L’intervento del ministro Mussi durante il Convegno dei rettori delle Università Europee svoltosi il 22 all’Università di Roma la Sapienza, alla presenza del Presidente della Repubblica
23 June 2007

L’intervento del ministro Mussi durante il Convegno dei rettori delle Università Europee svoltosi il 22 all’Università di Roma la Sapienza, alla presenza del Presidente della Repubblica
 
Autorità e Gentili Ospiti,
Non c’è, in tutta Europa, un “luogo di nascita” di quella complicata realtà storica venuta alla luce nel XVII secolo che chiamiamo oggi scienza moderna. Perché, come sostiene autorevolmente lo storico delle idee Paolo Rossi, «quel luogo è l’Europa stessa».
La scienza moderna non è nata, dunque, in questo o in quel paese del Vecchio Continente, ma è nata in Europa. L’Europa nel suo insieme ne è stata la culla. E per questa ragione il nostro continente si è guadagnato un grande merito nella storia della cultura e, più in generale, nella storia dell’umanità.
Oggi nei 27 paesi dell’Unione vi sono oltre 4.000 tra università e centri di ricerca e alta formazione; quasi mezzo milione di ricercatori; oltre 17 milioni di studenti. L’Europa dei saperi rilanciata cinquant’anni fa nei Trattati di Roma è tuttora una grande realtà.
Con la tradizione unica che ha alle spalle e con il suo importante presente, l’Europa può assolvere alla grande funzione indicata a Lisbona nell’anno 2000 e assumere la leadership della società della conoscenza. Anzi della società democratica della conoscenza.
La conoscenza è davvero una grande opportunità. Sono molti gli studi che documentano il ruolo decisivo che rivestono l’educazione superiore e la ricerca scientifica nei processi di innovazione tecnologica e di crescita dell’economia. Tutti i dati recenti mostrano la stretta connessione – in ogni parte del mondo, tra i paesi di antica industrializzazione, tra i paesi emergenti e persino tra i paesi che faticano di più – tra gli investimenti nel «pacchetto conoscenza» (educazione e ricerca), la crescita economica e persino gli indici di sviluppo umano. Non c’è in alcun paese del mondo uno sviluppo economico e umano duraturo senza un solido sistema di alta educazione e di ricerca scientifica. La conoscenza ormai informa profondamente di sé, per dirla con Adam Smith, «la natura e le cause della ricchezza delle nazioni».
Ma la grande opportunità della conoscenza non può essere appannaggio di poche nazioni o di pochi gruppi all’interno delle nazioni. Questa straordinaria opportunità deve essere offerta a ogni paese e a ogni cittadino del mondo. E deve poter essere colta da ciascuno. La conoscenza deve essere «la natura e la causa della ricchezza di tutti».
Oggi non è così. La globalizzazione che accompagna e rende possibile la società della conoscenza è segnata da una costellazione di quelle che Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, chiama le promesse infrante. La conoscenza troppo spesso è un fattore di esclusione sociale, invece che di inclusione sociale. Le promesse infrante generano ingiustizia e instabilità. Minano il futuro dei popoli e dell’intera umanità. Nella società globale della conoscenza la sostenibilità dello sviluppo, come ha scritto di recente il sociologo Luciano Gallino, dipenderà da ciò che la scienza e la tecnologia sapranno fare per gli esclusi del mondo e per il futuro del pianeta.
È urgente che l’Europa prima di altri si assuma il compito di ricomporre il quadro delle opportunità nella società della conoscenza. Sia perché, come diceva Francis Bacon già nel XVII secolo, la scienza non può essere a vantaggio di questo o di quello, ma a beneficio dell’intera umanità. Sia perché questa propensione universalistica – questo autentico umanesimo scientifico diventato un valore fondante della “Repubblica della Scienza” e più che mai attuale – è nato proprio in Europa e ha profonde radici proprio nella cultura europea.
In parte l’Unione lo sta già facendo. Ha infatti assunto la leadership mondiale della lotta ai cambiamenti del clima, dandosi obiettivi importanti e mobilitando le sue risorse politiche, economiche e scientifiche per contrastare l’aumento indesiderato della temperatura media del pianeta.
Tuttavia, riconosciuta la sua straordinaria tradizione culturale, dato atto del suo importante presente scientifico e constatato che si è assunta notevoli responsabilità politiche per il bene comune del pianeta, non dobbiamo nasconderci che l’Unione mostra di avere serie difficoltà a realizzare il «programma di Lisbona». Che il ruolo dell’Europa nell’avanzamento delle scienze e nella promozione dell’apprendimento si va addirittura appannando. Tanto da spingere Lord Christopher Patten, chancellor di una delle più importanti università del mondo, l’università inglese di Oxford, a parlare addirittura di “declino”.
Non dobbiamo indulgere a nessuna «logica del declino». Ma dobbiamo rimuovere le cause dell’appannamento. I motivi strutturali delle difficoltà che, pur con il suo straordinario passato e il suo importante presente, incontra l’Europa dell’educazione superiore e della scienza sono chiari. L’Unione spende relativamente poco per la sua ricerca e per le sue università. Gli investimenti in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico sono inferiori al 2% rispetto al prodotto interno lordo, contro il 2,7% degli Stati Uniti e il 3,2% del Giappone. La spesa complessiva per l’alta formazione in Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna non supera l’1,1% del Pil, in Italia è persino inferiore (0,88%), contro il 3,6% degli Stati Uniti. Con i soli investimenti pubblici (1,2% del Pil) gli Stati Uniti superano gli investimenti totali in educazione terziaria dell’Europa. E a loro si sommano gli investimenti privati, per un ulteriore 1,4% del Pil.
La differenza si vede in maniera chiara nel «pacchetto conoscenza», ovvero nella somma degli investimenti in ricerca e in educazione. Secondo i dati Ocse, in Italia non raggiungono il 2,5%, in Francia (3,7%), Gran Bretagna (3,7%) e Germania (3,9%) non raggiungono il 4% del Pil. Mentre in Canada assommano al 4,7%, in Giappone al 5,0%, in Corea del Sud al 5,9%, negli Usa addirittura toccano il 6,6% del Pil.
Forse è esagerato parlare di declino dell’Europa della conoscenza. Ma è certo che il mondo corre e l’Unione fatica a tenergli dietro.
Inoltre bisogna tener conto della frammentazione delle politiche europee per l’alta educazione e la ricerca scientifica. Malgrado il «processo di Bologna» sia stato avviato e il primo gennaio del 2007 sia partito il Settimo Programma Quadro per la ricerca, malgrado numerosi altri impegni per lo sviluppo di piattaforme tecnologiche e per la ricerca di nuove fonti energetiche, e i recenti “Consigli Competitività” dell’Unione (tenutisi a Bruxelles e Wurzburg, dedicati al tema) fatichiamo a costruire lo «spazio europeo dell’istruzione e della ricerca».
A cinquant’anni dai Trattati di Roma, insieme alla Costituzione europea e all’accelerazione del programma di integrazione politica, questo è l’obiettivo che dobbiamo darci, richiamando alla mente l’Europa del Seicento. Non pensiamo di poter vincere come singoli paesi la sfida della conoscenza. O vinciamo insieme, e possiamo vincere, o perdiamo tutti.
Non esiste in Europa un luogo privilegiato per la scienza e per l’educazione. Perché quel luogo è l’Europa stessa.
 
 


 
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