Convegno internazionale di ampio respiro sull'opera dello studioso sardo, a 100 anni dalla nascita. In Aula Maria Lai si sono confrontati sui suoi studi docenti e ricercatori di tutto il mondo: in tutti gli interventi è emerso l'estremo rigore della sua ricerca, il metodo e la passione che costringono a confrontarsi senza retorica sui suoi scritti, a partire dalla nuova edizione del volume più noto
25 June 2022
Luigi Guiso, Alberto Bisin, Paolo Carta, Francesco Mola, Carlo Mannoni e Giuseppe Bandinu

Precursore di molte ricerche sociologiche ed economiche dei decenni successivi, Antonio Pigliaru resta un punto di paragone ineliminabile per chi vuole comprendere alcune dinamiche particolarmente profonde della società sarda

Sergio Nuvoli

Cagliari, 25 giugno 2022 - Un intellettuale del secolo scorso che, con la forza delle sue argomentazioni, costringe ancora oggi esperti di diverse discipline a confrontarsi con le sue idee, a distanza di 100 anni dalla sua nascita e circa 70 dalla pubblicazione del suo volume sul codice della vendetta barbaricina. Questo è stato, ed è tuttora, Antonio Pigliaru, giurista, filosofo ed etnografo sardo in grado di condurre – negli anni ’50 - un ampio lavoro di ricerca per descrivere l'insieme informale di regole che per secoli hanno governato la vita sociale ed economica degli abitanti della Barbagia.

Quanto sia stato precursore di molte ricerche sociologiche ed economiche dei decenni successivi l’ha dimostrato la tavola rotonda di questa mattina, nell’ambito del convegno internazionale organizzato anche in occasione della nuova edizione del suo volume più noto, la cui presentazione è firmata da Paolo Carta, docente all’Università di Trento: “L’idea era lavorare per consegnare tutto il lavoro di Antonio Pigliaru alla comunità – ha rimarcato intervenendo questa mattina in Aula Maria Lai - affrontando problemi prima di tutto filologici, cercando di capire i suoi scritti in modo scientifico. All’inizio, il mio interesse era terminare un lavoro sui suoi libri meno conosciuti, non pensavo al libro sul codice della vendetta barbaricina: quello era per me una specie di mito intoccabile. E’ l’esatto opposto di chi lo aveva conosciuto e lo aveva descritto fino ad allora: il suo unico interesse era comprendere una serie di norme consuetudinarie lavorando sugli estremi. Una comunità che ha una consuetudine nel diritto penale è il punto più estremo”.

Paolo Carta, docente all'Università di Trento e autore della presentazione della nuova edizione dell'opera di Antonio Pigliaru
Paolo Carta, docente all'Università di Trento e autore della presentazione della nuova edizione dell'opera di Antonio Pigliaru

Il Rettore Francesco Mola: “C’è sempre il rischio della retorica nelle celebrazioni. In questo caso non è così, plaudo all'impostazione scientifica data ai lavori del convegno, che mette in risalto l'importanza della ricerca per il nostro Ateneo"

L’opera di Pigliaru – altro dettaglio che ne rende ancora più grande l’intuizione – costringe anche gli studiosi a confrontarsi personalmente con la sua ricerca, senza infingimenti o timori: “In realtà lo studiavo – ha confidato infatti Carta - perché volevo capire le domande sul mio presente, di docente sardo che insegna a Trento, non solo le sue. Non c’è un’evoluzione nel suo pensiero, lui recuperava qualunque occasione per capire ciò che stava tentando di studiare. Quindi il riferimento ad altri studiosi è utile solo se ci aiuta a capire. Non abbandonava nulla, portandosi dietro tutto il bagaglio per comprendere l’oggetto dei suoi studi. E’ uno studioso empirico”.

Pochi minuti prima era stato il Rettore Francesco Mola a mettere in guardia la folta platea nella sala arricchita da un’opera dell’artista di Ulassai: “C’è sempre il rischio della retorica nelle celebrazioni – ha sottolineato il Magnifico - In questa iniziativa non è così, perché è stata impostata dal punto di vista scientifico, e questo mi fa piacere perché consente di ricordare che Francesco Pigliaru (il figlio di Antonio, docente di Economia politica di UniCa, ndr) è stato anche prorettore alla ricerca del nostro Ateneo. Lui sa quanto stiamo investendo in ricerca, e i risultati si vedono”.

“Il ragionamento su Antonio Pigliaru non può essere settoriale – ha avvertito il Rettore - emergono alcuni elementi su cui nell’ultimo periodo si sta battendo molto. Uno di questi, che mi sforzo di infondere, è la fiducia, un aspetto spesso trascurato ma molto importante. Sono uno statistico, e so bene che la fiducia è difficile da misurare, però si sta tornando in presenza, questo è il dato più importante. So per certo che qualche appassionato delle conferenze a distanza dirà che stando a distanza anche la vendetta potrebbe essere meno cruenta. Ma il valore aggiunto della socialità e dello stare insieme non può essere messo in discussione. Quindi grazie per aver tenuto l’evento in presenza”.

Il Rettore Francesco Mola durante il suo intervento
Il Rettore Francesco Mola durante il suo intervento

Giuseppe Lorini (docente di Filosofia del diritto del nostro Ateneo): "In Antonio Pigliaru mi colpisce l'idea di un ordine speciale spontaneo senza un potere centralizzato e un'antropologia giuridica fatta sul campo"

“Trattiamo di temi fondamentali sia per i nostri giovani sia per la nostra società – ha messo in evidenza Carlo Mannoni, direttore generale della Fondazione di Sardegna - Il vostro lavoro non ha solo una valenza scientifica: sarebbe utile trasferire e disseminare ciò che dite nella società. In termini di strategia la nostra isola è presa più dalle emergenze, ma questo non ci impedisce di dire che ciò di cui dibattete deve diventare un patrimonio condiviso anche al di fuori dall’accademia”.

“Personalmente – ha aggiunto Paolo Carta - mi sto appassionando alla bright side: ho di recente lavorato sulla transizione ecologica, sul rapporto tra uomo e natura che obbliga a ripensare una certa ideologia (nei parchi si parla di rewilding). Si sta tornando ad una dimensione di comunità di cui Pigliaru parla: a livello internazionale è una dimensione fondamentale. Il rapporto tra uomo e natura descritto dal pensatore di Orune sta tornando all’attenzione di tutti, proprio con il rewilding”.

Anche Giuseppe Lorini, docente di Filosofia del Diritto nel nostro ateneo - ha accettato l’impostazione che discende dagli studi di Pigliaru durante la tavola rotonda moderata da Alberto Bisin (New York University): “A me colpirono le idee legate alla vendetta barbaricina – ha detto – Fino ad allora vivevo nel positivismo giuridico, io che oggi nei miei corsi insegno gli scritti di Pigliaru. Da giurista mi colpisce l’idea di un ordine speciale spontaneo, senza un potere centralizzato, un diritto popolare senza legislatore che va avanti attraverso norme consuetudinarie. L’altra idea che mi ha sempre colpito è di un’antropologia giuridica fatta sul campo. Poi il pluralismo giuridico, l’idea cioè che sullo stesso territorio possano convivere due codici, come quello barbaricino e quello italiano. Pigliaru compie una ricerca su cos’è la norma, si pone con forza la questione dell’ontologia della norma. Lui studia quelle verbali, e cerca di dargli una configurazione linguistica. Anche per questo a me è successo di occuparmi di due forme di norma diverse: la prima è di norme disegnate (anche i disegni possono avere una funzione giuridica, pensate ai segnali stradali), norme non verbali. E poi l’ambito delle norme animali: sono possibili norme nelle comunità animali? Tra gli etologi c’è qualche supporto a questa teoria”.

Il Rettore con Carlo Mannoni
Il Rettore con Carlo Mannoni

Di grande pregio la testimonianza di Giuseppe Bandinu, magistrato del Tribunale di Roma con un passato da pastore: "Da grande ho capito che stavamo partecipando ad una pedagogia diffusa. Vivevamo in strada, e tutti gli adulti ci potevano rimproverare"

“Ho vissuto il codice della vendetta sulla mia pelle prima di leggerlo – ha esordito Giuseppe Bandinu, giudice del Tribunale di Roma, con un racconto autobiografico personale quanto sorprendente - A Bitti, a 10 km da Orune, quando Pigliaru stava raccogliendo il codice, io lo stavo imparando per strada in campagna. Avevo 7 anni quando lui è morto, parlavo l’italiano da pochi mesi, perché per 6 anni in casa e fuori avevo sempre parlato in lingua sarda. La scuola ha iniziato a insegnarmi l’italiano e mi ha cambiato il nome. Mi chiamavo Peppeddu Chessa, perché usavano il cognome di mia bisnonna, mentre per la scuola ero diventato Giuseppe Bandinu”.

“Da grande ho capito che stavamo partecipando ad una pedagogia diffusa nel paese – ha aggiunto il magistrato - Vivevamo in strada, e tutti gli adulti ci potevano rimproverare se le nostre azioni non avessero corrisposto a quelle dei valori condivisi dalla comunità. Si trattava di una comunità chiusa e coesa al proprio interno".

“Era un paese pastorale. L’ideologia della comunità del paese era che il pastore era il campione della comunità: poi che fosse bandito non c’era differenza. La scuola ufficiale ci vietava di parlare in sardo, ci cambiava il nome, il quotidiano incuneava in noi un pensiero, un modo di fare che da grandi avremmo avuto con situazioni avverse nella vita. E la nostra reazione avrebbe potuto essere banditesca, quindi bisognava allenarci ad essere forti, reazionari”.

“Pigliaru dice che deve essere l’uomo con la sua virtù a dominare la fortuna. Quella scuola “alla macchia”, o scuola impropria come la chiama Michelangelo Pira, era talmente forte che tanti di noi alla fine della scuola dell’obbligo, nonostante fossimo bravini e diligenti, a 14 anni scelsero l’ovile. Tutto era meno che un luogo di lavoro: certo, era anche quello, e diventavamo giovani pastori, io l’ho fatto per 10 anni. Poi proprio grazie a Pigliaru ho ripreso i libri in mano”.

“A 23 anni lasciai il gregge e mi rimisi a studiare - ha concluso Bandinu - Feci il liceo, quindi Giurisprudenza che conclusi con una tesi sul banditismo sardo. Dissi al professore che volevo studiare Pigliaru e Michelangelo Pira. Poi ho fatto ricerca, didattica. Ora faccio il magistrato, per 15 anni sono stato giudice di sorveglianza, ora da 10 sono giudice minorile, mi occupo di ragazzi che commettono reati. Con questo paradigma nuovo di interpretazione del crimine, con la giustizia riparativa, li metto l’uno davanti all’altro. Ma questo modo di fare l’ho imparato all’ovile, me l’hanno insegnato i “probi homines”. Sono cose che avevo imparato nella mia infanzia”.

Giuseppe Bandinu
Giuseppe Bandinu

“Si vede in Pigliaru una capacità straordinaria di percepire la vicenda umana nella sua realtà e trarne conseguenze in ambito giuridico, in lui c'è una grande sensibilità per l'uomo", così Giuseppina De Giudici, docente di Storia del Diritto

“Si vede in Pigliaru una capacità straordinaria di percepire la vicenda umana nella sua realtà e trarne conseguenze in ambito giuridico – ha osservato Giuseppina De Giudici, docente di Storia del Diritto medievale e moderno del nostro Ateneo – C’è una grande sensibilità per l’uomo e per la società: Pigliaru sfugge al comodo rifugio della rappresentazione del diritto che tutto contiene. E’ un’idea che si scontra con la realtà effettiva. La vendetta barbaricina è un capitolo della storia dell’uomo: una microstoria che diventa un pezzo della storia. L’approccio non è dogmatico ed è interessante: lui è sollecitato dalla recrudescenza della criminalità negli anni ‘50 e dal varo del Piano di Rinascita. C’è un rischio nello studio del banditismo: non è solo un problema di ordine pubblico, e Pigliaru lo inquadra in una dimensione scientifica e offre le coordinate per comprenderlo”.

“C’è un legame tra vendetta e pace sociale – ha messo in luce la prof.ssa - Sembrano in antitesi, invece la vendetta è un sistema di giustizia privata a che aspira a ripristinare un ordine leso, quindi aspira alla pace. Nel diritto tradizionale sardo troviamo la caratteristica del mediatore degli “homines de corona”, dei “probi homines” che sono peculiari in una cultura identitaria che sa darsi delle norme proprie. E’ una figura che nasce in Sardegna nel XIII secolo e arriva fino all’oggi. I sociologi del diritto lo dimostrano: sono uomini a cui ci si rivolge come intermediari con una forza che nasce dall’esperienza, dalla rettitudine, dalla qualifica all’interno della comunità. E’ interessante vedere come questo ruolo abbia determinato un mancato legame con il centro, e quindi abbia dato luogo a comunità chiuse anche per la loro natura geografica (in luoghi isolati, senza connessioni, ecc.)”.

Giuseppina De Giudici durante il convegno di questa mattina in Aula Lai
Giuseppina De Giudici durante il convegno di questa mattina in Aula Lai

Luigi Guiso (EIEF): "Grazie all'opera di Pigliaru è possibile osservare la transizione, estremamente lenta, dal sistema arcaico ad un sistema moderno nella regolazione dei conflitti"

“Banditismo e vendetta, l’uno è un po’ il riflesso dell’altra – ha concluso Luigi Guiso (docente all'Einaudi Institute for Economics and Finance) - Questo è il punto di potenziale disfunzione del codice. L’uomo da solo regola se stesso, il suo nemico è il suo io di domani. Deve darsi qualche strumento, qualche regola e finisce lì. Ma se ci sono due persone, che creano una comunità, occorre regolare il conflitto, bisogna inventare delle tecnologie perché questo avvenga, per sopravvivere e convivere. Una tecnologia è darci norme culturali, regole di comportamento. Il libro di Pigliaru è una transizione dal sistema arcaico a un sistema moderno. Noi abbiamo il privilegio di osservare questa transizione in azione. Come si fa a passare da una struttura culturale a una struttura formalizzata? E perché c’è l’esigenza di questa contraddizione? La Sardegna offre la possibilità di studiare questo scontro, impariamo che si tratta di una transizione estremamente lenta, ma questa è la ricerca sulla frontiera di codici formali e codici culturali. Il nostro vantaggio è che possiamo oggi capire i nessi tra queste due componenti fondamentali”.

Il convegno è poi proseguito secondo il programma indicato, con le due sessioni scientifiche e le conclusioni.

Luigi Guiso con Alberto Bisin
Luigi Guiso con Alberto Bisin

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