Secondo Raffaele Simone mandare i «baroni» in pensione prima del tempo non serve. Le proteste di un migliaio di professori settantenni
23 February 2009



TORINO
Mandare i «baroni» in pensione prima del tempo? Non serve. Nemmeno secondo Raffaele Simone, docente all’Università di Roma Tre, uno dei maggiori studiosi europei di linguistica e filosofia del linguaggio. Un suo libro-denuncia del ‘93, L’Università dei tre tradimenti, fece discutere. «15 anni dopo, è cambiato poco».

Dove l’Università ha fallito?
«Tradendo l’interesse pubblico: troppi affari privati. La ricerca: troppi soldi spesi in modo futile e senza controllo. Gli studenti, che non sempre sono l’interesse primario. E il declino di quel poco di qualità dell’insegnamento che sopravviveva, anche se restano molte persone capaci. Così continuiamo a decadere in tutte le classifiche».

L’ultima ricerca del Times ci dà in caduta libera. Perché?
«L’aspetto più debole è la governance. Siccome tutte le cariche sono elettive, si vive in un clima generale di campagna elettorale. I voti di scambio e i voti a dispetto sono pratica corrente. Le mediazioni possono essere spossanti, il potere di interdizione di gruppi e consorterie aumenta e indebolisce i responsabili, che non possono esercitare una gestione forte: le decisioni sono sfumate per non scontentare nessuno».

Altra nota dolente: i concorsi. Perché non funzionano?
«I bravi sono mischiati ai somari o agli incapaci, e non si fa nulla per identificarli e premiarli. Solo il caso (o la formazione di cordate particolarmente rigorose) permette di premiarli».

E i professori?
«Pochi considerano la ricerca l’obiettivo principale, una minoranza fa davvero il suo dovere e una minoranza ancora più esigua è costituita da persone di qualità. L’università si regge sul 7-10 per cento dei suoi docenti».

E gli altri?
«Una delle disfunzioni del sistema è la debolezza dei controlli. Del resto, per esercitare un controllo è necessario disporre di un potere reale, non solo elettorale. Tra i controlli che non si fanno, c’è quello delle presenze dei docenti, che non devono rendere conto del loro impiego del tempo. Nessuno registra ritardi, spostamenti di esami o annullamenti di lezioni, viaggi, vacanze, sparizioni immotivate».

L’assenteismo è tollerato?
«Non solo. Il nostro è un sistema fittiziamente democratico. Un Nobel e un impostore ricevono lo stesso stipendio e hanno le stesse prerogative».

Davvero i docenti sono tutti uguali?
«No. Ci sono i “patrizi”, professori-professionisti che hanno un canale parallelo e preminente di attività professionali lucrose e adoperano l’università principalmente per arricchire il loro biglietto da visita. Gli altri sono plebei, dato che quel canale non ce l’hanno, neanche se lo volessero».

Questa situazione incide sulla ricerca?
«Molto. E c’è altro: pochi soldi, compensati dalla scarsità del controllo sulla spesa e la sua legittimità; poca valutazione seria dei risultati; molto provincialismo e ricerca fittizia, fatta solo per stampare carta per concorsi».

E gli studenti? Sono ostaggi?
«Se insoddisfatti non possono far nulla perché il servizio migliori né scegliere un’alternativa più efficiente, visto che tra gli atenei non c’è vera concorrenza».

Gli atenei traditi
Raffaele Simone, studioso di linguistica e filosofia del linguaggio, insegna nell’Università di Roma 3. Nel 1993 pubblicò il saggio «L’Università dei tre tradimenti».



La cacciata dei baroni
Università con i conti in rosso, via tra le proteste un migliaio di professori settantenni


ANDREA ROSSI

TORINO
Là dove nessuna riforma ha osato (o potuto) addentrarsi sono arrivati i conti in rosso. E così, un migliaio di professori universitari prossimi ai 70 anni si è visto recapitare una lettera: il 31 ottobre andrete in pensione. Stesso discorso per gli over 70 che avevano ottenuto una proroga di due anni. A casa pure loro.

Il maxi esodo dei «baroni» - e di ordinari, associati e ricercatori - in tre anni potrebbe svuotare gli atenei italiani. L’Università rischia di perdere circa 4 mila ordinari, quasi uno su quattro. Colpa dei bilanci. E di un articolo della legge Tremonti che ha smontato il meccanismo che consentiva di ottenere, a 70 anni, la proroga automatica di due anni. «Prima ci dovevamo giustificare se rifiutavamo una richiesta; ora dovremo farlo se l’accettiamo», spiega il prorettore della Statale di Milano, Dario Casati. Per evitare accuse di favoritismi, la maggior parte delle università ha deciso: tutti a casa, sull’onda dell’indicazione della Conferenza dei rettori. «Rischiamo di restare oltre il 90% nel rapporto tra stipendi e finanziamenti fino al 2017. Solo così torneremo ad assumere entro il 2011», spiega, a Trieste, il rettore Francesco Peroni. Stesso discorso a Firenze, Genova, Pisa, Bologna, Palermo, Milano e in quasi tutti i grandi atenei.

La manovra potrebbe far risparmiare 6-800 milioni di euro solo con gli ordinari. Ma negli atenei ha scatenato la rivolta. «Siamo stati discriminati, cacciati dall’oggi al domani». E giù decine di ricorsi ai Tar (Roma, Milano, Firenze): tutti bocciati. Tanti rettori la pensano più o meno allo stesso modo. E - conti permettendo - potrebbero concedere la proroga a qualcuno. Ma a chi? Alcuni hanno chiesto ai dipartimenti di indicare i “senior” considerati insostituibili. Il risultato? Tutti necessari, ovvio. Così il numero uno de La Sapienza di Roma, Luigi Frati, che potrebbe privarsi di 270 docenti, mette le mani avanti: «Ho chiesto collaborazione alle facoltà per individuare le eccellenze scientifiche. Altrimenti dovrò mandare via tutti».

Per qualcuno l’esodo è la grande occasione per svecchiare assumendo docenti e ricercatori giovani. Difficile. Il caso di Torino è emblematico: a Medicina è in atto una guerra sotterranea tra settantenni che non vogliono perdere il posto, e associati che sognano di scalzarli. A 60 anni. Il pensionamento di massa non sembra la premessa di un ricambio generazionale. La legge Gelmini ha bloccato i concorsi, compresi quelli banditi, scatenando un’ondata di ricorsi e lo stop alle assunzioni. «Dal bando di concorso a quando il posto viene assegnato passano 20 mesi. Significa che almeno per i prossimi due anni nessuna università assumerà», spiega Franco Indiveri, docente alla Facoltà di Medicina a Genova.

L’esodo dei «baroni» lascia perplessi persino i loro più accaniti avversari. Docenti come Tommaso Gastaldi, associato di Statistica a La Sapienza: «L’effetto sarebbe positivo se ci fosse un vero progetto di ringiovanimento...». E un altro irriducibile avversario del baronato, Giovanni Grasso, ordinario di Anatomia a Siena: «Tanti corsi dovranno chiudere».

Bene, direbbe qualcuno, visto che negli ultimi anni si sono moltiplicati. Troppo semplice. Paolo Gianni, docente di Chimica a Pisa e segretario del Comitato nazionale universitario, spiega che gli atenei «hanno già razionalizzato, ma sulla base di un corpo docente che ora verrà molto ridimensionato. Così salta tutto».

Tutto tranne, forse, proprio i «baroni». Che perderanno la cattedra e - per i medici - la carica di primario. Ma non alcuni privilegi, soprattutto il diritto, per due anni, a far parte delle commissioni nei concorsi, la vera fonte di potere, dove un docente di peso può decidere avanzamenti di carriera e assunzioni.ANDREA ROSSI

TORINO
Là dove nessuna riforma ha osato (o potuto) addentrarsi sono arrivati i conti in rosso. E così, un migliaio di professori universitari prossimi ai 70 anni si è visto recapitare una lettera: il 31 ottobre andrete in pensione. Stesso discorso per gli over 70 che avevano ottenuto una proroga di due anni. A casa pure loro.

Il maxi esodo dei «baroni» - e di ordinari, associati e ricercatori - in tre anni potrebbe svuotare gli atenei italiani. L’Università rischia di perdere circa 4 mila ordinari, quasi uno su quattro. Colpa dei bilanci. E di un articolo della legge Tremonti che ha smontato il meccanismo che consentiva di ottenere, a 70 anni, la proroga automatica di due anni. «Prima ci dovevamo giustificare se rifiutavamo una richiesta; ora dovremo farlo se l’accettiamo», spiega il prorettore della Statale di Milano, Dario Casati. Per evitare accuse di favoritismi, la maggior parte delle università ha deciso: tutti a casa, sull’onda dell’indicazione della Conferenza dei rettori. «Rischiamo di restare oltre il 90% nel rapporto tra stipendi e finanziamenti fino al 2017. Solo così torneremo ad assumere entro il 2011», spiega, a Trieste, il rettore Francesco Peroni. Stesso discorso a Firenze, Genova, Pisa, Bologna, Palermo, Milano e in quasi tutti i grandi atenei.

La manovra potrebbe far risparmiare 6-800 milioni di euro solo con gli ordinari. Ma negli atenei ha scatenato la rivolta. «Siamo stati discriminati, cacciati dall’oggi al domani». E giù decine di ricorsi ai Tar (Roma, Milano, Firenze): tutti bocciati. Tanti rettori la pensano più o meno allo stesso modo. E - conti permettendo - potrebbero concedere la proroga a qualcuno. Ma a chi? Alcuni hanno chiesto ai dipartimenti di indicare i “senior” considerati insostituibili. Il risultato? Tutti necessari, ovvio. Così il numero uno de La Sapienza di Roma, Luigi Frati, che potrebbe privarsi di 270 docenti, mette le mani avanti: «Ho chiesto collaborazione alle facoltà per individuare le eccellenze scientifiche. Altrimenti dovrò mandare via tutti».

Per qualcuno l’esodo è la grande occasione per svecchiare assumendo docenti e ricercatori giovani. Difficile. Il caso di Torino è emblematico: a Medicina è in atto una guerra sotterranea tra settantenni che non vogliono perdere il posto, e associati che sognano di scalzarli. A 60 anni. Il pensionamento di massa non sembra la premessa di un ricambio generazionale. La legge Gelmini ha bloccato i concorsi, compresi quelli banditi, scatenando un’ondata di ricorsi e lo stop alle assunzioni. «Dal bando di concorso a quando il posto viene assegnato passano 20 mesi. Significa che almeno per i prossimi due anni nessuna università assumerà», spiega Franco Indiveri, docente alla Facoltà di Medicina a Genova.

L’esodo dei «baroni» lascia perplessi persino i loro più accaniti avversari. Docenti come Tommaso Gastaldi, associato di Statistica a La Sapienza: «L’effetto sarebbe positivo se ci fosse un vero progetto di ringiovanimento...». E un altro irriducibile avversario del baronato, Giovanni Grasso, ordinario di Anatomia a Siena: «Tanti corsi dovranno chiudere».

Bene, direbbe qualcuno, visto che negli ultimi anni si sono moltiplicati. Troppo semplice. Paolo Gianni, docente di Chimica a Pisa e segretario del Comitato nazionale universitario, spiega che gli atenei «hanno già razionalizzato, ma sulla base di un corpo docente che ora verrà molto ridimensionato. Così salta tutto».

Tutto tranne, forse, proprio i «baroni». Che perderanno la cattedra e - per i medici - la carica di primario. Ma non alcuni privilegi, soprattutto il diritto, per due anni, a far parte delle commissioni nei concorsi, la vera fonte di potere, dove un docente di peso può decidere avanzamenti di carriera e assunzioni.

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