi Agostini, componente del cda dell’Inail. Riequilibreranno il delicato rapporto tra «alto sapere e presupposti sociali, e quello tra università, residenza e territorio urbano», aggiunge Maurizio Castro, direttore generale Inail.
La forte proposta del Campidoglio infatti, che ha proposto all’Inail lo stanziamento di cinquecento milioni di euro, ridisegna il volto universitario della città. E già si pensa a come agevolare il raggiungimento dei poli e a potenziare i servizi e le infrastrutture che vi graviteranno intorno. «Quest’approvazione - afferma Finazzi Agrò, rettore di Tor Vergata - prevede, per i nostri seicento ettari, una città dello sport, tremila posti letto che si sommano ai mille già esistenti. La cosa di cui si sente urgente necessità, è il nuovo ramo della metropolitana che servirà l’area del Campus e per cui sono già nate collaborazioni tra Università e Comune. Quella che più ci rende fieri, è il coordinamento del Comune e di un ente previdenziale, che riduce i conflitti tra gli atenei». Un passo importante, dunque. Il primo verso l’avvicinamento agli studenti? Di questo avviso Renato Guarini, rettore della Sapienza, che delinea un nuovo iter in cui «l’università, attraverso successivi decentramenti e un nuovo modo di fruibilità, sarà sempre più godibile. Sia dal punto di vista didattico, sia da quello insediativo». Gli fa eco Guido Fabiani, rettore di Roma Tre, che vedrà il suo ateneo passare da zero a ben millecinquecento posti letto e lo definisce «il catalizzatore che rimedia alle risposte esiziali del Ministero, all’ostilità della Giunta regionale» e, dulcis in fundo, «l’occasione per soddisfare l’aspirazione dell’ateneo: una scuola superiore, con valenza internazionale. Per formare studenti altamente preparati». In un habitat sempre più prossimo a quello ideale.
Luana Silighini
 

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