Anna Maria Angelone intervista Salvatore Settis, direttore della Normale di Pisa
26 February 2007

Commissioni incompetenti, sistema inquinato, troppi laboratori: l’accademico che guida uno dei poli di eccellenza universitaria spiega cosa non funziona nel nostro Paese.


Parlare di ricerca con Salvatore Settis è un po’ come prendere il tè con la regina Elisabetta. Nessuno quanto il direttore della Normale di Pisa, fondata da Napoleone come succursale dell’Ecole Normale Superieure di Parigi e fucina di talenti da generazioni, conosce quel mondo. E nessuno più di lui, che prima di ogni maturità raduna il fior fiore degli studenti italiani al solo scopo di orientarli nella scelta universitaria, crede alla necessità di puntare sulla qualità dei «cervelli» e sul merito.

Un gruppo di cento docenti e ricercatori italiani ha consegnato al ministro dell’Università e ricerca Fabio Mussi una lettera per denunciare «la gestione superficiale e poco trasparente dei fondi pubblici per la ricerca universitaria». Il caso riguarda la recente valutazione dei progetti 2006. Un commento?
Non sono in grado di dare un giudizio. Credo che il ministro voglia innovare ma è vero che il sistema non funziona come dovrebbe. E anzi ora si sta, per così dire, «riparrocchializzando».

Si auspicano commissioni di «esperti stranieri avulsi da inciuci locali per spazzare il casereccio e canceroso apparato clientelare».
Il sistema italiano è, da sempre, troppo autoreferenziale: io valuto te, tu valuti me. Anche senza disonestà, finisce con l’essere inquinato. I ricercatori debbono essere valutati da esaminatori esterni con competenze specifiche nello stesso ambito, a livello nazionale e internazionale. Diversamente, se si intende affidare il compito a funzionari o burocrati ministeriali, questo non può che portare al disastro nazionale.

Un passo indietro alla Finanziaria: come vede gli stanziamenti alla ricerca?
Su questo siamo tutti d’accordo: il ministro Mussi ha combattuto valorosamente la battaglia ma l’ha persa. Perché non è riuscito a impedire la riduzione su qualcosa che era stato già ridotto.

Eppure, ogni governo vi promette più risorse...
Già, ma poi si ripete la solita storia. Qualcuno ci deve spiegare perché ogni anno è «l’anno in cui c’è bisogno di tagli e non se ne può fare a meno». Il nostro Paese sembra non essersi reso conto di quanto è rimasto indietro. Gli altri hanno continuato a investire sempre di più mentre l’Italia, pur crescendo economicamente negli anni, non l’ha fatto.

La spesa pubblica per la ricerca non è molto lontana dalla media Ue. Non è così per quella privata. Come mai?
La ricerca del settore privato è cronicamente bassa e scende, in controtendenza rispetto agli altri. È un problema di deficit culturale: le nostre imprese trovano interessante solo ciò che dà i suoi frutti domani. Questo impoverisce la ricerca di base: quando si comincia, non si sa mai se un progetto produrrà qualcosa industrialmente. Ma se non fossimo andati avanti, oggi non avremmo neppure un computer sulla scrivania.

Tornando alla Finanziaria, lei ha criticato gli 8,4 milioni di euro alla Scuola europea di Parma e 1 milione alla Fondazione collegio europeo della stessa città. Cosa non va?
Non riesco a capire bene la ratio con cui sono stati assegnati soldi in questi due casi. Si tratta di finanziamenti a pioggia che non portano a nulla. Insomma, si intuisce che in queste circostanze ci sia la presenza di qualche politico locale che fa pressione per la sua città. Nulla di strano, ma perché ridurre ancora i fondi a disposizione con simili interventi?

Lei non condivide l’equiparazione fra collegi universitari di enti ecclesiastici e pubblici. Perché?
La parità fra collegi di enti ecclesiastici, che a quanto mi risulta sono centinaia, e quelli pubblici sottrae ulteriormente fondi. Dobbiamo dividere lo stesso contributo per più enti: farlo in un momento in cui le risorse scendono non è buona amministrazione.

I rettori contestano anche il decreto Bersani che riduce del 20 per cento la spesa «intermedia». Hanno ragione?
La misura tocca di più le università che hanno esagerato ma non solo. C’è un tetto per la spesa del personale: impone che non superi il 90 per cento delle entrate. Ma molti atenei hanno oltrepassato addirittura il 100 per cento. Ciò detto, perfino quelli più virtuosi non riescono a sopportare questo taglio alla spesa che, indirettamente, finisce per colpire la didattica e la ricerca.

Molti pensano che riunire i finanziamenti in un unico fondo (il cosiddetto First), come ha voluto il ministro Mussi, farà perdere la ricerca di base fatta dalle università a vantaggio di quella industriale. È così?
No. L’idea è buona e l’università deve saper competere.

In Italia ci sono oltre mille laboratori di ricerca universitari. Quanto è alto il rischio duplicazione?
È un punto chiave: uno dei più grossi difetti della nostra università è che, mentre diventava di massa, ha avuto meno fondi. E non si è capito che questo imponeva una selezione. Ovunque si apra una facoltà, tutti vogliono avere un laboratorio per ogni materia: non si può. Come non si può attivare un dottorato di ricerca su ogni tematica. Prenda l’Università di Lecce: pur essendo di recente fondazione, ha due settori, nanotecnologie e archeologia, fra i migliori d’Italia. È meglio concentrarsi laddove si eccelle: il pulviscolo dei «laboratorielli» non produce nulla di buono.

L’età dei nostri docenti resta fra le più alte d’Europa. Perché un giovane non riesce a salire in cattedra?
È drammaticamente patologico ma in Italia vige il principio di anzianità e località: vince il concorso il candidato più anziano e di quel luogo. La riforma del ministro Moratti era partita bene ma è finita male perché si è scontrata con la logica corporativa che domina il mondo accademico e della ricerca. Tuttavia, ha portato una nuova normativa per i concorsi prevedendo una verifica nazionale. Ma, come noto, mancano i regolamenti per attuarla.

E non si possono fare?
C’è un piccolo giallo: Letizia Moratti mi ha assicurato di aver lasciato pronti i decreti attuativi, i collaboratori di Mussi giurano che non ci sono. In ogni caso, si possono scrivere in una settimana. Ma ora la situazione rischia di peggiorare.

Perché?
C’è una proposta del senatore Fulvio Tessitore per cancellare quanto introdotto da Moratti. È perverso presentare una nuova legge: ci metterà almeno tre anni per essere approvata e bloccherà ancora i concorsi. Davanti a questa prospettiva un giovane cosa farà? Inevitabilmente andrà all’estero. E da noi resteranno i peggiori.

Anna Maria Angelone

Fonte: http://www.panorama.it


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