L’economista Giavazzi sul Corriere della Sera: "Non servono piu soldi senza nuove regole". Risposta di Domenico Jervolino sulle colonne di Liberazione: "la conoscenza &è; un bene comune non mercificabile ed &è; base della cittadinanza democratica"
20 November 2006

R A S S E G N A   W E B
 
L’economista Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 14 novembre 2006: "Errori e miti sull’università: non servono più soldi senza nuove regole. Le università nella maggior parte dei Paesi europei, non solo in Italia, funzionano in base a quattro principi, tutti sbagliati....".

Immediata risposta, il giorno dopo, di Domenico Jervolino sulle colonne di Liberazione:  "la conoscenza è un bene comune non mercificabile, ed è la base della cittadinanza democratica..."

  

Francesco GavazziLA SCHEDA
L’economista Francesco Giavazzi - docente di Economia politica all’Università “Bocconi”, della quale è stato pro-rettore alla ricerca - è nato a Bergamo nel 1949. Dopo la laurea in ingegneria, conseguita nel 1972 al Politecnico di Milano, ha conseguito il dottorato in economia nel 1978 presso il Massachusetts Institute of Technology (MIT) di cui è “visiting professor”. Tra il 1992 ed il 1994 è stato dirigente generale del Ministero del Tesoro quale responsabile della ricerca economica, gestione debito pubblico e privatizzazioni. Dal 1998 al 2000 (governo D’Alema) è stato consigliere economico della presidenza del consiglio dei ministri. Attualmente fa parte del gruppo di consiglieri economici del presidente della Commissione Europea. Ha inoltre rivestito cariche amministrative e dirigenziali presso INA, Banco di Napoli, CEPR (Centre for Economic Policy Research) e NBER (National Bureau of Economic Research).
Francesco Gavazzi - che si è aggiudicato l’edizione 2005 del premio “È Giornalismo”, istituito da Indro Montanelli, Enzo Biagi, Giorgio Bocca e Giancarlo Aneri - è  fra i fondatori del sito di critica politica ed economica lavoce.info, collabora con il Corriere della Sera di cui è editorialista economico e con www.project-syndicate.cz, archivio on-line con articoli di economisti di varie nazionalità. 


L’ ARTICOLO di Francesco Giavazzi
Corriere della Sera del 14 novembre 2006
Le università nella maggior parte dei Paesi europei, non solo in Italia, funzionano in base a quattro principi, tutti sbagliati: l’istruzione universitaria non è pagata dalle famiglie, ma dai contribuenti; il contratto di lavoro e le regole di assunzione dei docenti sono quelli del pubblico impiego; le leggi e le procedure che regolano le università sono spesso centralizzate e quasi sempre rigide; le retribuzioni dei professori non sono differenziate e il fine più o meno esplicitamente dichiarato della politica universitaria è l’equiparazione della qualità dell’insegnamento e della ricerca tra i diversi atenei.
La discussione sul futuro delle università è piena di miti che negli anni hanno prodotto politiche per lo più sbagliate. E non è una sorpresa, perché i professori hanno un forte incentivo ad impedire che ciò che non funziona venga corretto e talvolta cercano di proteggere i propri privilegi usando la loro influenza anche come opinion makers.
Una tipica lamentela è la mancanza di risorse: «I nostri stipendi sono miseri e in più non ci sono soldi per la ricerca». Innanzitutto non è vero (si vedano i confronti di Roberto Perotti tra costi e produttività nelle università in Italia e Gran Bretagna, che Alberto Alesina ed io abbiamo spesso citato). Ma perfino se il problema fossero le risorse, buttare più denaro in queste università senza prima cambiare le regole arcaiche che le governano significherebbe aumentare sprechi e privilegi, perpetuare un sistema che impedisce la concorrenza fondata sul merito, non migliorare la ricerca.
Prima dei finanziamenti conta la struttura degli incentivi: in Italia una volta entrati nell’università ci si resta per sempre, anche chi non fa più nulla. Lo stipendio cresce solo con l’anzianità, il merito è irrilevante: perché fare uno sforzo per eccellere? Le nomine sono governate da un complesso procedimento burocratico che implica innumerevoli «giudici» scelti in tutto il Paese. Questo processo dovrebbe «garantire » la scelta dei migliori, ma non è così. In realtà i «giudici» favoriscono i gruppi d’interesse interni e i loro protetti, invece di privilegiare la qualità della ricerca o dell’insegnamento.
E’ vero che nell’università i giovani sono pagati poco, ma queste retribuzioni fanno parte di un patto implicito: in cambio della cattiva paga chiunque abbia un posto lo mantiene automaticamente. Non c’è bisogno di produrre ricerca di buon livello. E poiché le retribuzioni sono basse i presidi chiudono gli occhi di fronte a insegnanti pigri e assenteisti e a scarsa ricerca. È certamente vero che alcune ricerche sono costose, che i buoni cervelli non sono a buon mercato. Ma solo introducendo un po’ di concorrenza tra le università le risorse si sposteranno dalla mediocrità all’eccellenza.
Non sorprende più nessuno che le università americane attirino i migliori studiosi d’Europa. Ciò che è sorprendente di fronte a questa fuga di cervelli è il potere della lobby dei professori universitari - spesso gli stessi che pontificano sul beneficio della concorrenza in altri settori - nel bloccare le riforme. «Luoghi comuni», diranno molti miei colleghi, «l’università è molto cambiata». Vorrei crederlo. Se davvero lo fosse il ministro Mussi avrebbe un modo semplice per dimostrarlo: assegni una quota significativa delle risorse in base alle valutazioni che il suo stesso ministero, tramite il Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca (Civr), ha appena svolto. Da questo anno accademico, non «in futuro» come invece ha annunciato.
Francesco Giavazzi
Università Bocconi


 

    

LA SCHEDA
Domenico Jervolino (all’anagrafe "Iervolino", djervol@tin.it) è nato a Sorrento nel 1946 ed insegna, quale professore associato, filosofia del linguaggio e filosofia teoretica all’Università di Napoli Federico II.
Già borsista dell’Istituto Croce e del governo tedesco a Heidelberg - è autore di diversi studi filosofici e saggi politici - ha  partecipato ai principali volumi collettivi pubblicati su Ricoeur in Francia, Spagna, Inghilterra  e Stati Uniti e continua, attualmente, i suoi studi fenomenologici.
Domenico Jervolino - dirigente dell’Associazione internazionale per la Filosofia della  Liberazione e della International Gramsci Society - dirige la  rivista “Alternative” di Roma e collabora a numerose riviste italiane e straniere, tra cui  “Concordia” di Aachen, “Actuel Marx” di Parigi, “Lingua ac Communitas” di Poznan, “Liberación, Libertaçao” di Curitiba,  “Il tetto” di Napoli, “Filosofia e teologia” di Roma, “Segni e comprensione” di Lecce.

L’ARTICOLO di Domenico Jervolino
Liberazione del 15 novembre 2006

Risposta a Francesco Giavazzi
L’eccellenza negli studi non è assicurata dalle parcelle più o meno elevate
Il Corriere della Sera di ieri pubblicava in prima pagina un editoriale dell’economista Francesco Giavazzi intitolato “Errori e miti sull’università”. Tale intervento che, come da un po’ di tempo capita, vuol dare la linea al governo e al Parlamento, afferma perentoriamente che le università nella maggior parte dei paesi europei, non solo in Italia, funzionano in base di quattro principi tutti, a suo giudizio, sbagliati: l’istruzione universitaria non è pagata dalle famiglie ma dai contribuenti, il contratto di lavoro e le regole di assunzione dei docenti sono quelli del pubblico impiego, le leggi e le procedure che regolano le università sono spesso centralizzate e quasi sempre rigide, le retribuzioni dei professori non sono differenziate e il fine più o meno esplicitamente dichiarato della politica universitaria è l’equiparazione della qualità dell’insegnamento e della ricerca tra i diversi atenei.
Secondo Giavazzi occorre invece fare esattamente il contrario e fino ad allora è denaro sprecato dare soldi alle università. Sottinteso, nemmeno tanto implicito, degno di una ferrea logica del tanto peggio tanto meglio, meglio che l’università attuale affoghi, come temono rettori e premi Nobel, piuttosto che investire un euro di più in essa. Lasciamo perdere la facile ironia su ciò in cui l’università attuale sarebbe condannata ad affogare dall’implacabile professor Giavazzi, dato che la finanziaria impone tagli draconiani ai consumi essenziali, incluse le spese per la pulizia. I lettori capiranno.
Da parte mia, non ho la presunzione di essere un oracolo o la bocca della verità, ma oso dire che le quattro tesi che Giavazzi oppone ai cosiddetti quattro errori, rappresentano esattamente il contrario di quello che una politica che voglia essere anche solo moderatamente progressista e popolare dovrebbe fare per l’università e per la formazione in genere. Le spese per l’istruzione da addebitare alle famiglie? In che secolo siamo? E chi è figlio di nessuno o i cui genitori convivono? Dovremo prima legiferare sulle convivenze, evidentemente (magari sì, ma non per scaricare su di esse i costi dell’istruzione). La quale, essendo un interesse prioritario del paese, richiede un intervento massiccio del pubblico, sia dal punto di vista finanziario che politico. Esiste o no qualcosa nella nostra Costituzione (e in genere nelle moderne costituzioni dei paesi democratici) come il diritto allo studio? Il programma dell’unione, frutto in materia di formazione, università e ricerca non di pericolosi estremisti ma di un tavolo presieduto dalla margheritina Franca Bimbi, ha assunto come principio: la conoscenza è un bene comune non mercificabile, ed è la base della cittadinanza democratica. Quindi da estendere il più possibile dall’infanzia all’età adulta, anche ai livelli alti, valorizzando tutti i talenti e tutte le capacità. Del resto sull’Italia pesa come una cappa di piombo non il fatto di avere troppi laureati, diplomati, studenti e docenti-ricercatori ma di averne troppo pochi. Come riconoscono ormai anche banchieri colti e industriali che abbiano capito quanto sia contrario ai loro stessi interessi la depressione del sistema formativo. Oltre che sindacati, studenti e giovani precari, coi quali più facilmente io sono d’accordo. Posso ricordare ai tanti cattolici della politica italiana che il concetto di bene comune lo ha inventato Tommaso d’Aquino? (tra l’altro professore della mia università di Napoli e suo celeste patrono, che tra poco, se continua l’andazzo attuale, dovremo richiamare in servizio perché solo un miracolo ci può salvare). Veniamo alla centralizzazione di leggi e regolamenti: certo il centralismo esiste. Del resto la finanziaria coi suoi tagli a università e ricerca, cervellotici e spesso più costosi nei loro effetti delle spese tagliate, ne è una dimostrazione. Però, altro è chiedere una semplificazione burocratica e normativa, altro è una deregulation che in Italia aprirebbe la strada alle università ad personam e al mercato dell’istruzione, che diverrebbe facilmente, privo di riferimenti a un potere pubblico che detti regole e assicuri controlli, un mercimonio esposto alle infiltrazioni peggiori, che ci farebbero rimpiangere l’università attuale con tutti i suoi ben noti difetti, che non intendo certo difendere. Ma questi nascono non dal suo carattere pubblico, ma dall’uso privatistico del pubblico, dalla sua occupazione in termini clientelari o familistici. Perché il pubblico di per sé sarebbe condannato a non funzionare? Ci sono tanti esempi stranieri che mostrano il contrario. La sfida è farlo funzionare, accettando tutte le pubbliche verifiche e tutte le valutazioni (ben vengano), purché trasparenti e ispirate all’interesse complessivo della società e non a quello di privati (non si vedono molti mecenati in giro) o di poteri forti. Non credo proprio che la soluzione sia la mercificazione del sapere, ispirata a una logica utilitaristica secondo cui lo scienziato o l’uomo di cultura rende di più perché è più pagato. Altro è chiedere retribuzioni dignitose e abolizione del precariato, altro è stabilire il principio che vali tanto quanto guadagni.
Molti secoli fa Socrate sostenne, fino a pagare con la vita, che la verità non ha prezzo. Permettetemi di seguire nella mia concezione del mondo e della vita Socrate e Tommaso piuttosto che Giavazzi. Credo di non essere il solo. L’eccellenza negli studi alla quale è giusto aspirare (e che è l’unico terreno sul quale invitare a una competizione che garantisca a tutti uguali opportunità) non è assicurata dalle parcelle più o meno elevate; considero cattivi maestri quelli che indicano la via del successo mercantile ai giovani che vogliono dedicarsi alla ricerca e all’insegnamento. Quanto a me, difendo la funzione pubblica del docente universitario, che peraltro è una funzione tanto particolare che i docenti universitari sono gli unici ad essere esonerati dalla Costituzione repubblicana dal prestare giuramento. Perché devono essere fedeli piuttosto alla verità e alla loro coscienza che allo stesso Stato. Figurarsi se si deve chiedere loro di essere fedeli al portafoglio!
Domenico Jervolino
Università di Napoli Federico II


 

 

 
 

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