Press review

ufficio stampa e redazione web: rassegna quotidiani locali
10 April 2006
Rassegna a cura dell’Ufficio Stampa e web
Segnalati 5  articoli delle testate: L’Unione Sarda e La Nuova Sardegna

 
 
 
01 - L’UNIONE SARDA
Cronaca di Cagliari - Pagina 59
La denuncia del consigliere Deidda
Ma quanto è sporca questa nostra università
«I bagni vengono lavati una sola volta al giorno: di mattina. Per scale e anditi ci si accontenta di una passata di scopa ogni ventiquattro ore, ma con straccio e secchio li si pulisce ogni quindici giorni. Stesso periodo di tempo anche per gli studi dei docenti e del personale dell’ateneo». Quanto basta per mantenere tutto pulito e ordinato? «No» è la risposta di Paolo Deidda, consigliere d’amministrazione universitaria, che sul problema ha chiesto l’intervento del rettore Pasquale Mistretta. «Sono stato sollecitato da vari professori, studenti e personale tecnico, amministrativo e bibliotecario - racconta - e ho verificato personalmente che Sa Duchessa, ingegneria, polo tecnico-giuridico, San Giorgio e Monserrato risultano abbondantemente trascurati. I colleghi sono costretti a provvedere personalmente alla pulizia degli arredi e dei posti di lavoro loro assegnati». Nessuna colpa all’impresa di pulizie. «Loro fanno quello che possono ? commenta ? la questione è un’altra: non ci sono abbastanza fondi per poter pagare ore sufficienti di servizio». Un appello teso a voler far rivedere il bilancio degli investimenti. «Con il 90 percento dei soldi che vengono dal Ministero - aggiunge - si pagano gli stipendi di docenti, dirigenti e personale tecnico amministrativo. Il 10 è una cifra utilizzabile per tutto il resto. Ma è una somma irrisoria, anche se ci si aggiungono le tasse degli studenti. Ogni anno la superficie delle strutture aumenta ma i fondi per pulirle sono sempre gli stessi. L’investimento deve essere adeguato a coprire un numero di ore che consenta una corretta pulizia». Disagi anche per quanto riguarda la manutenzione. «I bagni, già all’1 del mattino, sono indecorosi. Non perché gli studenti siano incivili. Solo sono troppi. Spesso vengono rotte tavolette, sciacquoni. Ogni tanto si intasano e ci sono allagamenti. A volte passano anche dei giorni prima che tutto sia sistemato». Non da meno la situazione esterna. «Non ci sono posacenere per le sigarette. Bastano poche ore che il cortile si trasforma in un asfalto di cicche».
Stefano Cortis
 
02 - L’UNIONE SARDA
Pagina 1 - Prima Pagina
L’altra faccia della Storia
Gli onorevoli ai tempi del Re di Sardegna
La grande corsa elettorale è terminata. Le urne stanno per dare il loro responso: avrà vinto la Destra o la Sinistra? Ancora non si sa. Si sa, invece, chi saranno di sicuro i vincitori, comunque vadano le cose: saranno quei candidati che avranno azzeccato la fantastica lotteria della politica, che avranno ottenuto l’ambìto seggio romano. Per loro, sarà poco importante se andranno alla Camera o al Senato in minoranza o in maggioranza; la cosa che più conta sarà, per loro, che si sono sistemati per la vita: stipendi da favola, agevolazioni a non finire, considerazione sociale. Ho avuto compagni di scuola, asini, costretti a ritirarsi dagli studi per inettitudine, che sono diventati deputati e senatori; uno, perfino ministro. Durante la legislatura mi guardavano dall’alto in basso, spocchiosi e compiaciuti, sorridendo sarcastici alle mie lauree accademiche. Non conosco in dettaglio le entrate di un parlamentare nazionale che penso non siano inferiori a quelle di un semplice consigliere regionale il quale, da noi, prende 18.500 euro al mese, pari a circa 37 milioni di vecchie lire, cioè quattro volte quello che prendo io dopo quarantacinque anni di insegnamento universitario e tanti, tanti concorsi nazionali e diplomi internazionali. E mi sento un privilegiato. Immagino cosa deve provare un operaio o un impiegato che a sua volta guadagna, sì e no, la metà di quello che guadagno io (per non parlare, poi, dei più indigenti). Una volta non era così. Si faceva politica gratis, per onore, e a ben ragione chi la praticava era chiamato onorevole. Dal 1848 al 1852 i deputati al Parlamento del Regno di Sardegna con sede a Torino si mantenevano a proprie spese. Chi partiva da Cagliari col piroscafo Gulnara sulla rotta quindicinale per Genova, pagava ogni volta 80 lire, e si sobbarcava 42 ore di orrenda navigazione. Poi, doveva prendere la diligenza per Torino e, lì, mettersi a pigione in una casa privata o in un albergo. È comprensibile come, spesso, alla Camera ci fossero molti assenti, soprattutto sardi, nizzardi e savoiardi che venivano da lontano. Qualcuno ci provò, a chiedere un’indennità di missione come prendevano i deputati francesi (25 franchi); ma il Cavour fu irremovibile: «Qualsiasi indennità concessa sarebbe stata funesta per le libere istituzioni ed avrebbe reso molto meno considerevole il prestigio della Camera nel Paese». Quanti, oggi, a quelle condizioni si sarebbero messi in bramosìa per un seggio?
Francesco Cesare Casula
 
03 - L’UNIONE SARDA
Provincia Sulcis - Pagina 64
Stop all’inquinamento con 70 pozzi
Una barriera idraulica per salvaguardare la falda acquifera
Portoscuso. Permetteranno di depurare l’acqua contaminata dalle industrie. Il progetto del Consorzio industriale per depurare l’acqua utilizzata dagli impianti industriali prima che possa inquinare le falde.
L’idea originaria contro l’inquinamento delle falde, era di isolare il polo industriale con una barriera in cemento armato stile "muraglia cinese". Un obbrobrio. Dietrofront, invece, e pure rapido: contro la contaminazione dell’acqua basterà uno sbarramento idraulico di settanta pozzi. Il progettoMolto meno invadente, molto più economico. È il progetto che il Consorzio di Industriale di Portovesme ha affidato all’Università di Cagliari. L’incarico è già stato assegnato. Entro due mesi la facoltà di Ingegneria dovrà consegnare il programma preliminare di intervento. Nel frattempo le aziende del polo di Portovesme, in una riunione svoltasi proprio nei giorni scorsi, hanno confermato alla dirigenza del Consorzio, alla Regione e al Ministero dell’Ambiente la volontà di impegnarsi nella messa in sicurezza della falda superficiale che, già inquinata, raccoglie anche le sostanze tossiche rilasciate dalle industrie e le trascina sino al mare. «Si dovrà intervenire ? spiega il neo presidente del Consorzio Ignazio Cuccu ? sino al primo strato impermeabile, ma siamo riusciti a scongiurare la prima ipotesi di prospettata da Roma: una barriera fisica lunga sette chilometri e profonda sino un’ottantina di metri in alcuni punti». Muro bocciatoUn muro di Berlino in versione Portovesme. Un mostro ecologico da circa 100 milioni di euro (era stata la prima stima) contro un’emergenza ambientale. Classico caso di cura decisamente peggiore del male. Anche perché, ammesso pure che il muro fosse stato realizzato, c’era il rischio che l’acqua inquinata comunque risalisse, costringendo ad adottare altri espedienti per risolvere il problema. Il pericolo, invece, è stato scampato mettendo insieme aziende e Consorzio. Il nuovo tipo di intervento è stato discusso di recente nel corso di una conferenza di servizi avvenuta proprio presso il Ministero dell’Ambiente, che ha approvato l’iniziativa giudicandola sufficiente a risolvere il problema. Il sistema da adottare non sarà quello preventivato in principio.
La barriera
L’Università dovrà progettare una barriera idraulica composta da una settantina di pozzi da perforare intorno al polo industriale. Alcuni pozzi scenderebbero sino ad una settantina di metri. Cioè sino a toccare il limite della prima falda acquifera, già inquinata di suo ma certo anche (e soprattutto) per colpa delle sostanze tossiche rilasciate dalle industrie («Ad esempio durante il dilavamento dei piazzali», precisa Cuccu) e tali da penetrare sino al corso d’acqua sotterraneo. «Questa settantina di pozzi ? riprende il presidente del Consorzio - avranno la funzione di attingere l’acqua, sottoporla a trattamento ed eventualmente rimetterla in circuito per le stesse industrie, di sicuro è la soluzione più economica e meno invadente se si ripensa alla colata di cemento che sarebbe potuta piovere fra il polo industriale e il mare».
La spesa
L’intervento, secondo una stima preliminare, costerà intorno ai 20 milioni di euro, ben 80 milioni in meno rispetto all’ipotesi "muro". L’opera sarà a carico delle aziende le quali, conclude Ignazio Cuccu, «sono chiamate a ripartirsi spese e responsabilità ma prevale la ragionevolezza, in virtù degli incontri avuti anche con il Comune, che non sorgeranno ostacoli in merito: come Consorzio abbiamo il dovere di mediare ogni posizione». Fondamentale sarà, però, fra circa due mesi, valutare il progetto universitario per la messa in sicurezza della falda. Andrea Scano
 
04 - L’UNIONE SARDA
Cultura - Pagina 22
Ruanda. Due libri e un film per conoscere il genocidio a colpi di machete
I fantasmi sulle mille colline cattiva coscienza dell’Occidente
A Cagliari un giovane racconta come fu possibile scatenare la tragedia del 1994
Il 6 aprile 1994 il Ruanda fu teatro di uno dei massacri più spaventosi dello scorso secolo. Ottocentomila le vittime del genocidio, milioni di esuli, il paese delle "mille colline" nel centro dell’Africa dei grandi laghi distrutto da una pulizia etnica di proporzioni bibliche. In tre mesi la popolazione hutu eliminò la minoranza tutsi in modo sistematico e con una ferocia primordiale. Fu il massacro dei machete, gli affilati coltelli da contadino con cui gli hutu sterminarono i loro rivali nelle strade, nelle scuole, casa per casa e persino nelle chiese ultimo disperato e inutile rifugio. La furia si scatenò sugli uomini, ma soprattutto sulle donne e i bambini per estirpare l’etnia della parte "nobile" della popolazione. Un’ondata di odio e di violenza passata nel silenzio e nel disinteresse del mondo occidentale in quegli anni distratto dalla guerra dei Balcani. I pochissimi giornalisti occidentali furono costretti a lasciare il Ruanda e raccontarono la tragedia dai campi profughi o dalle capitali dei paesi confinanti, mentre le televisioni continuarono a trasmettere le immagini del fiume di milioni di profughi che scappavano e andavano ad affollare le immense tendopoli di Goa e dell’Uganda. Nessuno parlava del mattatoio che giorno per giorno si stava compiendo alla luce del sole, i trecento militari belgi dell’Onu avevano l’ordine di non intervenire e ? come avvenne anche in Bosnia ? operarono solo per aiutare l’evacuazione degli europei. I francesi sono oggi accusati di aver addirittura favorito i militari hutu fornendo le armi. Così, per noi occidentali e per le Nazioni Unite, il problema non fu di fermare i massacri, quanto di gestire la marea umana dei fuggiaschi. A chi poteva interessare una guerra tribale di un piccolo e lontano paese dell’Africa nera? A distanza di dodici anni il Ruanda sembra riemerso miracolosamente dall’inferno. Dal 2003 c’è un presidente della repubblica, Paul Kagame, eletto col 94 per cento di preferenze che porta avanti una politica di riconciliazione e cerca di far crescere l’economia di un paese ricco di materie prime e oggi considerato una sorta di Svizzera africana. «La capitale Kigali ? racconta il medico cagliaritano Andrea Cadelano che lavora in un ospedale nel vicino Congo ? in apparenza sembra una città tranquilla e sicura. La guerra è nei paesi vicini». ScampatoIn realtà il Ruanda è come un vulcano sempre attivo e pronto a tornare in ebollizione. «Il ricordo del genocidio è troppo vivo tra noi e soprattutto tra i ragazzi che hanno visto gli orrori e che non possono dimenticare». Chi parla è Fidele NGarambe, trentaduenne ruandese scampato al massacro solo perché in quei giorni si trovava in Italia con una borsa di studio. Laurea in ingegneria nel suo paese, poi in statistica a Bari e ora a Cagliari con una collaborazione a Scienze politiche. L’associazione degli studenti Erasmus Grisou dell’ateneo cittadino lo ha invitato a commentare il film "Hotel Ruanda". Per la prima volta il cinema ha provato a raccontare quella immane tragedia e c’è riuscito con un film agghiacciante come un pugno nello stomaco, ma che riporta fedelmente ? senza soffermarsi sulle immagini di orrore ? l’atmosfera e la storia dell’aprile di 12 anni fa. Nella sala dell’Ersu un centinaio di studenti dell’Erasmus, molti anche stranieri che studiano a Cagliari, restano senza fiato davanti al film. Due libriCome raccontare l’orrore, la follia omicida che si è impossessata del Ruanda? Ciò che non hanno fatto i media nel 1994, oggi lo possono dire un film e alcuni libri usciti di recente anche in Italia. "Ruanda, il libro delle ossa" (edizione e/o) è scritto da un giornalista senegalese, Boubacar Boris Diop, che ha trascorso in Ruanda molti mesi. Dalla sua esperienza un romanzo-verità in cui decine di personaggi autentici raccontano la loro testimonianza: in questa galleria di vivi e di morti ciascuno ha la sua verità. Così ai nostri occhi appare difficile immaginare il buon professore trasformarsi in capo delle squadre della morte, o la bellissima studentessa tutsi che sa di essere già condannata proprio per la sua avvenenza alla morte più atroce. E poi un altro romanzo, questa volta scritto da un giornalista canadese, Gil Courtamanche, che reduce dal Vietnam e dal Nicaragua si scontra con la realtà africa. Il suo punto di vista è un albergo, oasi di salvezza in mezzo all’inferno che divora la capitale. Il titolo, "Una domenica in piscina a Kigali" dice tutto: l’apparente serenità di un luogo esotico popolato di ogni genere di personaggi è quello che vogliono vedere gli occidentali, mentre al di là del muro si alzano i falò delle case devastate e si sentono le urla della gente maciullata a colpi di machete.
Futuro
Oggi il Ruanda guarda al futuro, ma di fronte ha problemi immensi. Intanto, come riportare la pace senza giustizia? Una giustizia che sembra impossibile visto che sono migliaia i procedimenti contro gli autori dei massacri. Di recente il presidente Kagame ha fatto rilasciare 40 mila detenuti sospettati di genocidio per attenuare uno dei problemi maggiori, il sovraffollamento delle carceri dove i reclusi sono più di centomila, costretti a vivere in condizioni inumane. Molti sono in prigione da più di otto anni in attesa di un processo che non si sa quando e se arriverà. Il leaderKagame nel 1994 era il leader del Fronte patriottico dei ribelli tutsi. Nel 1994 conquistò il potere cacciando i militari hutu responsabili del genocidio e ha governato come uomo-ombra fino al 2000 quando è stato eletto presidente con un voto parlamentare. Nel 2003 ha vinto le elezioni. Ma non ci sono solo meriti nella sua politica. Il presidente ha le sue pesanti ombre, accusato del massacro di 50 mila hutu avvenuto nel 1994 subito dopo la fine delle ostilità. Un’altra vendetta. Profughi«In quei mesi arrivavano in Europa le immagini di milioni di profughi» spiega Fidele: «Non erano tutsi che fuggivano ai massacri, ma gli stessi hutu: lasciavano il Ruanda temendo la rappresaglia dell’esercito ribelle che stava rientrando insieme alle truppe ugandesi guidate dallo stesso Kagame. Così quando gli osservatori dell’Onu aprirono le fosse comuni trovarono i cadaveri freschi degli hutu». Da massacratori a vittime in una catena senza fine. Del resto ? sottolinea Fidele - quel fiume umano che si riversò nei campi profughi non poteva essere la minoranza tutsi che rappresentava appena il dieci per cento della popolazione, per giunta in parte già sterminata nel bagno di sangue durato tre mesi. In un paese grande quanto la Sardegna nel 1994 gli hutu erano sei milioni e mezzo, contro 650 mila tutsi e una minoranza di 30 mila Twa.
Testimone
Fidele NGarambe, come molti connazionali, appartiene a entrambe le etnie essendo i genitori hutu e tutsi. «Ho perso 24 persone della mia famiglia, alcuni sono andato a cercarli nei campi profughi ma non ho saputo più nulla. Ho nostalgia del mio paese, adesso voglio tornare per vedere mio padre anziano. Ma non è facile superare una tragedia come quella che ha coinvolto il Ruanda. E soprattutto non è semplice capire». Fidele, in perfetto italiano, cerca di spiegare ai ragazzi dell’Ersu come è stato possibile un nuovo genocidio alla fine del Ventesimo secolo. «Niente è avvenuto per caso: gli hutu non si sono improvvisamente svegliati e hanno deciso di sterminare i tutsi. Il genocidio è figlio dell’epoca postcolonialista, delle divisioni lasciate dai belgi che hanno avuto il protettorato dal 1918 al 1962. Prima non c’era differenza tra la popolazione. Gli hutu erano la maggioranza contadina, i tutsi la minoranza di allevatori che fu scelta dai belgi per diventare la classe dominante. A loro aprirono le scuole, le università, i posti di potere e sempre a loro fu inculcata l’idea di essere un’etnia di razza superiore. Nel 1961 il movimento per l’emancipazione degli hutu spodestò la monarchia e proclamò la prima repubblica. Negli scontri furono uccisi migliaia di tutsi. Nel 1973 prese il potere il generale Habyarimana a capo degli hutu del Nord. Nei nuovi massacri, oltre ai tutsi, finirono anche molti hutu dell’opposizione, Habyarimana ha tenuto il paese sino al 6 aprile del 1994 quando di ritorno dalla conferenza dove era stato firmato un accordo di pace, il suo aereo fu abbattuto da un missile». L’episodio che scatenò il nuovo genocidio è ancora oggi un mistero. Fu ucciso dai ribelli tutsi o dagli stessi compagni hutu che preparavano un golpe interno e che da mesi avevano pianificato lo sterminio della minoranza? Certo è, come si capisce dai libri e dal film, che i machete venivano distribuiti a tutti i maschi hutu. E da tempo si andavano formando le bande armate che poi la notte del 6 aprile scateneranno il più massiccio e cruento pogrom della storia. Stavano aspettando solo il segnale di Radio Mille Colline. Che puntualmente arrivò: «È cominciato il taglio degli alberi alti».
Carlo Figari
 


05 - LA NUOVA SARDEGNA
Pagina 7 - Attualità Stampa questo articolo
Un uomo su tre: sì al sesso per la carriera
Uno su quattro sarebbe disponibile a una relazione duratura se proficua
I più disponibili impiegati e dipendenti pubblici ultimi i docenti universitari
ROMA. Cade forse una delle ultime prerogative femminili: poter fare carriera concedendo le proprie grazie al capufficio o al direttore: ora anche gli uomini non disdegnano di usare il sesso per ottenere avanzamenti sul posto di lavoro. Secondo lo studio effettuato su 689 uomini tra i 18 e i 35 anni un maschio su tre farebbe sesso con una donna solo per fare carriera e uno su due non si sente di condannare gli uomini che lo fanno, anche se personalmente non lo farebbe. Addirittura un 23% sarebbe disponibile a una relazione duratura, se opportunamente proficua. In testa alla classifica impiegati (24%) e dipendenti pubblici (21%). In coda i docenti universitari (3%).
Anche gigolò, pur di far carriera
Un terzo dei maschi pronti a cedere alla manager o alla capoufficio. Secondo un sondaggio, la metà degli uomini non vede niente di male in certe scorciatoie
ROMA. Cade forse una delle ultime «prerogative» femminili: quella di poter fare carriera concedendo le proprie grazie al capufficio o al direttore. I tempi sono cambiati: aumenta - di poco, almeno in Italia - il numero delle donne in posizioni di potere, la concorrenza è spietata, e ora anche gli uomini non disdegnano di usare il sesso per ottenere avanzamenti sul posto di lavoro.
Questo è quello che sostiene uno studio, supervisionato dallo psicoantropologo Massimo Cicogna, effettuato su 689 uomini tra i 18 e i 35 anni, e dal quale risulta che un maschietto su tre farebbe sesso con una donna solo per fare carriera e uno su due non si sente di condannare gli uomini che lo fanno, anche se personalmente sostiene che non lo farebbe.
Addirittura un 23 per cento si offrirebbe non solo per un rapporto episodico, ma sarebbe disponibile a intrecciare una relazione duratura, se opportunamente proficua. Ciò che colpisce è che la disponibilità a fare sesso per convenienza colpisce vari target sociali: impiegati (24 per cento), dipendenti pubblici (21 per cento), operai (18 per cento), professionisti (15 per ento), giornalisti (11 per cento), quadri e dirigenti (7 per cento), docenti universitari (3 per cento).
Ma qual è la motivazione per cui si concederebbero? Avanzamento di carriera (34 per cento), aumento di stipendio (29 per cento), generici favori personali e benevolenza della capa (18 per cento), regali (14 per cento). Ovviamente quasi tutti (il 92 per cento) non confesserebbero nulla alla moglie o alla compagna. Una volta raggiunto l’obiettivo, comunque, l’86 per cento del campione ha dichiarato che troncherebbe la relazione.
Le aspirazioni sono varie: c’è chi spera di incrociare una conduttrice famosa per lanciarsi nel mondo della televisione (12 per cento). Chi invece sogna un lancio nel mondo dello spettacolo o del varietà, magari circuendo qualche show girl (18 per cento) o conduttrici di talk show (12 per cento).
Sensi di colpa? Sarà effetto dell’ambizione smodata, ma fra i disposti a tutto solo il 15 per cento ammette che ne soffrirebbe.
 

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