L'8 marzo si celebra la Giornata internazionale della donna. Una ricorrenza che ha origini diverse negli Stati Uniti e in Europa, ma che ovunque nel mondo serve a ricordare le conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne, e a non dimenticare le discriminazioni e le violenze di cui le donne continuano ad essere vittime. In Italia il simbolo della giornata è la mimosa, un fiore povero. Lo scelsero nel '46 tre donne dell'UDI (Unione Donne Italiane) che si chiamavano Teresa Noce, Rita Montagnana e Teresa Mattei. Una riflessione sul senso di questa giornata da parte di Ester Cois, delegata del rettore per l'uguaglianza di genere
08 March 2023
8 marzo, immagine simbolo

di Ester Cois*

A leggere le cronache globali sui quotidiani di oggi, 8 Marzo 2023, una notizia colpisce con tanta forza da togliere il fiato: quella delle oltre 5000 ragazze iraniane frequentanti i licei e le scuole secondarie inferiori che sono state gravemente intossicate, ai danni del sistema respiratorio, nel più recente tentativo del regime di soffocare la Rivoluzione civile che da molti mesi ha acceso il Paese, al grido di Donna, Vita, Libertà. Il feroce simbolismo della sottrazione della voce, a queste giovani donne, praticato proprio nei luoghi di formazione dedicati ad alimentarne le parole attraverso l’istruzione, costituisce uno dei tasselli più potenti di questo Terzo Millennio attraversato, ovunque,  dalla lunga e incessante marcia verso la Parità di Genere.

Un percorso non lineare, irto di ostacoli, punteggiato da false partenze e passi indietro, come nel caso della rimessa in discussione dei diritti riproduttivi femminili che ha infuocato l’estate del 2022 in Texas, facendo riecheggiare le strade e le piazze dell’America profonda di migliaia di voci di donne, pronte a proteggere le basi della propria cittadinanza sostanziale così faticosamente conquistata dalle generazioni delle loro madri e nonne.

E sono anche i numeri a parlare, come ogni anno, quando la ricorrenza della Giornata Internazionale della Donna ci costringe a fare il punto della situazione sul piano della persistenza delle asimmetrie tra uomini e donne in ogni ambito della vita sociale, economica e politica. Il quadro tracciato dall’ultimo Gender Policies Report dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp), diffuso a gennaio, rivela un tasso di disoccupazione femminile ancorato al 9,1% rispetto al 6,8% per gli uomini, un gap che peggiora nella fascia d’età più giovane fino ai 24 anni. La più ostica  transizione verso l’autonomia per le ragazze italiane è misurata dall’Osservatorio Indifesa di Terre des Hommes, che attribuisce al nostro Paese il pesante record europeo negativo in termini di percentuale di ragazze tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano (almeno visibilmente), pari al 25%. E anche quando la porta di cristallo si apre, l’ingresso nel mercato del lavoro prelude troppo spesso per le giovani donne a un confinamento in settori fondamentali per la sussistenza del nostro modello di Welfare, ma con basse remunerazioni e scarsa portata strategica, nella narrazione pubblica. Le donne guadagnano tra il 20 e il 24% in meno, in media, dei loro colleghi uomini, e il maggiore ricorso al part time, che riguarda il 49% dei contratti attivi femminili rispetto al 26.2% degli uomini, è un ulteriore fattore di fragilità economica e finanziaria, sempre meno negoziabile o ascrivibile a scelte effettive di investimento nella propria biografia personale e familiare, ma semmai imposto dalle regole del mercato, a gradi di libertà tendenti allo zero, entro una cornice di generale precarietà delle posizioni a tempo determinato. Gli equilibrismi della conciliazione tra lavoro e vita privata, ben presto tornati nei ranghi consueti dopo la breve e controversa glorificazione dello smart working, continuano a coinvolgere maggiormente la componente femminile, ben poco dirimente nei processi organizzativi, dal momento che se in Europa nel 57% dei casi la decisione sugli orari di ingresso e uscita spetta esclusivamente al datore di lavoro, in Italia questa assenza di flessibilità riguarda il 76% dei casi. E nel nostro mondo, quello universitario? Se l’Italia anche nel 2022 è rimasta alla 63esima posizione nella classifica mondiale della parità di genere, definita dal World Economic Forum sulla base del Global Gender Gap Index calcolato su 146 Paesi, lo deve anche alle forme di segregazione orizzontale (solo il 20% di iscritte nei corsi di laurea STEM nel 2020/21) e verticale (appena il 26% dei professori ordinari erano donne nel 2021) che continuano a connotare l’ambito accademico, sebbene i numeri del MUR attestino che le studentesse rappresentano stabilmente oltre il 56,6% degli iscritti ai corsi di laurea e ben il 57,2% del totale dei laureati.

Dunque, cosa dice di sé questo 8 Marzo? Anzitutto di essere ben lungi da una gioiosa celebrazione di quell’“altra metà del Cielo” che fatica ancora ogni giorno per rivendicare il proprio diritto paritario, molto più pragmatico, alla terra, e a ciò che essa contiene in termini di accesso al mercato del lavoro, raggiungimento delle posizioni apicali nella rappresentanza politica, libertà effettiva di scelta rispetto alle proprie aspettative familiari e personali. L’8 Marzo è piuttosto, come ogni anno, un memento di quanto sia necessario continuare a tenere il passo, a non fermarsi, a esplicitare a voce piena e ferma che, fintanto che gli indubitabilmente grandi traguardi raggiunti da alcune donne – la Presidenza del Consiglio, la Guida della Corte Costituzionale, la Presidenza del Consiglio Nazionale delle Ricerche, il Comando della Stazione Spaziale Internazionale – resteranno codificati come straordinarie eccezioni, la possibilità di farne una regola accessibile a tutte resterà lontana, e non consentirà soste celebrative troppo lunghe.

*delegata del Rettore per l'uguaglianza di genere

Ester Cois
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